Alfabeta - anno III - n. 28 - settembre 1981

aJtraversamento e anche di rinnovamento dei «giochi» linguistici dei saperi molteplici e conflittuali è «politico», il termine va anche preso alla lettera. E il soggetto di questo lavoro politico, conformemente alla tradizione marxista, è «la classe degli oppressi», quella che può produrre un mutamento delle forme di vita e del «dominio che un sapere ha esercitato su di esse» (Re/la, in Alfabeta, 21 Febbraio 1981). Il modello dialettico, come si vede, riacquista qui tutto il suo potere, e la crisi della razionalità è solo crisi del potere di una certa ragione, cioè di una certa classe diversa, legittimata dal/'essere storicamente portatrice di quelle pratiche che (come i rapporti di produzione effettivi) determinano di faJto una nuova razionalità non ancora riconosciuta a livello formale. 3) Dalla dialettica alla differenza L'analisi, sia pure molto sommaria, delle posizioni degli studiosi della «crisi ddella ragione» rende ancor più evidente che lo schema delle due forme di irrazionalismo qui proposto non ha tanto il significato di una delimitazione di scuole o correnti diverse, quanto la fimi.ione di uno strumento di lettura, per orientarsi e dipanare i molteplici motivi che nel dibattito sulla razionalità vengono in luce. Nei saggi de La crisi della ragione, sebbene prevalga un atteggiamento che, complessivamente, non credo si possa definire altro che dialettico, si annunciano anche motivi diversi, più vicini alla elabora;z.iorieche ho chiamato dissolutiva della tematica irrazionalistica. Cosi, sopratutto in Rei/a, la nuova razionalità e il nuovo soggetto si presentano sl caratterizzati in termini che ne fanno un «altro» ancora pensato in termini di classe rivoluzionaria, dunque autentica, positiva, principio di riunificazione. Ma - come è il caso del pensiero marxista più avvertito - non sfugge a Rei/a, sulla scia dei suoi autori e sopratutto di Benjamin, che la ragione-classe esclusa e oppressa, proprio nella sua condizione di esclusione matura forme che la distinguono in modo radicale dalla ragione-classe dominante, e sopratutto dalla sua caratteristicastruttura egemonica, disciplinante, unificante, Benjamin, scrive Re/la ( Alfabeta, cit.) giustamente «individuava nella classe degli oppressi, che lottavano contro il potere dei vincitori del presente e del passato, il soggetto portatore del nuovo sapere, anche nei suoi aspetti più individuali e soggettivi: la memoria involontaria, la voce delle donne che abbiamo amato, di chi è vissutoprima di noi, degli avi asserviti». L'accenno alla memoria, che qui pare marginale, tocca però, come si capisce, uno dei punti centrali della discussione sulla razionalità, un punto essenziale dopo Heidegger e la sua tesi sulla metafisica come oblio de/l'essere e nel pensiero ultrametafisico come Andenken In effetti, sia detto qui anticipando di poco la con,clusione, nel dibattito sulla nuova forma della razionalità l'unico elemento consistente, per passare dalla descrizione della «crisi della ragione» a una proposta teorica «positiva» sembra (a me, ovviamente) essere il ruolo decisivo che viene acquistando la memoria, in molteplici sensi che, nella loro diversità, possono offrire un altro criterio di orientamento e di lettura. La memoria, come nel caso di Re/la (e si veda anche il suo recente libro su Il silenzio e le parole, Feltrinelli 1981) può assumere un ruolo centrale in una ra;z.ionalitàmodellata esplicitamente sulla psicanalisi, nel senso freudiano ortodosso che Rei/a vede molto nettamente separato da quello lacaniano, e cheproprio in questa misurasi avvicina a una forma riveduta e ampliata di pensiero dialettico. Ma la memoria -nel testo citato si parla di memoria involontaria -può anche fungere da momento di deriva; principio di una razionalità che, secondo quello che a me pare il senso più autentico del/' Andenken heideggeriano, si dispieghi come dislocazione, inseguimento in infinitum di un senso dell'essere pensato come «direzione» che non conduce da nessuna parte, e che svela solo una connessione profonda con la mortalità come carattere costituito del/' Esserci. In ogni caso, ilproblema della memoria indica in generale che c'è, in una zona del dibaJtitosull'irra;z.ionalismo,lo sforzo di instaurare con l'altro dalla ragione un rapporto che non sia riducibile a uno • schema dialettico, di rovesciamento o integrazione. Ciò a cui anche Rei/a pensa, mi pare, è un tipo di pensiero in cui, al rapporto gerarchico di fondazione, che sembra portare con sè inevitabilmente l'aspirazione a una centralità, a un «principio primo» (fosse pure solo il soggetto trascendentale o la volontà di potenza nietzscheana, almeno in una sua possibile versione), si sostituisca un pensiero in cui il rapporto di fondazione sia dissolto in una molteplicità davvero senza centro. Questo discorso, nella cultura italiana, si è cominciato a fare seriamente solo dopo la riscoperta di autori come Nietzsche e Heidegger, e si può dunque anche storigraficamente indicare come un aspetto della Nietzsche-Heidegger-Renaissance di quest'ultimi quindici-vent'anni. È la presenza e l'influsso delle tematiche nietzscheane, certo accanto a quei fattori più generali, storico-sociali, che si sono indicati, quello che determina e riempie di contenuto il passaggio dalla prima alla seconda forma di irrazionalismo. Il discorso sulla dissoluzione della forma egemonica della razionalità, che si mantiene in ogni sopravvivenza della dialettica,può cominciare solo quando si scopre il nesso positivo tra crisi della razionalità classicae tecnica moderna. Certo, questo nesso eragià una scoperta della riflessione epistemo- • logicaprimo-novecentesca; ma in tutta lasua portata dissolutiva essa entra in Italia attraverso la riflessione su Nietzsche e sulla interpretai.ioneheideggeriana di Nietzsche. Scriveva Cacciariin un articolo del 1976: «Il nascondimento de/l'essere non è una deficienza, ma la ricchezza specifica della metafisica -l'annichilimento caratteristico dell'essereCMessaproduce è il fondamentodel potere scientificosul dato» (Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio 1977, p. 77). Nietzsche, con la nozione di volontà di potenza, non fa altro che individuare, come ha messo in luce Heidegger, «l'autentico orizzonte trascendentale del progetto scientifico moderno» (ivi, p. 76). Nessuna nostalgia, dunque, per una razionalità che, inglobando le novità introdotte dalle modifiche apportate dalla scienza moderna, ricomponga una qualche forma di unità, ricuperi una qualche memoria dell'essere felicemente dimenticato. Come si vede, qui la fecondità di Nietzsche viene riconosciuta proprio nel suo essere compimento della metafisica, cioè di quel pensiero oblioso che Heidegger, sebbene in maniera oscura, intendeva oltrepassare. Cacciari, invece, in tutto il suo lavoro, ha sempre teso ad appiattire Heidegger su Nietzsche, e sul Nietzsche di Heidegger. Ciò, anche alla luce dei saggi più recenti (ricorderò per tutti quello sulla nozione di Progetto, comparso su Laboratorio politico, n. 2), dipende dal fallo che fin dal saggio del 1976 che ho ora citato, Cacciarisi richiamava anche e sopratutto a Severino: come è evidente dalla tesi che solo l'a_nnichilamento de/l'essere prodotto dalla metafisica fonda il potere tecnico sul dato. Riconoscere questo collegamento mi pare importante, perchè la predicazione severiniana del «ritorno a Parmenide» rappresenta sicuramente una delle vie - io direi anzi: tentazioni -caratteristiche dell'irrazionalismo italiano degli ultimi anni. Nel suo significato, essa mi pare simmetrica a quella di alcuni autori che, sebbene rientrino in una prospettiva ancora largamente dialettica (come Re/- la, o Gargani) elaborano anche tematiche di tipo «dissolutivo». Nel caso di Severino, e anche di Cacciari, mi pare che siamo di fronte a un discorso che si collega nell'ambito bensì della «differenza» -per indicare con questo termine heideggeriano tutto ciò che si so//rae, o intende sottrarsi, allo schema dialettico; ma che alla fine ritorna al mito dell'altro. Severino si presenta inizialmente come un teorico della «dissoluzione» della ragione per la radicalità con cui critica tutta la ragione occidentale, che egli vede inficiata, come è noto, da un fondamentale nichilismo. È chiaro che in questa prospettiva la crisi della ragione non può essere superata attraverso una qualche operazione di ricomposizione, e che invece -in apparente analogia con Heidegger - si tratta semmai di produrre una rimemorazione che salti oltre la storia di questa ratio nichilistica. Questo salto, per_ò,dove deve condurre? Appunto, a «ritornare a Parmenide», cioè a recuperare l'esserenel suo senso più forte, quello de/l'eterna stabilità che Aristotelesi illudeva di avere esorcizzato con le nozioni di potenza e di atto. Questo salto (che è ben diverso da quello heideggeriano il quale conduce nello Ab-gruncl, non sul terreno solido di ciò che è e non Dedaloe Icaro fuggonodal labirintodi Creta, xilografiafrancese. può non essere) dovrebbe tra l'altro permettere di porre su basi autentiche, e quindi (ma Severino non lo dice e non può dirlo) anche più efficaci la critica (e l'eliminazione?) dello stato di alienazioqe in cui vive l'uomo occidentale, alienazione che Marx ha descritto giustamente ma di cui non ha visto le vere cause. Il ritorno a Parmenide, però, è per l'appunto il ritorno a una concezione non tecnicistico-nichilistica de/l'essere, e dunque non può, per definizione, produrre alcuna modificazione del nostro «destino di necessità». - Chiarito ciò, l'interesse per il pensiero di Severino come criticopiù radicale di ogni altro della nostra cultura e dei suoi caratterialienanti dovrebbe rivelarsi fondato su un equivoco, perché la sola cosa che è davvero ogge//o di critica è, da parte sua, la pretesa che qualcosa possa (e debba) davvero cambiare. Su Cacciari, che ha interessi politici più espliciti, l'equivoco severiniano continua agiocare per un certo sfondo patetico che il suo riconoscimento della produttività dell'oblio metafisico de/l'essere ha avuto fin dall'inizio. Come, in una prospettiva strutturale e antiumanistica, Marx è apparso l'osservatore scientifico delle leggi de/l'economia capitalistica più che l'apostolo di un riscatto dell'umanità oppressa, così il significato di Nietzsche è qui nel descrivere in modo disincantato la veranatura del gioco di forze che regge lo sviluppo e l'imporsi planetario della tecnica. Nel recente saggio sulla nozione di progetto e sulla sua intrinseca contradditorietà (dimostrata con una applicazione letterale delle categorie severini~ne: il progetto vuole la modificabilità totale dell'ordine esistente; ma, contradditoriamente, vuole anche la durata stabile del nuovo ordine da realizzare), Cacciari si assegna l'unico compito di esibire la «chiusura» senza visibili speranze di soluzione del sistema, sperando che abbia un senso «per la conoscenza di questo sistema che dura, e per potervi agire, riconoscerne la condi-_ zione e riconoscersi in essa secondo l'antico motto: volentem fata ducunt ..»(Laboratorio politico ,2, p. liìJ. La parabola che ha condotto Cacciari - parmenideamente - a tornare al suo punto di partenza severiniano passa, come si sa, attraverso l'esaltazione dei «giochi linguistici», della molteplicità delle tecniche della ragione e della loro intrinseca razionalità disse-· minata; e poi, come per reazione (legata al fatto che la tecnica era stata mitizzata nei suoi aspetti più freddi, disumani, matematici), attraverso il recupero di un istanza superiore, che può chiamarsi «il Mistico», secondo il termine wittgensteiniano, o «il Politico» inteso in termini mutuati dal decisionismo di Cari Schmitt, o addirittura in termini di strategiamilitare (con relativo ripescamento di ç[ausewitz come maestro di pensiero disincantato). Anche l'appello all'istanza del Mistico, del Politico, della decisione, è strettamente condizionata dall'adozione delle opposizioni metafisiche rimesse in circolaùone da Severino. Caduto l'ordine medievale in cui lapolitica riconosceva una norma nella legge di natura, o di Dio, l'unico fondamento dello stato diviene, nella democrazia moderna, la volontà popolare; ma il popolo è mosso, nella sua volontà di fare stato, cioè di ordine politico, dal bisogno e dal desiderio, che, contro alla stabilità che lo stato deve avere, mutano e producono continui elementi di instabilità. È questo perenne divenire del desiderio-bisogno che crea continui problemi di riaggiustamento dei sistemi, problemi che non si possono risolvere solo mediate soluzioni tecniche (per definizione, interne al sistema), ma hanno bisogno di decisioni, di determinazioni sovrane. Dunque, nessuna illusione che lo stato si possa dissolvere in una amministrazione delle cose cessando di esseredominio sugli uomini. Il tutto, però, anche perché -credo -la rigida impostazione metafisico-dogmatica impedisce a Cacciari di vedere e apprezzare gli elementi di dissoluzione del potere che, nell'imporsi della tecnologia moderna, sopratutto nel campo dell'informazione, si sono prodotti. Se irrazionalismo significa, nel senso più forte e sistematico del termine, appello a un altro dalla ragione che ne sospende la validità, la determina dall'esterno ecc., esempre senza lasciarsi consumare nè nella forma del rovescimento o dell'integrazione dialettica, nè nella forma della dissoluzione, allora si dovrà riconoscere in Cacciari e Severino una forma di irrazionalismo di questo tipo, per giunta, per quanto ciò possa apparire paradossale sopratutto per Cacciari e la sua esaltazione della tecnica, fortemente impregnato di mitologismo. Sia nelle figure che ho proposto di collocare sotto la categoria del «mito dell'altro», sia nelle forme solo apparentemente dissolutive che assume in Cacciari e Severino, l'irrazionalismo sembra fin qui destinato a soccombere al pericolo, che del resto è scritto in tutti i momenti della sua storia, di rovesciare semplicemente, entro uno schema in qualche modo ancora assai logico e razionale, il proprio opposto. Se, come a me pare evidente, la crisi della razionalità si interpreta nel suo senso più radicale solo alla luce della critica heideggeriàna della metafisica, allora le difficoltà dell'irrazionalismo italiano devono essere viste anche in relazione alla difficoltà di capire e realizzare quel/'oltrepassamento della meiafisica che Heidegger ha descritto solo con il termine di Verwindung-il «rimettersi»: dalla metafisica come malattia, alla metafisica come destino, la metafisica come compito. Ma al di là di questa traduzione, che pure copre molti dei sensi del termine, credo che in Verwindungsi debba leggere ancora un altro senso: quello più letterale di convalescenza come di uno stato «medio» che sfugge sia alla logica della ricomposizione, sia a quella del rovesciamento, sia a quella de/l'appello irrazionalistico all'altro. Uno sforzo di elaborazione dell'eredità nietzschena-heideggeriana in questo senso, oltre che nel lavoro che conduco io stesso sul concetto di ontologia del declino, mi pare che si possa vedere nell' accento posto da Mario Pernio/asul concetto di simulacro. Lo schema che ho proposto, tuttavia, è forte"!ente condizionato dalla tesi teorica che l'esito del dibattito sulla crisi della ragione non possa essere se non una radicale «laicizzazione» del pensiero, e dunque anzitutto una cura di dimagrimento, una riduzione dell'enfasi, non ispirata tanto a un'assunzione estrinsecadi motivi della tradizione anglosassone, quanto vista come coerente sviluppo de/l'ontologia non metafisica di Heidegger. Ora, proprio da questo punto di vista, l'insistenza sulla tesi nietzschiana secondo cui « il mondo vero alla fine è diventato favola», da cui, oltre che dal nietzscheismo francese, Pernio/a trae la sua «filosofia dei simulcri», mi pare peccare, ancora, in un estremo (intendo: ultimo) cedimento al pathos metafisico della ' verità, della autenticità, della totalità conchiusa. Pernio/a riconosce la simulacraliuazione generale della vitanel mondo tardo moderno, come ha fatto Baudril/ard, solo per porre le basi di un nuovo tentativo dell'intellettuale di operare efficacemente in questo mondo; con una mossa che ricorda la tesi di Cacciari su Nietzsche come legittimazione dell'operare puramente tecnico della moderna volontà di potenza. La Verwindung heideggeriana è convalescenza anche perchè è ancora sempre ricordo dellamalattia, ricordo dellametafisica e della differenza ontologica tra essere ed ente, non dissolta e risolta semplicemente nelle concrete differenze - dei giochi, delle tecniche, e dei simulacri. I simulacri, per non dar luogo a una nuova metafisica (che, come accade in certe pagine di Deleuze, attribuisce loro la dignità di un nuovo ontos on platonico) devono esser sentiti anche sempre come ombre, e l' Andenken deve essere sempre anche ricordo, difficile e nostalgico sforzo di rimellersi in comunicazione con tracce, rovine, messaggi remoti. Tutto ciò può non esser letto solo come l'opposizione di una soluzione estetistica dell'irrazionalismo allo sforzo del pensiero per assumere, secondo un sempre rinnovato mito egemonico, la direzione dei processi storici. Il Gering, l'inapparente della conferenza heideggeriana su La cosa, potrebbe essere invece il richiamo, che è forse uno dei sensi più rilevanti del dibattito sulla ragione, a ricostruire al pensiero filosofico un ruolo non più ideologico, legato da ambigui nessi con la sovranità, in un'epoca in cui, più che in ogni altra, la s_ovranitàd~lla filosofia si è rivelata come un mito.

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