certi aspetti dell'antihegelismo di Della Volpe dall'antiheglismo kierkegaardiano di Pareyson, quando per entrambi, sia pure in forma diversa, valeva il motto kierkegaardiano dello «sconnettere i paragrafi» della totalità dialettica hegeliana?). li carattere «irrazionalistico» dell'esistenzialismo consisteva allora nel far valere le istanze escluse dal sistema hegeliano: l'individuo nella sua drammatica e irripetibile situazione morale, con Kierkegaard, o nella concretezza delle sue emozioni, bisogni, materialità in definitiva, con Feuerbach. Lo storicismo idealistico appare dunque sopratutto come un sistema formalistico e astratto, che riduce la razionalità a un sistema di concetti puri, lasciando fuori ciò che è vita vivente, interesse, opzione morale, individualità peculiare dei singoli. Tutte queste sono le istanze «irrazionali», o che paiono tali dal punto di vista della razionalità idealistica, che l'esistenzialismo e le tendenze irrazionalistiche di ogni tipo fanno valere contro l'idealismo. Ma questa forma di irrazionalismo, che potremmo caratterizzare, prendendo a prestito il titolo di un lavoro di Franco Rella, come «il mito dell'altro», si lascia ancora abbastanza facilmente riassorbire nell'ambito di una razionalità più ampia e comprensiva, com'è di fatto quella dello storicismo marxista. La crisi di questo storicismo, che si verifica a partire dalla fine dell'egemonia ( come nozione e come pratica) nel sessantotto, non si configura più, nei suoi aspetti più radicali, come lapresentazione di istanze irrazionali solo perché, ancora una volta, escluse dal sistema della razionalità dominante. Nonostante gli sforzi di interpretar/a in questo modo, la crisi dello storicismo marxista che si è avuta in questi ultimi anni, ma che ha radice nel sessantotto, è crisi dello stesso modello dialettico, e non si lasciapiù risolvere mediante la costruzione di una nuova «razionalità» più comprensiva e perciò di nuovo accettabile. La vera e radicale crisi de~egemonia e dello storicismo non è, insomma, il presentarsi di nuovi contenuti che possano essere composti, egemonizzati, in u11asintesi superiore, ma la rottura dello schema stesso della sintesi. È il momento che si caratterizza come imporsi della differenza contro la dialettica. Né il primo 11éil secondo momento, o fasi, dell'irrazionalismo, sono semplicemente dei momenti cronologici. Si tratta invece delle due forme che assume, abbastanza costantemente, ilpresentarsi delle istanze irrazionali rispetto alla razionalità di un determinato sistema. La prima, si potrebbe aggiungere, è apparentemente la più pericolosa per il sistema della razionalità vigente, perché assume spesso l'aspetto di una veraepropria rivoluzione, che o costringe la razionalità a imponenti riaggiustamenti in modo da accogliere ciò che aveva escluso, o addirittura si presenta come principio alternativo, momento fondante di un ordine diverso. Ma è forse anche vero che, nel caso del mito dell'altro, plus ça change et plus c'est la meme chose. Senza contare che non c'è nulla di più sostanzialmente irrazionale (in un significato ancora diverso da quelli considerati qui, ed equivalente piuttosto a vitalistico) del concepire la razionalità come un ritmo di irrigidimenti, rouure, :·;cos{ruzioni,ulteriori irrigidimenti, secondo un modello di dialettica che sostituisce semplicemente alla definitività della sintesi hegeliana il fluire circolare della vita. Il secondo significato dell'irrazionalismo, che si presenta invece come il rifiuto dell'idea stessa di una sintesi, ha principalmente una fisionomia dissolutiva (ancora una volta, realizza in modo paradossalmente positivo un modello reperibile in Luktics), con tuui i connotati di debolezza e provvisorietà che questo comporta, ma può anche avanzare la pretesa di non essere soltanto l'effimera immagine rovesciata de~'ordine contro cui si rivolta. 2) D mito deU'altro Sebbene dunque si tratti di due modi distinti di presentarsi della crisi della razionalità sorica, che possono anche essere, e di fatto sono, oggi, largamente compresenti in uno stesso momento culturale, i due tipi di irrazionalismo descritti nell'ipotesi sono anche caratteristici, nel loro alterno prevalere, di fasi diverse della nostra storia filosofica recente. Souo il segno del «mito dell'altro» collocherei gran parte dell'esistenzialismo dell'immediato dopoguerra, che anche sul piano della più generale storia culturale corrispondeva a un momento in cui la tendenza generale era quella di riconoscere·e far saltare i limiti imposti (o comunque, che si sentivano come imposti) dall'egemonia dell'idealismo, anche sul piano dell'informazione, delle ·tematiche, de~'attenzione a fatti, autori, movimenti. Sul piano strettamente filosofico, l'esistenzialismo diede una voce non casuale ed estrinseca a questa consapevolezza, riportando il senso dei limiti dell'ùiealismo dal piano dell'informazione a quello del significato stesso del sistema. Ho già fauo i nomi di Pareyson e Della Volpe, l'uno francamente esistenzialista (sebbene con il senso che l'esistenzialismo dovesse comunque dar luogo ad una scelta ulteriore, tra umanismo radicale e ritrovamento del cristianesimo) e l'altro polemico nei confronti dei contenuti ancora romantici, o presunti tali, de~esistenzialismo, ma entrambi decisi a giocare contro l'idealismo il peso del richiamo alla concretezza, alla scelta, in una parola: all'esistenza. Si dovrebbero ancora aggiungere, non per illudersi di completare qui il quadro, ma per segnalare le linee di una possibile verifica de/l'ipotesi, i nomi di Pacie di Abbagnano. Sopratutto in Paci,già in ·alcuni degli scritti degli anni quaranta, e sopratutto nel successivo sviluppo della sua elaborazione della fenomenologia, appare chiara la portata di rinnovamento esercitata da~'appello ali'altro dalla razionabilità. Era Paci, del resto, che aveva cercato, in studi degli anni quaranta, di evidenziare le affinità di certe tematiche crociane, come quella del vitale, con l'esistenzialismo. Nella sua introduzione a una scelta di scriui di Nietzsche, uscitanel I 940 presso Garzanti, Paciscriveva: « Una vera razionalità è sempre in rapporto correlativo con l'irrazionale» (p. 2) e riteneva che questa scoperta, o riscoperta, collegasse Nietzsche a«quella vasta corrente del pensiero europeo che, sviluppatasi nel pensiero cristiano, ha trovato in Pascal la sua più drammatica espressione e in Kierkegaard ha riaperto, contro l'astratta perfezione del sistematicismo hegeliano, l'immenso varco del problema della personalità» (ibid); il che chiarisce, mi pare, che cosa Paci intendesse per «irrazionale», cioè tutto quell'ambito della «personalità» che, per l'appunto, era stato il terreno di lotta di Kierkegaard contro il sistematicismo hegeliano. Quanto ad Abbagnano, una ricostruzione dell'esistenzialismo italiano in chiave di «mito dell'altro» dovrebbe riconoscere che, pur nella sua affinità di fondo con i temi della polemica antiidealistica, nella sua proposta di un «esistenzialismo positivo», e in particolare nella sua insistenza nell'identificare questa positività con le «tecniche della ragione», ci sono anche rilevanti anticipazioni della seconda e più recente direzione presa dall'irrazionalismo italiano, quella che si caratterizza non come rovesciamento della razionalità vigente, ma come dissoluzione della sua stessa forma. Un segno di ciò, non casuale mi pare, è proprio nel fatto che sono state sopratutto le forme «dissolutive» de/l'irrazionalismo recente a riscoprire, del resto rifacendosi a Nietzsche e sopratutto alla lettura che ne ha proposto Heidegger, una connessione positiva fra irrazionalismo e tecnica, in un senso largamente analogo (se si toglie la maggiore enfasi antiumanistica delle correnti irrazionalistiche recenti) a quello anticipato da Abbagnano. Ma, come ho detto, non credo di poter fare qui una ricostruzione del significato «irrazionalistico», di primo o secondo tipo, dell'esistenzialismo italiano degli anni quaranta e cinquanta. I pochi riferimenti ai maestri di quegli anni indicano solo i punti da cui dovrebbe "''· ll&Ufa ua•o:naca,a: LàffAl!'l'Ta Johamz Sebastian Bach, Piccolo labirinto armonico (1705). partire un tentativo di verificare storiograficamente questa ipotesi. Là dove l'ipotesi mi pare più chia'lamente verificabile, e anche più obbiettivamente utile data da una certa confusione che si è fatta in questi ultimi anni intorno al problema della crisi della ragione e delle cosiddette «nuove forme di razionalità», sono gli anni più vicini a noi. Per certi versi, la «moda» della crisi della ragione, che ha visto un susseguirsi di dibattiti non sempre innovativi e teoricamente utili in città, luoghi turistici e loi:a/itàtermali italiane, si può paragonare alla moda de~esistenzialismo degli anni quaranta-cinquanta; sono però diverse, fortunatamente, le condizioni economico-socia/i dei due Labirinto ginnico (1884). fenomeni. C'è sopratutto un fatto peculiare per quanto riguarda i nostri recenti dibattiti sulla crisi della razionalità, ed è il loro più intenso e, direi, organico legame con i mass-media Ciò che salta agli occhi immediatamente è che la tematica della crisi della ragione, proprio nella forma del «mito dell'altro», ha permeato largamente la cultura non filoso fica, andando a depositarsi in molte terminologie e stilemi di quella koiné postsessantottesca che si esprime nel linguaggio dei maggiori rotocalchi, in quello delle superstiti frange del movimento giovanile contestatario, ma anche, in forma diverse, nel linguaggio del terrorismo armato (certesue ali più «autonome») o del nuovo movimento giovanile cattolico. Ciò che si esprime in questa koiné, in modi più o meno violenti, è l'idea che, a una razionalità dominante che ormai, a differenza del «sistematicismo hegeliano» degli anni quaranta, è sentita anche, e sopratutto, come razionalizzazione del lavoro sociale, si debba opporre ciò che ne è stato escluso semplicemente in quanto escluso. Anche sul piano della cultura, ciò che il canone della tradizione ha messo da parte, emarginandoli dai processi di trasmissione (edizioni, commenti, discussioni, ecc.), merita di per sé attenzione estudio, e possiede una specie di portata salvifica: L'i"azionalismo, in questa forma, diventa una sorta di vera e propria ideologia dei mass media; non è solo uno dei contenuti che essi amano diffondere; meglio, il loro inreresse per questo tipo di discorsi teorici corrisponde al loro bisogno di legillimare un processo che consiste nel rinnovarsi introducendo nel mercato culturale ciò che ne era rimasto fuori. La novità come tale, però, ha per l'appunto la necessità di mostrarsi fornita di valore in riferimento a qualche criterio diverso; e il criterioè, implicitamente o esp/iciJamente, l'idea che la razionalità esistente, l'ordine del discorso in vigore, rappresenti una forma di violenza contro il diverso, violenza che deve essere svelata e combattuta rico"endo a sempre nuovi generi di «diversilà> da includere (si intende, in cataloghi, pagine culturali, dibattiti). Sia in questo fungere da idologia dei mass media, sia sul piano più specificamente teorico, tuttavia, l'i"azionalismo nella forma d'appello ali'altro dalla razionalità vigente si può per l'appunto descrivere in termini di mito. Anzitutto, perché nelle poche teorie che davvero si presentano nella forma della negazione della razionaliJà in nome di ciò che essa esclude, /'.altro non è mai analizzato in termini concettuali, ma largamente assunto come elemento miJologico: è il caso di quello che è forse l'unico autore iJaliano francamente ITTa• zionalista, almeno nel primo dei sensi ipotetiuati qui, e cioè il Toni Negri de Il dominio e il sabotaggio, ( Feltrinelli 1978) con la sua tesi del/'autovaloriuazione del proletariato e la definizione della «autonomia» proprio come il luogo di una alterità radicale rispetto a/l'ordine teorico-pratico dominante. Ma questa mitologia gioca a un livello più sottile anche in altri studiosi che, sopratutto negli ultimi anni, hanno dibattuto il problema della crisi della ragione (come suona del resto il tiJolo di un volume in cui sono raccolti saggi di alcuni dei più significativi tra loro), e che oscillano, a mio parere, tra una mitologizzazione del problema dell'altro e una riformulazione, più e meno inconsapevole e coperta, del mito de~'alterità nella sua veste di miJo del rovesciamento dialettico della r.llzionalità vigente. Da un lato, infatti, come appare soprattutto nel libretto di Franco Rei/a che porta per l'appunto il titolo Il mito dell'altro ( Feltrine//i 1978), i teorici della crisi della ragione tendono ad accentuare, non sempre giustamente, le tendenze irrazionalistiche presenti nel pensiero contemporaneo, sopratutto francese. Nel libro di Re/la, i bersagli polemici sono Lacan, Deleuze, Foucault, ai quali tutti si rimprovera di aver reagito alla crisi della razionalità classica con l'appello a un «luogo» trascendente capace di fornire nuove garanzie di verità e di «parola piena»: Deleuze con il suo desiderio senza oggetto e corpo senza organi (do-;e il riferimento è sopratutto ali' AntiedipoJ, Lacan con la sua teoria della Verità del linguaggio dell'Altro, Foucault con il suo sforzo di raggiungere un silenzio che rappresenti finalmente una zona sotratta al potere degli ordini del discorso - sono tutti modi in cui, secondo Rei/a, il mito dell'altro gioca nella attuale crisi della razionalità spingendola verso un superamento di tipo ancora mistico. Qui, il carattere mitologico della costruzione consiste nel fatto che, molto verosimilmente, nessuno dei trepensatori nominati è riducibile ai termini a cui Re/la lo riduce; e ciò significa però non tanto un «e"ore» di interpretazione discutibile in termini filologici, quanto sopratutto un chiudersi teorico al contributo positivo che da autori come questi, e penso sopratutto Lacan, può venire per la definizione, a cui tutti tendono, di una «nuova razionaliJà». Nel volume La crisi della ragione ( Einaudi 1979), che rappresenta certo un momento panicolarmente significativo nel dibattiJo sull'irrazionalismo, se non nella storia dell'irrazionalismo, svoltasi negli anni recenti in Italia, ad autori più direttamente impegnati nel dialogo con il pensiero i"azionalistico otto-novecentesco, si affiancano pensatori di più chiara ascendenza marxista; e ciò, come si può del resto verificare nella lettura dei testi, non è causale. La miJologizzazione dell'altro, nel senso che mi è parso di poterla indicare in Re/la e nella sua lettura di alcuni autori irrazionalisti francesi, gioca anche in ciò, che sia lo schema della crisi della ragione, sia sopratutto la possibilità di un suo superamento, tendono a configurarsi una volta ancora in termini dialettici, rientrando dunque a pieno diritto nella prima delle due forme di «irrazionalismo» che ho distinto. Cosi, anzitutto, la crisi della razionalità classica viene descritta, per , esempio da Gargani nella introduzione al volume, come crisi di sistema di potere, in quanto essa era «espressione di un'immaginazione e di una committenza sociali dirette a disciplinare la ricerca entro forme ideali compiute e irrevocabili delle menti degli uomini» (p. 31). La crisi viene dal fatto che, «trasformandosi i rapporti sociali... anche il nostro sapere... risulta trasformato» (p. 46). In qualche modo, se anche non è detto in modo dogmatico, la soluzione della crisi consiste nel ristabilimento di un rappono di «corrispondenza» fra mutate condizioni di vita e sapere. Lo stesso modello dellapsicanalisi, che ha un ruolo così importante in altri autori della raccolta, come Rei/a e Bodei, funziona in definitiva nel senso di quel ristabilimento di continuità tra mondo della razionalità categoria/e e mondo i"azionale della vita, o anche della storia, a cui pensava già Paci nel testo che abbiamo prima citato. Così, per Rei/a, contro lepretese alla Veritàdi Lacan, bisogna rendersi conto che Freud «aveva riconosciuto nelle formazioni significanti e ideologiche un nucleo di verità storica che viene esteso come 'convinzione' di verità all'involucro che lo contiene per rendere questo involucro inattaccabile alla critica. L'analisi di questa 'convinzione' è un'opera di radicale 'storicizzazione' della 'verità' che essa contiene» (O mito dell'altro, P: 15). Questa storicizzazione, che è anche quello che Gargani pensa come ristabilimento del nesso tra i saperi formalizzati e le pratiche tecniche e sociali con cui sono legati, per Rella è l'attraversamento dei saperi, la loro messa in comunicazione o anche la attivazione dei conflitti di là dalle armonie fittizie e astratte che appunto caratteriz• zavano la unitaria razionalità classica (dietro queste>termine, inwile ripeterlo, si legge sempre anche la forza disciplinante della razionalizzazione del lavoro sociale). Ma lo scopo di_questo processo di «desublimazione» della ragione (Crisi, p. 33), è alla fine quello di ricostruire una razionaliJàpiù comprensiva ed elastica, che talvolta, com'è il caso del saggio di Bodei, si richiama esplicitamente al modello egemonico gramsciano. Quindi, quando Rei/a scrive (Mito, p. IO) che questo lavoro di
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