Alfabeta - anno III - n. 28 - settembre 1981

Raccontaren,ominare Peter Handke D peso del mondo Milano, Guanda, 1981 pp. 140, lire 7.000 Luigi Malerba· Diario di 11D sognatore Torino,.Einaudi.,-Ì981 pp. 144, lire 8.000 Francesco Leonetti Campo di battaglia Torino, Einaudi, 1981 pp. 188, lire 10.000 Paolo Volponi D lanciatore di giavellotto Torino, Einaudi, 1981 pp. 204, lire 10.000 CJ è un punto che rimane fondante di ogni possibile nuova discussione e/o esplorazione intorno al linguaggio, è il rammemorare di Heidegger. Per Heidegger ramme~orare significa in ultima istanza avvicinarsi alla condizione originària dell'Essere che, di per sé, rimane inattingibile; se cambiamo la parola Essere con Altro scopriamo il legame deciso che stringe Lacan a Heidegger: il linguaggio, la scelta della voce contro il silenzio, è sforzo impiegato in una lotta fatalmente perduta contro l'alienazione dell'essere. Si parla ma non si tocca ciò che si nomina, non si attinge l'oggetto del discorso. Per Lacan non c'è un Essere originario «perduto> ma una distorsione costante, patologica. che ci impedisce di vivere senza malattia: di qui l'interminabilità dell'analisi e insieme l'inganno della terapia, di cui Freud era pienamente consapevole. come è noto. el pieno dell'insolubile crisi interviene un terzo modo di pronunciare il linguaggio, che è il raccontare, il narrare, vicino al rammenmorare di Heidegger, ma senza la pretesa di attingere l'Essere: il raccontare diventa pronuncia del nostro esserci, cioè della nostra vita cosi come pensiamo possa articolarsi, a partire dalla critica e dalla rifondazione del linguaggio. II raccontare, che sembra essere progetto tutto «postmoderno> rimane anche moderno proprio in virtù di quel passo critico iniziale; senza il quale si cade o ricade, in un orfismo senza speranza. Rammemorare significa dunque rendere attuale il ricordo, o meglio: attualizzarlo senza cedere alle tentazioni della letteratura di memoria. senza cedere alla favola, all'illusione. che è poi una buona, mi pare, definizione della letteratura di intrattenimento. La memoria deve dunque farsi pronuncia, nominazione, e rifondare l'esistente, il trasmesso, ben consapevoli che prima di questa pronuncia l'uomo ha scarse probabilità e/o possibilità di esistere. Potrebbero queste affermazioni essere lette soltanto come il progetto di una nuova narrativa, quasi più come speranz.e che come realtà, come non fosse d'obbligo per ogni responsabile operazione letteraria saldarsi da una parte su una solida critica del linguaggio trasmesso e dall'altra articolarsi in una nuova dimensione che in prima istanza si presenta solo come letteraria. È necessario dunque sottolineare con forza che una «poetica della pronuncia», cosi come ho cercato di delineare, sia pure a grandi linee, deriva con chiarezza da una stagione letteraria della narrativa che considero di primaria importanza, proprio perché i narratori che prenderò in considerazione sono riusciti a indicare con fermezza un territorio di intervento (appunto quello della memoria= pronuncia) obbedendo a una necessità che mi pare giusto definire storica. II primo libro che dà un'impronta decisiva alla fondazione di questa poetica è quello di Peter Handke, li peso del mondo, uscito in Germania nel 1977 e tradotto quest'anno da Guanda. Quasi tutto il lavoro di Handke si fonda sulla critica del linguaggio, basti pensare a li mondo interno dell'esterno dell'interno (uscito in Germania nel 1969 e pubblicato da Feltrinelli nel 1980) e al suo frutto più maturo, Infelicitàsenza desideri (Garzanti 1977). l/ peso del mondo ne è la conferma, anche teorica, decisiva. Dice Handke: «Questo libro potrebbe essere definito un reportage; non è il racconto di una coscienza, ma piuttosto il più immediato e simultaneo reportage di essa.,. Vanno sottolineati i due aggettivi: «simultaneo e immediato» per misurare senza ombra di dubbio la distanza incolmabile che separa una letteratura di memoria da una letteratura di pronuncia. E basta leggere poche pagine de // peso del mondo per rendersi conto che questa pronuncia lil>.:ra.tk-n111di1ionant.:. è Antonio Porta rio assai riçlotto di sopravvivenza di stampo neo-crepuscolare. I libri di narrativa italiana che prenderò ora in esame strutturano in modi diversi questo progetto di attualizzare la memoria nel senso che è stato sottolineato da Handke; per meglio dire: partono tutti e tre da strutture in certa misura tradizionali per rovesciarle e ricavare da esse, dopo averne criticato la fondazione originaria, alcune modulazioni inedite, dunque nuovi linguaggi. Cominciamo con l'esempio dell'ultimo libro di Luigi Malerba (Diario di un sognatore), scrittore che, come è noto, è partito sempre da progetti di modificazione linguistica e sempre si è servito di voci paradossali. La struttura di partenza del Diario è in apparenza tra le più innocue: scrivere fedelmente i propri sogni nell'arco esatto di un anno, dal 1° gennaio al 31 dicembre. Anche il linguaggio del sogno è tra i più esplorati. da più di due secoli a questa partl' e-tra i più ktti anchl· ne-Identro una sospensi9ne del tempo, per trovare il tempo del raccontare, che è quello dell'esperienza dell'essere nella storia e nel mondo. Gli eventi che chiamiamo «sogni» vengono cosi a far parte a pieno diritto della storia reale, quella che abbiamo chiamato «essere». Ma l'essere abita il linguaggio o anche: l'essere e il linguaggio possono coincidere, dunque riscrivere un linguaggio come quello che struttura il sogno significa dare al sogno tutti i lettori che gli spettano, i lettori di un'intera società. Ne viene che la scrittura del sogno di Malerba è, dal punto di vista dei tempi verbali, tutta in «presa diretta», televisiva piuttosto che cinematografica, tutta al presente: perché raccontare è presa di contatto con l'essere nel momento stesso del suo accadere storico-sociale. Si portano così a compimento alcune premesse che la cultura europea stava elaborando da qualche tempo, basti pensare al libro di Georges Perec. La boutique obsrnre. 124 reves. uscitn in Francia da Dl·noi:1lll'i i '17~. I 1,·uh. Villa d'/:.\lt'. lnn.,um,· 111 '"'"'' di l:11,·1111,· l>11p<'rt1(c 15.!5·/hfJ.IJ. ,·diltl a R,111111 nt'I 15 7.1. la premessa indispensabile di quella attività critica all'interno del linguaggio che fonda una nuova libertà letteraria, quella che passando attraverso i multistrati del deposito socio-politico delle parole, tenta di pronunciare un modo nuovo di intendere il rapporto linguaggio-realtà. È chiaro che «il peso del mondo> che Handke assume sopra le sue spalle linguistiche è prima di tutto il peso di una società, quella che si inscrive nella lingua tedesca, ma è tale la sua forza critica che il metodo risulta efficace e applicabile entro altre lingue e società: ed è questo il frutto duraturo del lavoro delle avanguardie da un secolo a questa parte, il punto di conoscenza nell'ambito della scrittura che può (a mio parere: deve) essere messo a profitto. Ogni progetto letterario può fondarsi sulla critica del linguaggio trasmesso e non può fondarsi sopra la fuga da questo, sopra il suo puro e semplice annullamento; in quest'ultimo caso la memoria diventerebbe soltanto un limbo e il progetto dovrebbe essere iscritto entro un territol'antichità (ricordo che la casa editrice Adelphi ha pubblicato nel 1975 li libro dei sogni di Artemidoro, vera e propria enciclopedia teorica e pratica scritta nel Il sec. d.C.). Ma lo scarto iniziale di Malerba è essenziale: i sogni, dichiara, non vanno interpretati, vanno semplicemente vissuti, e vissuti in pubblico. Il loro senso è sociale, la loro attualità si pone al di là della memoria, ben oltre la storia di un'anima o di una coscienza. Scrivere i sogni con questa premessa è l'unico modo di viverli, di conoscerli come eventi: il loro significato non può essere soltanto individuale, la loro interpretazione è demandata al lettore di quel racconto che il sogno diventa sulla pagina. E qui mi pare chiaro il senso che viene a assumere il termine "racconto", senso che tento di definire nel modo seguente: memoria attuale dell'essere. Attenzione: essere con la e minuscola. Luigi Malerba assume un tempo narrativo semplice (il diario di un anno solare), ma sospende il tempo reale, poiché i sogni sembrano nascere dove sono scritti i sogni di Perec tra il novembre 1968 e l'agosto 1972, quasi il diario notturno di una delusione politica. Anche q_uestisono sogni senza interpretazione, per l'appunto soltanto scritti. Luigi Malerba ha portato questa necessità del rendere pubblico il sogno al punto di massimo rigore e serve dunque, più di Perec, come riferimento per ogni lavoro futuro nel medesimo territorio. Ma il libro di Perec porta con sé una postfazione di Roger Bastide che occorre citare perché potrebbe essere la prefazione al libro di Malerba, nel senso in cui la scrittura di Perec ha in parte eluso proprio queste possibili premesse (che infatti vanno lette più come aperture radicali che come commento a una realizzazione avvenuta). Dice Bastide: «Car si on écrit ses reves et si on les communique à des lecteurs, c'est qu'on transforme le monologue nocturne en dialogue, c'est qu'on fait de la nuit une 'boutique', donc une pièce ouverte à un public, à une clientèle, non une chambre dose. C'est que le reve devient un lieu d'échange entre Ies hommes.» Su un punto si è accesa una certa discussione, che pare opportuno affrontare anche qui: che cosa significa la mancanza di analisi nella scrittura dei sogni di Malerba (che è la stessa «mancanza» di Perec)? ln altre parole: che valore ha la scrittura di un sogno (la scrittura di una «scrittura» per immagini, quella del sogno, appunto, che sembra già compiuta in sé) senza il tentativo di un'interpretazione? (Come ho già detto, Malerba programmaticamente rifiuta l'interpretazione simbolica dei sogni). Che valore ha il sogno restituito ai lettori di narrativa, cioè a ogni possibile lettore, credo, senza le successive associazioni che costituiscono, per cosi dire, la «prova della verità» del sogno? Mi pare di avere già in parte risposto dicendo che il sogno trascritto da uno scrittore assume un valore sociale, come sottolinea, a conferma, Roger Bastide. Si istituisce cosi un uso pubblico-sociale del sogno allo scopo di in.tegrare la nostra esperienza «diurna» con quella notturna riportata finalmente alla normalità. Non lasciate, dunque, che le «tenebre» agiscano indisturbate: ci deve pensare lo scrittore ad alzare i pesantissimi veli della menzogna per restituire in eredità gli ~nigmi della letteratura, quegli enigmi che un'intiera società è, casomai, chiamata a risolvere. Per analogia mi pare possa funzionare come «prova» che ci viene da quell'antichità, che sempre più sentiamo come nostra contemporanea, dalla Gr~cia, naturalmente, quello che si narra del filosofo-saggio Epimenide (la cui biografia quasi immaginaria può essere letta nelle Vitedei filosofi di Diogene Laerzio e di cui si è parlato su Alfabeta nel saggio appena pubblicato sul labirinto). Erede della saggezza «labirintica» di Cnosso si racconta che l'impresa maggiore di Epimenide fu dormire ininterrottamente per 57 anni. Durante questo lungo sonno Epimenide si occupò solo di sogni. Quando si risvegliò ne sapeva abbastanza per essere chiamato a Atene a dettare le nuove leggidel vivere civile. Questo non perché il sogno lo mettesse in contatto con gli déi ma perché nel sogno si apre quello spazio sospeso dal tempo dove tutta l'esperienza umana può essere esplorata senza le distorsioni provocate dalla storia quando sta divorando se stessa. R iemerso (resuscitato?) miracolosamente dalle fauci della storia, dove si era buttato con improvvisa e mirabile generosità politica, con Campo di battaglia, Francesco Leonetti dà al termine che ho «messo in campo» in questo scritto, il termine pronuncia, un'accentuazione assai forte. Da una parte la pronuncia della memoria delle lotte, dal '68 in poi, è cosi acuta da riscattare l'assoluta inconsistenza teorico-politica che stava alla base delle lotte medesime in favore di un duraturo risultato di resistenza umana, di irriducibilità di certe conquiste che alcuni potranno definire minime e che io preferisco considerare eccezionali: la consapevolezza della nostra posizione nell'attuale schieramento di forze in una società che proprio in virtù della sua crisi permanenlf è capace di scarti imprevedibili e positivi. Solo che è finito il tempo delle lotte, almeno delle lotte «frontali» ed è iniziata l'epoca dell'intelligenza e della costruzione, passo dopo passo, senza che il «passo dopo passo» cancelli o riduca l'orizzonte dell'andare avanti, del cambiamento. Campo di ballag/ia è, in questo territorio nuovo, dove ci troviamo a agire e operare, una pietra

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