Alfabeta - anno III - n. 28 - settembre 1981

molto significativo), vuoi soprattutto perché i 1ettera11interessati sono veneti, lo cercano appunto in Veneto, in qualche convento fra '400 e '500. Anzi, anche allora si dividono in opposte schiere: alcuni, veneziani, lo identificano in un concittadino (un Francesco Colonna realmente vissuto nel famoso convento domenicano dei SS. Giovanni e Paolo), altri invece, pur scarsi di documentazione, lo vorrebbero comunque trevisano. ' A tagliare la testa al toro, provvede il piu famoso tra i veneziani, Apostolo Zeno. Il quale nel 1723 pubblica una nota in latino del 1512 in cui si afferma a chiare lettere che frate Francesco Colonna dei SS. Giovanni e Paolo è l'autore del Polifilo. La nota con l'attribuzione e alcune notizie sull'autore, sarebbe stata scritta, vivente ancora il Colonna, da un confratello o comunque da uno che «sapeva», deciso a infrangere la regola dell'anonimato almeno a favore dei posteri, su una carta di un esemplare del Polifilo. Da questo esemplare, conservato ancora nel '700•in un convento veneziano e poi sparito, lo Zeno avrebbe desunto la nota famosa. Questione risolta? Andiamoci piano. Gli eruditi del '700, infaticabili ricercatori di documenti del passato, avevano, in piu d'un caso, la tendenza a strafare. Raccolti indizi, piu o meno validi, per impostare la soluzione di un problema, non si peritavano di costruirvi sopra una prova falsa, tanto piu se c'era di mezzo la storia e la gloria della loro patria. Un falso sarebbe anche la nota dello Zeno; Calvesi indica, in effetti, sia nel testo, sia nelle circostanze della sua pubblicazione, tante contraddizioni e reticenze da invalidarne l'attendibilità: saremmo, insomma, al punto di dover «provare la prova». Comunque, l'attribuzione del Polifilo al Colonna veneziano, dallo Zeno in poi ottiene buon credito, soprattutto tra filologi e letterati; qualcuno invece, da altro versante culturale, si mostra riluttante ad ammettere che l'«oscuro» frate possa essere l'autore del fascinoso e sensuale groviglio. 11Colonna veneziano, per arrivare a noi, è al centro dell'attenzione di Pozzi e collaboratori. Il punto di partenza è rigorosamente filologico: la ricerca a tappeto e l'a·nalisi di tutte le testimonianze che lo riguardano. Nasce dunque, probabilmente, a Venezia tra 1433 e il 1434 e ivi muore nel 1527; quasi nulla si sa della famiglia (in Veneto iColonna sono numerosi) e della giovinezza; qualcosa di piu della sua vita come domenicano che si svolge prevalentemente a Venezia, in SS. Giovanni e Paolo, con qualche puntala ora piu ora meno protratta, prqprio a Treviso nel convento di S. Nicolò. Ed è una vita che, almeno stando alle fonti, si divide tra le messe, la predicazione e le diatribe di conventi anche prestigiosi, ma non ancora riformati, in cui i mali e le passioni del secolo dovevano nettamente prevalere sulla devozione e la pietà. Tipica atmosfera da scandali, in cui incorre anche Francesco: per rivalità con alcuni confratelli, per disobbedienza all'autorità religiosa e, infine, per aver sverginata una putta. E tuttavia gli scandali non impediscono al Colonna di acquisire, previo studio a Padova, il titolo di teologo, di reggere per un pe:.: riodo il priorato del convento, di curare affari di un certo rilievo e di svolgere, occasionalmente, attività di grammatico. Quanto alla possibilità che lui si l'autore del Polifilo, qualche indizio, di cui due molto robusti: nel 1517, vivo e vegeto il nostro, Leandro Alberti, storico dei domenicani, scrive di Thomas Mauhaeiflorentinuset FranciscusColumna venetus, ·quorum alter ingens volumen carminum vernaculosermone contexuit ... alter vero in quodam libro materno sermone edito litteraturam et varium ac multiplex ingenium suum prae se ferr «Tommaso di Matteo fiorentino e Francesco Colonna veneziano, dei quali il primo scrisse in volgare un grosso volume di versi... mentre il secondo, in un certo libro, scritto in volgare, sfoggia erudizione e un ingegno vario e versatile»; d'altra parte, un po' d'anni prima, nel 1501 il priore del convento deve sollecitare il Colonna a restituire al provinciale le spese sostenute occasione libri impressi «in occasione della stampa di un libro». E dunque frate Colonna da Venezia ha scritto un'opera in volgare, in prosa, erudita e talentosa, che è stata data alle stampe e che è costata un patrimonio (anche l'umanista veronese Leonardo Grassi, in una dedica del libro, afferma di aver sborsato quattrini per l'impresa): certo i testimoni contemporanei, forse rispettosi dell'ambiguo anonimato, non ci dicono che quest'opera è il Polifilo, ma le coincidenze, per quei tempi, sono troppe, ed è molto, molto probabile che lo sia. Ricostruita cosi, quasi anno per anno, la vita conventuale del frate, Pozzi imposta il suo commento al Polifilo in base al principio dell'economicità delle ipotesi e cioè la massa di singnificazione dell'opera deve essere orientata solo e soltanto dal dato biografico e documentario e se un ampio spazio separa quella biografia da quell'opera, esso non può essere riempito che dalla biblioteca, dai libri che sicuramente o verisimilmente giacevano nella memoria o sullo scrittoio del Colonna. Ecco allora che il modello culturale sotteso al romanzo ed ai suoi intrichi allegorici è ancora quello scolastico, come si addice ad un teologo domenicano. L'umanesimo interviene sl, ma nella sua variante artistico-letteraria, piuttosto che inquella filosofica. Sullo scrittoio del Colonna fanno bella mostra di sé il De re aedificatoria di Leon Battista Alberti e la Cornucopia di Niccolò Perotti, ancora freschi di stampa, e tanti altri testi classici, medievali e umanistici a fornirgli le tessere per il suo mosaico di geometra visionario e maniacale. E qui sta il punto: l'universo di edifici, di monumenti e di arredi che progetta e descrive per amore di antichità, da dove gli viene? Dall'aver scorrazzato tra le rovine piii insigni, soprattutto fra quelle romane di Roma? Pozzi nega; nessun dato biografico lasciando presumere viaggi del Colonna fuori dal Veneto, tutto gli è venuto da 4uel che poteva vedere tra Venezia (gli stessi splendori della chiesa del suo convento), Treviso, Padova e forse Ravenna, e il resto l'ha cavato per nevrosi dai testi. Non sembri un'idea assurda: che forse l'Alighieri è stato davvero neli'Aldilà o Salgari in Malesia? Eppure c'è qui nella posizione di Pozzi un eccesso di rigore metodologico: Calvesi dimostra che l'autore del Polifilo non può non aver conosciuto alcuni reperti archeologici romani, come un fregio dell'Arco degli Argentari o un bassorilievo dell'ara del Sole dei musei capitolini, ripresi quasi tali e quali: ha visto solodeidisegni,o ha fattounascappata a Roma? Quanto a Treviso, nessun problema: il Colonna vi ha soggiornato a piii riprese, e la città fa da probabile sfondo alla sua vicenda amorosa con Lucrezia dei Lelli (i documenti ci dicono qualcosa sulla sua famiglia, ma non sulla sua persona). Il rapporto Polifilo-Polia vela appena, secondo Pozzi, quello, reale, Francesco-Lucrezia, che fu forse la storia Simbolo della madre terra, indiani Hopi, forma circolare. d'un desiderio di nozze, per ovvi motivi, mancate. Il romanzo trova la sua ultima significazione, sulla scorta di un'esperienza personale infelice, nella scelta dell'amore matrimoniale come stato perfetto, che frate Francesco può celebrare solo nel sogno letterario. E dunque lo scandalo del Polifilo non dipende dalla panneggiatura pagana e neppure dalla sessualità repressa e sublimata che danza liberamente tra ninfe ed obelischi, ma piuttosto dalla circostanza che un domenicano sogni e celebri per sé, prima che per gli altri, le gioie del talamo coniugale. La Chiesa poteva anche tollerare licenze sfrenate nei conventi non riformati, ma allora, come oggi, si mostra implacabile contro chi osi mettere in discussione il celibato dei chierici, magari per un amore patito in prima persona. Da qui l'anonimato fittizio e la congiura del silenzio che cade sull'autore e che conivolge anche gli ambienti laici, ugualmente perplessi e stupefatti. S i diceva che, in ambiente non filologico, serpeggiava insofferenza per l'attribuzione al frate veneziano. Ed ecco che Calvesi si pone a capo della schiera e propone un autore affatto antitetico. In questo caso la ricerca archivistica non precede l'interpretazione del testo, ma la segue, ne è in qualche modo il corollario. L'assunto, invece, in sé fin troppo semplice, è che un'opera come il Polifilo, congestionata di passione ed esperienza anti4uaria, sia stata pensata e scritta nel luogo deputato dell'antichità classica e cioè a Roma. L'elemento che consente di collegare l'assunto con una nuova attribuzione è un'intuizione figurale: Calvesi riconosce in ciò che resta del tempio della Fortuna Primigenia a Palestrina, in altre rovine di quella zona del Lazio e nello stesso paesaggio che li circonda, monumenti descritti nel Polifilo e i luoghi medesimi in cui si svolge la vicenda. Orbene, anche il signore di quel territorio, anzi colui che attorno al 1498 trasforma i resti del tempio di Palestrina in palazzo gentilizio, si chiama Francesco Colonna, della famiglia Colonna per antonomasia, quella dei principi romani. Da qui una rilettura del Polifilo che è una continua ricerca di conferme interne all'attribuzione e che sposta radicalmente il significato dell'opera. Francesco Colonna romano dunque, in un momento di scontro politico tra la propria famiglia ed il papato, scrive il Polifilo per agire contro l'istituzione e la cultura ecclesiastiche che il mito di Roma antica, la concezione «laica» della Fortuna Primigenia come forza di natura che, sola, determina il destino degli uomini e di cui lui stesso, in quanto discendente dai fondatori di Roma e signore dei resti del tempio, è in qualche modo il custode. La cultura del Colonna romano, che Calvesi ricostruisce lottando con bel coraggio e con grossa competenza iconografica contro l'opacità delle allegorie (l'interpretazione di alcune di queste è la parte migliore del lavoro), è in stretto rapporto con l'umanesimo filosofico a fine '400, tra neoplatonismo ed epicureismo paganeggiante, ma un ruolo di spicco vi giocano anche elementi di. quella tradizione alchemica di cui sappiamo così poco anche se fu, per secoli, molto importante. Anche in questo caso il velame allegorico - del resto immanente alla cultura del principe - e l'anonimato sarebbero condizionati dalla necessità di non rendere ancora piii aspro il conflitto tra i Colonna e la Chiesa. Come si può capire l'ipotesi di Calvesi è fascinosa e stimolante, ma non convince: il punto debole consiste nel fatto che la ricerca filologica ed archivistica è il semplice corollario di una intuizione figurale che a sua volta soffre di precarietà. Del principe Colonna romano, in effetti, stando a quel che ci dice Calvesi, sappiamo ancor meno del frate Colonna veneziano. Nasce forse nel 1453, nell'84 diviene signore di Palestrina, attorno al '98 erige il palazzo gentilizio sulle rovine del tempio, dimostrando con ciò interessi architettonici ed antiquari, nel 1501 papa Alessandro VI gli confisca palazzo e beni che però il papa successivo, Giulio II, gli restituisce; non si sa quando è morto; è sposato con una Orsini, probabilmente Lucrezia (ma le fonti, sul nome, sono contraddittorie). Ha qualcosa a che fare con la letteratura: l'umanista Faustino Perisauli in un poema in latino ricorda il proprio sodalizio di poesia col Colonna, intento anch'egli a comporre versi; in due epigrammi latini di anonimo lo si paragona come poeta a Virgilio e come prosatore a Cicerone. Simili testimonianze in ambiente umanistico significano che si tratta di poesia e prosa ·in latino. Ben piii consistenti sono gli inidizi che collegano il Colonna veneziano alla stampa del Polifilo. Ancora: l'autore ci fa sapere di sé che è frate. Calvesi ipotizza che il Colonna potesse definirsi tale in quanto membro dell'accademia romana di Pomponio Leto i cui sodali si ritenevano appunto fratres, ma non allega alcuna prova o solido indizio che il principe appartenesse a quel famoso e ben studiato cenacolo. D'accordo,finquisistaaffermando che l'ipotesi di Calvesi manca, per ora, di robusti supporti documentali, ma potrebbe essere «forte» l'asserita identità fra tempio, rovine e paesaggio prenestino e tempio, rovine e paesaggio polifilesco. Le cose non stanno proprio così: il tempio sognato da Polifilo assomiglia vagamente al Mausoleo di Alicamasso descritto da Plinio il Vecchio. che se- - condo Pozzi è la fonte puntuale del Colonna per quell'edificio, così come assomiglia vagamente al tempio di Palestrina e cioè le due ipotesi sono equivalenti e nessuna delle due probante, tanto piii a fini di attribuzione. Allo stesso modo il paesaggio polifilesco può somigliare a quello del éontado prenestino, ma anche a cento altri del Bel Paese e soprattutto somiglia al tipico paesaggio che si stendeva nella zucca di un letterato umanista. Comunque qui non si negano somiglianze e congruenze, è sul loro valore probatorio che si resta delusi. S e poi da Roma e dal Lazio ci spostiamo a Treviso il problema si complica ulteriormente. Una celia: il sottoscritto non è mai stato a New York e dintorni, ma ba visitato, diciamo così, da turista diligente, quelle deliziose città che sono Arles, o Segovia, o Konia. Eppure se decidesse di scrivere, che so io, un giallo e volesse ambientarlo a New York, che pure non ba mai «visto», lo farebbe con maggiore facilità che se decidesse, invece, di ambientarlo ad Arles, o Segovia, o Konia, che pure conosce bene. E questo perché nel sistema semiotico della nostra cultura New York, metropoli per eccellenza, è un modello potente che bisogna comunque conoscere e che infatti «conosciamo> per mille tramiti quotidiani. Non diversa in ambiente umanistico la funzione svolta da Roma e dal Lazio rispetto a Treviso. Ora, nel Polifilo il contado trevisano è presente con citazioni di paesucoli, fiumiciattoli, rogge plausibili da parte di uno che c'è vissuto come frate Colonna (che comunque «conosceva» Roma), molto meno plausibili da parte del principe Colonna. Calvesi afferma che tra i titoli gentilizi del principe Colonna figurava anche quello di Patrizio veneto, ma quanti potevano essere i titoli gentilizì, veramene nominali, di un tale personaggio? Ma anche qui, in assenza di dati documentari che attestano la presenza del principe nel Veneto, Calvesi allega ipotesi interpretative. Treviso, ad esempio, sarebbe stata nel primo '500 non solo un centro di libera e rigogliosa diffusione della cultura alchemica, ma anche una sorta di luogo sacro della stessa. In questo modo si spiegherebbe l'importanza della città nella geografia culturale del principe. Ancora: Polia altri non sarebbe, secondo Calvesi, che Lucrezia Orsini, probabile moglie di Francesco, ma nel romanzo la sua funzione è squisitamente allegorica. Polia rappresenta la Sapienza ed il sogno amoroso di Polifilo altro non è che iniziazione al mito sapienziale, cardine della cultura alchemica. Ecco allora che Polia-Lucrezia Orsini, nell'allegoria, può affermare di discendere dai Lelii-Lelli in quanto l'antica famiglia romana era simbolo di sapienza; ecco ancora che lanascita trevisana di Polia è anch'essa allegorica: la donna-Sapienza nasce nel luogo sacro alla Sapienza stessa e così via. L'impressione, con queste ultime ipotesi, è che ci si muova nell'universo dei mondi possibili, in cui vive lo scrittore piii che il filologo. E la filologia è un po' gretta: preferisce, fino a prova contraria, un po' di nero su bianco sulla carta d'un archivio conventuale al grande abbozzo di una cultura laica e neopagna risorta per merito di un principe fra Marca trevigiana e Palestrina. E dunque l'attribuzione tradizionale e l'interpretazione di Pozzi, per queste ragioni e per altre che riguardano la singolare lingua del testo, restano le piu certe, anche se Calvesi ha contribuito a chiarire tremendi passi allegoricie soprattuttoba indicato possibili linee d'indagine all'interno dell'opera. E perché mai infatti il domenicano Francesco Colonna, tra ortodossia e delirio, non avrebbe potuto raccogliere qualche suggestione anche dall'alambicco dell'alchimista?

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