Alfabeta - anno III - n. 28 - settembre 1981

di paragone e un punto di riferimento. Perché si dimostra irriducibile nella difesa degli errori e insieme disponibilissimo al nuovo, in una precisa fase dialettica. Il ritorno di Leonetti al fare letterario dopo tanti anni di militanza politica (di lotte «frontali», appunto) ha attraversato un primo momento che definirei «cronachistico»: Percorso logico e In uno scacco rimangono ai miei occhi punti di passaggio e la conferma viene proprio da qui, da Campo di battaglia, dove dalla cronaca-resoconto si arriva a quell'incadenscente memoria-attualizzante che sto cercando di delineare. La scrittura non può che essere, a questo punto, decisiva ed è proprio nel fare scrillura (dunque: nel guidarci lungo il percorso) che Leonetti dà la misura eccellente del suo progetto: la scrittura come riscatto politico. Il rammemorare come ripresa dell'essere in chiave tutta materialistica. Basti citare queste righe, di pagina 47, in corsivo: «Lo zinco lucido, gli apparecchi rutilanti, le memorabili corse fino al supremo istante, tutto è cosl nel superficiale nulla, in un posto latente e oscuro che invece emerge ormai e dice la sola verità. La grida in silenzio. La vita collettiva è una periferia, ridotta a rottame, a cascame di antichità, con trombe che non suonano né marce né qualche falsetto, afflosciante, in un'aria che alle palpebre fa puntura d'irritazione continua, tra gocce fredde di pianto.» Proprio perché Francesco Leonetti ha ritrovato il suo ritmo straordinario, quasi da virtuoso, Campo di bat1aglia può reggere in tutto il suo percorso la felicità dello splendido avvio della parte più strettamente dedicata all'ospedale, dove il comico teorizzato, come si sa, da Bachtin, funziona esattamente da elemento straniante, carnevalesco: e l'ospedale diventa il luogo della vitalità contro la morte esorcizzata da una sessualità continuamente affiorante e controllata senza rimozioni, senza rimorsi. Si troveranno cosl nella parte centrale del libro (pagine 88 e 89) due tra le più belle poesie che Leonetti abbia scritto, tanta è l'urgenza di quel ritmo ritrovato e assecondato. So bene che alcuni lettori hanno avuto e potranno avere delle impazienze per le parti più propriamente politiche del «romanzo» (e di romanzo nel senso più fondo del termine si tratta: di processo di trasformazione, dunque) ma hanno avuto e avranno torto, perché la noiosa disperazione del racconto degli scacchi politici è memoria necessaria alla preparazione del progetto finale, che è progetto netto di rinascita, di ricominciamento, con un passaggio arduo ma inevitabile dentro una visione diversa, rigenerante, cosmica, della natura. Attiro l'attenzione sulla frase di Dino Campana citata in epigrafe: «Noi ci svegliammo piangendo ed era l'azzurro mattino» e vi invito a saltare alle ultime righe di Campo di battaglia che cosi suonano: «... per noi che siamo volentieri ghiri, per noi certamente quando avviene il risveglio, che avviene a un suono di corno d'avorio, l'essere diventerà differente ... L'essere allora in noi è un'altra forma: una forma priva dell'intelligenza, che si è dimostrata inutile e a mezza via; invece una forma di vita naturale che forse è anche sensibile: e svegliandosi come pietre è l'azzurro mattino del paradiso.» N e i nuclei di resistenza di Malerba e Leonetti sono il riscatto sociale del sogno e il fare scrittura, anche con artigianale sapienza, anche come riscatto politico, il nucleo attivo de Il lanciatore di giavel/0110 di Paolo VoiAltafulla, Tarragona, Spagna. Labirinto policromo, da edificio romano (230 d.C.) poni è quello dell'irriducibile bisogno di creatività che nel romanzo si manifesta e si compie soprattutto nel modo in cui si articola la narrazione. Sono infatti d'accordo con quello che ha scritto Angelo Guglielmi a proposito della trama del Lanciatore di giavellotto (Paese sera del 5 giugno '81): si tratta di un puro traliccio utile soltanto a sostenere, nell'attenzione del lettore, la trama più vera, che sta uno strato più sotto quella precostituita. La storia del ragazzo Damin non è quella dei suoi rapporti con la madre e con una società iniqua e oscena, ma la storia dello svelarsi del nucleo pulsionale che la storia tradizionale ricopre, il nucleo del suo essere creativo, cosi forte da costringerlo quando si svela del tutto, a un volo mortale e perfetto come il lancio perfetto di un giavellotto, come una curva disegnata da una mano lasciata libera di agire su un foglio candido. Così il colpo di roncola che Damìn sferra sul collo della sorella Lavinia quando il corpo di lei si rivela in tutta la sua possibile creatività erotica, immagine di una creatività assoluta e irraggiungibile, lascia il segno come il gesto impossibile verso un'apertura totale che una società ormai fascista è tornata a proibire: il nucleo pulsionale rimosso una volta liberato dal processo creativo, se trova dinnanzi a sé la chiusura di una mancata risposta sociale (in una parola: il fascismo) non può che esplodere in un gesto di morte. Nonostante questo rischio la creatività originaria deve essere sempre e comunque liberata, ieri come oggi. La dimostrazione di quanto ho detto sta nei passaggi narrativi, cioè in quei momenti in cui la scena cambia e si procede oltre: questi passaggi sono tutti lirici, imprevedibili quanto invece era prevedibile la trama-traliccio di cui si è detto. In altre parole: dato un certo traliccio (una trama già nota) la narrazione si sviluppa e snoda per merito .delle immagini che la mente creativa di Damln scopre all'improvviso. Un esempio lampante mi sembra il seguente: «Cosa insegnano l'Iliade e l'Odissea? Non tutti sono Achille o Agamennone, e nemmeno Aiace e nemmeno Ulisse o Ettore: qualcuno può essere Menelao. Tanti invece i marinai, gli arceri, i fanti, i portatori; i portatori di provviste, di armi, di vasi. Vasi, - ripeté Damìn a se stesso, - pieni di tempo e di sciagura. Usci quel giorno dalla scuola con il proposito di allevare tortore.> (p. 55) Ecco, con questo scatto, il proposito di allevare tortore, inpreveduto e inprevedibile, comincia un'altra fase del narrare. f:. ciò che intendo per snodo narrativo lirico. Ma ci sono almeno altri due passaggi che occorre sottolineare in rapporto a quella riaffermazione della creatività di cui ho detto. Il primo è la scoperta del giavellotto (anche questo un passaggio lirico): «Nel pomeriggio Damìn corse al campo sportivo e dal custode si fece dare, inventando una giustificazione, un giavellotto regolamentare. Si piazzò al margine del campo, brandendo l'attrezzo con un'emozione molto forte che però via via passava e si distribuiva nell'equilibrio che il giavellotto prendeva dentro la sua impugnatura. L'ansia cominciò a vibrare, gli accese la forza di agire e gli dettò la rincorsa e il lancio> (p. 53). Dunque è il giavellotto che «detta la sua légge> a· Damln, la legge della perfezione del materiale artigianalmente elaborato e sarà come la matita e il foglio che chiameranno la mano di Damln alle figure della sua immaginazione nel secondo passaggio di cui voglio pari~ qui, quello della scoperta del disegnare. Leggiamo a pagina 170 e I 71 (i puntini e gli omissis sono miei): «Per il tema di figura disegnò la madre appoggiata a un telaio sul quale era tracciato un ordito nella forma di una grande tela di ragno. Il corpo femminile era chiuso dentro una veste classica... Nel terzo tema disegnò una vallata appenninica sbranata da una brutta stagione di fine inverno ... Nel pomeriggio aspettando la corriera disegnò al tavolo di un caffè dei gruppi di donne nude a caccia di cerbiatti e degli atleti, in riposo anch'essi nudi, languidamente distesi tra i muscoli... Disegnare gli consentiva di poter guardare ancora intorno a sé, di poter sopportare la realtà e anche di comprenderla e conservarla ...> Comprendere, conservare, difendere, creare, vedere il futuro, resistere nel presente, tutti verbi di un progetto di lettura che da Handke a Volponi, attraverso Malerba e Leonetti, e pochi altri, ha oggi una forza e un'energia che mi sembra di potere indossare gli stivali delle sette leghe. CaGrandag: r'°,g~issimvau, ota L a mostra della Ca' Granda organizzata nelle sale di Palazzo Reale dal comune di Milano dall'Ospedale Maggiore e dalla regione Lombardia è davvero tuua da vedere e da lodare. Avrebbe meritato le folle delle due divinità di Riace o del gigantesco Picasso, anche se le stupefazioni e le lodi qui, davanti alle sequele di ritraui, allepiante e ai documenti del suo corpo di cinquecento anni sarebbero state meno clamorose lasciando piuuosto spazio al giudizio, allo studio, a una compenetrazione critica di tono storico e civile. La mostra scopre la capacità, la forza e l'ingegno di una comunità di affrontare e risolvere uno dei suoi problemi umani e sociali piu gravi e minacciosi per il corso della sua vita e del suo. equilibrio: quéllo della ma/auia e de/l'indigenza, delle conseguenti necessità di ricovero e di assistenza; a cominciare dalla metà del quallrocento per giungere fino ad oggi, al momento in cui entrando nel portone di Palazzo Reale può capitarvi di sentire lo strillo di un'ambulanza in corsa verso uno degli infiniti appuntamenti del male. Vedeteprogel/are e sorgere l'ospedale nella metà del quattrocento, « il glorioso albergo de' poveri di Dio, sotto Francesco Sforza, duca quarto di Milano» nei disegni e nelle piante del grande Filarete;le disposizioni dei letti, i meccanismi organizzativi, le avvertenze mediche, i grandi scomparti. Il primo regolamento generale dell'ospedale a stampa redai/o nel cinquecento, esempio fondamentale di disciplina organizzativa sociale, che ordina nei suoi trentasetteparagrafi anche le norme per tu/li gli ufficiali in servizio alla Ca' Granda (non esclusi l'archivista, il sacerdote, il barbiere: nell'ordine) e quelle per l'accettazione e la distribuzione dei malati: all'ospedale del Brolo, gli infelli da morbo gallico; all'ospedale di S. Dionigi, i tignosi; a/l'ospedale di S. Vincenzo, i pazzi, i ciechi, i sordi, i muti; all'ospedale di S. Celso gli infanti esposti; all'ospedale nuovo di Donna Bona, lefiglie adulte esposte; a/l'ospedale di Santa Caterina, le figlie adulte esposte con vocazione religiosa; agli ospedali di Sant'Ambrogio e San Simpliciano, i vecchi, gli storpi, gli affelli da mali incurabili. Via via vi sarà documentata tu/la la vitade/l'enorme ospedale, il piu grande d'Europa, e la vicenda continua della sua fabbrica. li seicento si apre con l'esposizione di un bella annunciazione del Guercino e intanto i documenti prossimi vi dicono quando e da chi è stata commissionata la tela, quanto tempo il pillore ha impiegato a dipingerla, il prezzo convenuto e pagato «in ducatoni cinquecento con l'Annunciazione e qualche angelo di sopra». La costruzione della fabbrica procede con un secondo grande fondatore, tale Giovanni Pietro Coreano, Patrizionobiliare lombardo dedito a traffici e commerci per accrescereil patromonio feudale. Intanto si allineano gli imponenti ritraiti di tanti altri bene/allori, nobili e borghesi, rigidi, severi, con gli occhi ben fissi davanti su/l'osservatore a conferma della convinzione caritativa e anche del suo peso e bene materiale, confermato immediatamente sotto dalle mani in evidenza sul cartigliobollato dell'atto di donazione. Ritraiti lombardi, densi più che di realismo di materialità. A guardarli di seguito tutti insieme emettono calore vivo, odore e anche il senso di un possibile allarmante contagio. Cogliete quello di Giovanni Ambrogio Rosate, setaiolo, dipinto da Francesco Pagani. Vi è palese la compenetrata, orgogliosa saggezzamercantile dell'uomo, la sua tristezza di vedovo tre volte, la solitudine che lo indurrà a chiedere come contropartita per la donazione di tutti i suo beni, un modesto vitalizio, villo e alloggioper sé e per il proprio cavallo. Il sel/ecento presenta i Nuovi Sepolcri alla «Rotonda» o «Foppone», la spezieria, la crescitadel livello generale della cultura medica. La fabbrica continua ad espandersi e ne/l'ultimo decennio del secolo allunga una nuova ala fino alla via Lagheuo. Il merito è di un «terzofondatore», il notaio Giuseppe Macchi, patrizio, illuminista, pubblico amministratore abile quanto prepotente, famoso tra il popolo per la sua sordida avarizia. Ha spinto due sorelle, che dovevano somigliargli ed essere quindi piuttoso brulline, in convento, ha accumulato moneta su moneta duerni/ioni duecentosessantacinquemila lire e lascia tutta la somma all'ospedale. Il ritratto locoglie seduto al tavolo da lavoro, un poco stanco ma ancora tenace, col! il testone che sorge dalla convenzionalùà della parrucca incassato e piegato tra le spalle a guardare e pensare; l'abito comune, un po' liso, tuuo rosso per risca11are con la vivacità del colore la grossolanità del tessuto. Poggia la mano sinistra come appena tolta da una occupazione faticosa su una grande pianta d'architello, dove è disegnata, esauamente indicata dall'indice teso come strumento di precisione e misura tu/la l'ala che potrà essere costruita con l'impiego dei suoi soldi. La mano destra stringe per compiacimento la gamba in fuori, verso culliquelli che dovranno guardare e ricordare; mentre il vasto peuo e il testone respirano nello studio, come ben capisce la scheda del catalogo, ma piu che bonariamente con civile, ostinata convinzione nel lavoro, nel denaro, nella pubblica amministrazione. Che bel ministro del Tesoro sarebbe proprio in questi giorni estivi del 1981 il Macchi, avaro e illuminista, con forte senso di sé ma in quanto protagonista di una società e del suo stato! li ritrai/o è opera del Biondi, mediocre ma puntuale pillore che doveva servir bene alla simiglianza e alle esigenze del commi/lente e che non doveva per giunta costare molto. Fra i ritratti del secolo non perderete certo quelli del Ceruti, il grande lombardo del tempo, con «quella carica umana che legiuimava la sua pi11ura anche al di là delle frontiere della miseria» come giustamente scrive il catalogo. L 'ouocento è ricco di grandi illustrazioni, elenchi, consuntivi, prospelli, bilanci e vedute come di ricorrenti citazioni di «grandi» medici e di «grandi figure», meno di donazioni e di autentici progressi; tanti comunque i benefattori e ormai piu intrisi delle mosse e riserve della carità: e tanti e di diverso stile i ritratti, dipinti persino da Francesco Hayez e da Pelagio Pe/agi. Appaiono tulle le grandi distinzioni, veree proprie scissioni sociali, del benpensantismo borghese: ilpatrimonio privato dal bene pubblico, l'amministrazione dalla politica, l'arte dalla conj/iltUalità della vita sociale. Aumentano i bei gesti, la pietà, la commozione e tuni i loro devoti particolari; come aumentano la moltiplicazione a stampa e l'alca diffusione di tu/lo ciò tra il popolo, tra l'animazione macchieuistica, marginale e minuta della folla. li novecento non può non tener conto che Milano è ormai industriale, collegatacon l'Europa, capitalemorale ed economica dell'Italia, nuova potenza. Come non può ignorare che la medicina ha scoperto nuove malauie, per lo piu sociali, contagiose quindi, e nuovi modi di terapia e cura. Cominciano così «le grandi realiuazioni», perfino la costruzione di un nuovo ospedale a padiglioni separati. Si avviano le convenzioni con la regia università per il servizio coordinato delle cliniche, gli arrangiamenti interni, gli ammodernamenti e le modifiche, piuuosto sempre tra ilprecario e il burocratico: mancano spesso fondi, leggi, approvazioni, ecceteraeccetera. Intervengono perfino danni bellici e restauri e insieme gli specchi squadrati e le lamiere di nuove crociere e di nuovi spazi. L'ospedale non è piu da tempo una casa milanese, per quanto «grande» possa ancora essere;è ormai del Regno e dipende perciò anche da Roma, dal governo d'Italia. I benefattori sono sempre piu piccoli e colorati, individuati nel loro atteggiato particolare, fuori dei ranghi e senza nessun legame e tanto meno rappresentanza sociale. I loro ritratti vanno dallo stantio naturalismo ottoè'entescoalle arditezze avanguardistiche di un Sironi, dalle riminescenze metafisiche di un Callà alle elaborazioni novecentesche di un Funi. Intanto si è persa l'identità la posizione e la misura della Ca' Granda e si indugia alquanto smarriti davanti a/l'incombenza ufficiale, altrove disposta e rilevata, della vastità imperscrutabile della nuova pubblica istituzione ospedaliero-sanitaria al passo con i tempi, anche questi poco misurabili e piuttosto confusi. La mostra è importante, e molto, anche per questo senso finale di smarrimento e di sottrazione. Unuomo solo, visitatoreanento che sia, non conta piu 'lanto: nemmeno se gli toccasse entrare dentro l'oggetto della mostra da malato, bìsognoso di ricovero e di cura. Al posto della Ca' Granda c'è ormai un «grando» problema. Questa mostra sarebbe stata proprio da visitare per cogliervi oltre che la perfezione e la bellezza dellesue esposizioni, una civile sicura occasione di conoscenza storica e politica: da visitare quindi anche in massa, delegazioni, scuole, comitati, partiti, sindacati proprio secondo il suo insegnamento. Sarebbe stato bene in ogni caso farsi accompagnare dalla consultazione del munitissimo e bel catalogo che per fortuna resta al di là dei tempi de/l'esposizione. Fra le presentazioni delle prime pagine vi è da leggere un pezzo di Testori della sua migliore qualità lombarda, fra il critico d'arte e il cronachista locale: bello ancora di piu se vorrete leggere al posto della parola carità e tutte le frequentissime volte che questa vi è usata un termine che rappresenti la solidarietà sociale, sia pure nelle sue forme piu dirette, di volontariato, per esempio impegno civile, sentimento del comune, o, ancorameglio, senso e desiderio di giustizia. La Ca Granda, cinque secoli di storia ed arte dell'Ospedale Maggiore di Milano marzo/agosto I 98 I, Palazzo Reale, Milano Il catalogo è pubblicato dall'Electa

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