• •.·, 1 • Sulla felicità, I Nostalgiq-,md,,1 vedere A partireda questo numero Alfabeta pubblica alcuni degli interventi più significativi del convegno «Tre incontri sulla felicità», organizzato dall'Arci'a Roma dal 9all' I I aprile 1981. Gli interventi di Laura Barbiani e di Massimo Cacciari, con i quali apriamo la serie, sono stati trascrilli a cura dell'Arei e rivisti dalla redazione di Alfabeta, senza intervento degli autori. Anche il nostro giornale si riserva di intervenire sull'argomento. M i sforzerò di mostrare come attraverso la storia del termine stesso felicità (o dei miti che intorno alla felicità si sono andati sviluppando) si giunga ad un punto in cui per noi il suo significato originario risulta assolutamente inconcepibile. Mi sforzerò cioè di dimostrare come il nostro parlare di felicità non sia che un equivoco necessario, nel senso che, a mio avviso, per noi non ha alcun significato parlare di felicità. È questa la tesi che forse val la pena discutere, cercando di spiegare perché, secondo me, parlare di felicità è una folle impresa. Vediamo un po' come si presenta questo termine alle origini della sua storia, nella nostra cultura occidentale ed europea. Originariamente il termine di felicità è strettamente connesso all'idea del vedere. Vi è un ritorno costante di questa idea che felice è chi vede; felice è colui che vede e intuisce in modo perfettamente chiaro. L'idea di felicità è sempre strettamente connessa al theorein, al vedere, non un vedere qualsiasi ma quel particolare vedere che è vedere in modo perfettamente chiaro gli dei. Dice Omero: non a tutti gli dei appaiono chiari, quindi felice è colui o quei pochi a cui gli dei appaiono chiari. Nell'esperienza greca della felicità, che è all'origine della nostra storia del termine, gioia e vedere si danno in uno. O meglio: gioia è il vedere festivo, è il vedere della festa, è il vedere che irrompe in quelle occasioni, o in quei momenti o in quegli attimi: nel kairos della festa. Ciò che caratterizza l'esperienza greca è appunto questo «sapere veggente» dell'uomo festivo. Ancora in Aristotele- ben oltre le origini - nell'introduzione della Metafifisica, viene elogiata la gioia del vedere (oran ): il vedere bene, il vedere chiaro, è la gioia stessa, la felicità stessa. È noto il nesso che d'altra parte lega questo vedere festivo, questo sapere veggente dell'uo·mo festivo, al sapere. È evidente il nesso che lega oran (il cui aoristo è appunto idein) a eidenai, che in greco vuol dire sapere. Questo legame, dunque, tra gioia, vedere, sapere è costitutivo della cultura greca dalle origini fino ad Aristotele. Massima gioia, massima felicità è vedere dei. Poi in linguaggio filosofico questo si tradurrà (con tutte le complicazioni che il tradurre sempre comporta) nel vedere la forma invisibile, nell'oran dell'idea: vedere le idee, vedere le forme invisibili. Ma vedere, sempre vedere. Cosi gioia, vera gioia, per il greco è data soltanto a quell'uomo particolare che vede, al theoros, a colui che sa perfettamente vedere: theoros, colui che vede il dio, secondo un'etimologia antichissima, non di Heidegger, ma antichissima. Diciamo meglio ancora: è perfettamente felice colui che è uno spettatore felice, il theoros, che vede fino alle Forme Invisibili, che vede fino alle Idee. E in questo senso sa perfettamente vedere. Il Mondo, appunto come simbolo di mondo visibile e di mondo invisibile, di Realtà e Idea, si aispone di fronte al theoros come un teatro, come un theatron. Dunque la nostra idea originaria di felicità è strettamente connessa ad una cultura del vedere, della visione; la nostra felicità è all'origine una felicità del vedere, un saper vedere. La perfetta chiarezza del vedere: questa è felicità, questa è gioia. Ma queste origini sono, come tutte le origini, perfettamente perdute, o meglio, perfettamente compiute. Già il termine latino che traduce theorein - contemplatio - subisce una perdita del significato originario, ha perduto la sua portata simbolica; già qui si spezza il simbolo classico tra lo splendore, la luminosità dell'immanente, e il perfettamente divino, l'Idea. Perché la gioia che si raggiunge nella contemplatio, che è traduzione letterale di theorein, è gioia per una visione che trascende. Già qui si insinua una tensione di trascendenza, (di sublimità si potrebbe dire quasi parafrasando Nietzsche) quella della contemplatio è già un theorein sublime. Nella gioia che dà la contemplatio subentra un qualcosa di assolutamente diverso o addirittura opposto: la gioia che deriva da una capacità di trascendere lo splendore del Mondo, del Cosmo. L a felicità comincia ad essere sinonimo di visione superiore. Continua la cultura della visione, però questa felicità è una felicità che deriva da una visione superiore, sublime. li simbolo è pienezza; il simbolo caduco. il simbolo spezzato a terra, necessariamente induce una tonalità di rinuncia: sono felice solo quando, rinunciando alla visione simbolica, alla visione festiva propria del theoros classico, pervengo, riesco a pervenire rinunciando ad una visione superiore, sublime. Si potrebbe dire che la felicità della contemplatio è l'infelicità del theorein: cioè ciò che è felice per il contemplante sarebbe infelice per il theoros. Vi è una contraddizione sostanziale tra il theoros classico (ancora presente in Aristotele) e l'uomo contemplativo della nostra cultura romantica. Complementare a questa flessione è quell'altra che già appare nella tarda Età Classica, in epoca alessandrina. L'unità del simbolo si spezza in due: da un lato la tensione trascendente, dall'altro la flessione immanente della felicità come benessere, della felicità legata all'immanente. L'ai»tia giunge quando il simbolo si spezza da un lato verso la contemp/atio e dall'altro verso il benessere e quindi anche il benessere raggiunto per l'appunto con l'apatia. L'uomo che pratica questa contemp/atio apathes, pretende di essere come il dio, ma certo un dio che non ha nulla a che fare con quello classico, che era un dio che rideva, un dio che nulla aveva a che fare con l'apatia. Il theoros, colui che era spettatore del Mondo e di questo Dio, nulla aveva a che fare con l'apatia. Quindi il simbolo classico necessariamente si spezza in due: contemplatio come tensione alla trascendenza, felicità quando io giungo ad una visione sublime, trascendente, superiore; e felicità legata all'immanenza, felicità come legame immanente. Anche questa felicità è fatta di rinuncia; anche in questa felicità raggiunta attraverso l'apatia o attraverso un legame immanente alle cose suona la rinuncia. Mai - come dice Pomponazzi polemizzando con Pico - saremo invitati al banchetto degli dei. Mai, quindi, saremo i theoroi, coloro che vedono gli dei, vedono perfettamente chiara l'Idea e quindi sono invitati al loro banchetto. Il modo in cui noi intendiamo felicità è quindi di volta in volta il frutto di una capacità di trascenden_za, di una contemplatio trascendente, oppure un legame all'immanenza. In entrambi i casi questa felicità è fatta di rinuncia. Secondo questo schema non è che cambi molto quando il termine di felicità giunge alla sua estrema secolarizzazione. Quando la felicità diventa come continuum, perché la soddisfazione è necessariamente interminabile, inesauribile, provoca costantemente insoddisfazione. Questi bisogni non saranno mai perfettamente soddisfatti: si dispongono progressivamente in una storia lineare e continua. Questa storia ha perso qualsiasi punto finale, qualsiasi telos, ma la sua linearità, la sua disposizione lineare non muta per questo. La soddisfazione piena, e quindi la felicità piena, è impossibile, è inconcepibile, non è. Quindi la felicità perfettamente catturata nel calcolo alla Bentham è anche perfettamente annullata in esso: la nostra felicità è ormai tutta risolta nell'immanenza, è una felicità ridotta a soddisfazione calBartolomeo Veneto ( 1502-15.Jf>J,ritrailo di g<;111iluwno. soddisfazione calcolabile, misurabile; qÙando Bentham dice che l'uomo è un nesso, un groviglio di appetiti che vanno soddisfatti, e che la gioia dipende dal grado, dalla misura e dall'intensità di questa soddisfazione e che dal grado, dalla misura e dall'intensità di questa soddisfazione dipende addirittura la legittimità dell'assetto politico-culturale contemporaneo ebbene, quando la nostra cultura giunga a questo punto non siamo presenza di qualcosa di molto diverso da quello che abbiamo detto finora, siamo alle estreme conseguenze di quella rottura simbolica. La felicità come soddisfazione veramente calcolabile è l'estremo prodotto della felicità connessa all'immanenza, che ha rinunciato, che ha dovuto rinunciare, alla portata simbolica del termine classico. Una felicità assolutamente estetica, che si limita al campo, al dominio dell'estetico, che sta unicamente nell'estetico. E l'economia classica ci dice che questa felicità è misurabile, che il grado di questa felicità è misurabile perché essa è ridotta a soddisfazione. Aggiungiamo che questa felicità che sta unicamente nell'estetico si dispone anche necessariamente nella storia colabile, ma questa soddisfazione non può mai essere soddisfatta, questa soddisfazione si dispone in una storia senza telos, lineare e continua, in un continuum inesauribile. E la felicità, che a questo punto pareva perfettamente catturata, tanto da essere calcolabile, risulta alla fine perfettamente annichilita. e i si potrebbe, però, interrogare se questo annichilimento del termine di felicità dal quale siamo partiti, non sia già iscritto nelle parole originarie della nostra tradizione culturale, che appartengono alla tradizione giudaico-cristiana; se questo destino dell'annichilimento della felicità non sia il portato specifico di questa tradizione nel suo irrompere all'interno del cosmo pagano, del cosmo classico. Perché non vi è dubbio che in questa tradizione fin dalle origini il termine, l'idea di felicità, assuma una prospettiva accentuatamente escatologica. Non è mai data nella visione, nella piena visione del sapere veggente del theoros, non è mai presente: in questa tradizione la felicità si dispone sempre in modo escatologico, riguarda sempre un ultimo; e, meglio ancora, si coniuga sempre al futuro; non certo ad un futuro cronologico bensl al futuro prossimo, al futuro sempre prossimo della profezia; non è mai presente, non è mai qualcosa di perfettamente presente intrinseco alla stessa visione. Anzi, potremmo dire che questa non è una cultura della visione, bensl - come dicono ceni autori- una cultura dell'udito. Il profeta non è quello che vede le cose, come una tradizione molto volgare ha quasi sempre inteso; il profeta - questa figura centrale della tradizione giudaico-cristiana - è colui che ascolta la voce; il senso del profeta è l'udito, non il vedere. Nella cultura giudaico-cristiana, il felice si coniuga nel futuro profetico, un futuro sempre prossimo che può irrompere immediatamente, ma che non è mai. Insomma, la felicità è qui un augurio e, aggiungiamo, un augurio di pace: shalom, il riposo del signore. Quindi due cose fondamentali da tener presente in questa nostra tradizione che irrompe in quella classica pagana: la felicità diventa una prospettiva messianica, un augurio al futuro, e la felicità è riposo, pace. Per questo sarà cosl facilmente assimilabile all'apatia e a quella determinata concezione della contemplazione come contemplatio apathes. Felicità come riposo, come pace; la Gerusalemme della fine della «Apocalisse»: riposo, pace, e questa prospettiva, comunque, al futuro. Nel futuro profetico, non nel futuro nostro, in questo futuro senza telos che ormai è il nostro, ma che deriva dalla storia, dalla disposizione naturalmente storica della teologia giudaico-cristiana. La felicità, cioè, come totale oltrepassamento delle contraddizioni, anzi, dello stesso mortale in quanto contraddizione. Posizione questa che è carne e sangue delle moderne utopie, di quelle che in qualche modo sono anche a fondamento dello stato moderno-contemporaneo (o, come dicevano i vetero-marxisti, dell'ideologia borghese). Nessuna di queste prospettive ha a che fare con il piacere classico cui manca totalmente il senso messianico della felicità; il senso contemplativotrascendente; il senso eudomonistico che si risolve poi nella riduzione della felicità a benessere o a soddisfazione, quest'idea che dispone la felicità nell'estetico e nel continuum dell'estetico, l'attesa dell'eskaton, il continuo ripetersi della soddisfazione e quindi dell'insoddisfazione, che ~ parte integrante, ormai, della nostra concezione, della nostra idea, della nostra forma della felicità. Questo per dire che non sappiamo nulla della felicità perché non sappiamo nulla del senso di quel vedere, di quel theorein. Ma vorrei anche aggiungere che forse è proprio questa gioia uguale al vedere, l'inconscio che si agita in noi quando riflettiamo su questo termine, o la forza che ci fa provare sempre piu insopportabile il circolo vizioso della mera soddisfazione. Forse viviamo l'estremo esaurimento di quelle flessioni ora contemplative ora immanenti della felicità, e l'inconscio che si agita in noi riporta alla luce qualcosa, come con un tono di disperata nostalgia, qualcosa di quel vedere, di quel sapere veggente, di quella visione festiva che era propria del theorein, che era propria del theoros.
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