Alfabeta - anno III - n. 25 - giugno 1981

Montale,e,.,. ~.~~ pertutti li articolo di Renato Barilli, dal titolo «Il novissimo Montale» (Alfabeta, n. 21, febbraio 1981), può anche essere visto come un esempio di pretestuosità appena dissimulata. Il pretesto è l'edizione critica di tutta L'opera in versi di Eugenio Montale, a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini (Einaudi, Torino 1980), 1225 pagine di cui circa 350 di note filologiche, varianti d'autore e autocommenti: impresa di rilievo oggettivo, che si qualifica come sistemazione razionale e ordinata dell'intera produzione di un poeta contemporaneo, per di più vivente. Ma il critico liquida con pochi cenni di circostanza (oh, elogiativi certo) il lavoro dei due curatori per dedicarsi a una sbrigativa contabilità di tipo - dice - « brutalmente quantitativb », al fine di chiarire che Ossi di seppia, Occasioni e Bufera sommati « danno 260 pagine circa; mentre Satura più il Diario del 1971 e 1972 più il Quaderno di quattro anni raggiungono le 350 pagine ». Per venirgli incontro, edizione alla· mano, potremmo aggiungere che la sezione Altri versi, ove sono confluite poesie per lo più posteriori al Quaderno, dà un apporto ulteriore di un'ottantina di pagine e che nell'ultima serie del volume con le Disperse, edite e inedite la parte del leone la fanno ancora le cose recenti (altra ottantina di pagine). Placata la libido numerica, farei punto e a capo per affrontare i veri nodi della questione, che mi sembrano due. Il primo, più generale, riguarda una costante dell'atteggiamento di alcuni recensori, che prestano la propria opera di informazione e di giudizio sulle pagine letterarie della stampa quotidiana e/o periodica. Il secondo, più specifico e tout entier à sapraie attaché, investe la poetica critica barilliana nella recente epifania a proposito dell'Opera in versi di Montale. Un'edizione critica non è, semplicemente, la raccolta a stampa di tutti gli scritti di un autore; è un'operazione ben più delicata e complessa, che coinvolge la competenza tecnica e culturale del critico allo scopo di ricostruire e documentare la storia esterna dei testi (manoscritti, stampe, date, sedi e caratteristiche delle edizioni) e, quando sia possibile, la storia interna (varianti d'autore, rielaborazioni, ecc.). Solitamente il tutto avviene in assenza forzata del produttore, con la conseguenza di un maggior impegno investigativo e talora congetturale, compensato però dall'intima luciferina certezza che il filologo può covare, di non patire cioè smentite da parte del più diretto interessato (se il lavoro è manchevole, il piacere dura poco: gli altri studiosi potranno impugnare e controdedurre senza pietà). Chissà se il Foscolo avrebbe gradito la pubblicazione in veste critica delle Grazie; impresa dall'incompiutezza non accidentale? Per venire a cose più commestibili, è lecito sospettare che Fenoglio non avrebbe dato alle stampe Il partigiano Johnny (lavoro incompiuto rimastoci in due stesure) nella veste stilistica che conosciamo. È fuor di dubbio però che se fosse vivo non lo vedrebbe di buon grado circolare nel pasticcio testuale conferitogli dalla prima edizione einaudiana del 1968, riproposta pari pari ancor oggi dall'Einaudi medesima promotrice dell'edizione critica, e - appunto - nel testo criticamente vagliato. Quest 'ultimo, sia detto qui per inciso, è stato definito da alcuni recensori frutto di un'operazione mortuaria o imbalsamatrice che dir si voglia. L'episodio è sintomatico, perché mostra la spensieratezza di certa critica, dedita alla mediazione tra prodotto letterario e pubblico; essa, invece di affrontare la novità o almeno la problematicità che consegue al lavoro dei filologi, preferisce riposare su ·categorie di giudizio passive, e non si accorge di fare in tal modo ·proprio il gioco dell'in'dustria editorale, retta dalle leggi di un mercato che incoraggia la pigrizia e rispetta un'unica verità: quella ciel fatturato. C'è poi un altro atteggiamento, molto meno depresso ma dovuto alla medesima repulsione nei ·confronti <li apparati di varianti e simili accidenti: quello di coloro che pretestualizzano il testo scientifico per assecondare idiosincrasie personali, o nella migliorc delle evenienze, tesi critiche avventuriste. Qui il narcisismo del critico s'impadronisce della penna, prende quota e procura larghi giri intorno all'oggetto, mantenendo comunque una rigorosa distanza di sicurezza da quelle tali note poste di regola nella seconda parte del volume e stampate per lo più in corpo minore. In questa più nobile casella iscriverei l'articolo del Barilli. Vediamo perché. Renato Barilli sembra aver accolto con gaudio il tutto Montale per mettere la produzione canonica, santificata dalla critica, e quella recente (da Satura in poi) l'una contro l'altra armata. L'intento dissacratorio porta il critico a radicalizzare la faccenda in questi termini: i due blocchi montaliani gli Bambini dell'Ulster. appaiono separati da una via di Damasco che Montale avrebbe imboccato « al giro di boa del '60 », grazie alla lezione dei Novissimi, di quella « generazione tecnologica » cioè che ha, o almeno avrebbe, inaugurato un atteg• giarnento paritetico del poeta come tale rispetto alla società contemporanea, a sua volta passata da una condizione contadina ad un'altra, di evidente sviluppo tecnologico. Nella fattispecie in Montale « l'io recitante, così come lascia cadere il fatuo 'tu' retorico, si decide correlativamente a entrare nei suoi panni reali di intellettuale riuscito, che vive ormai 'alla pari' con la società affluente, ricca di mezzi materiali e di gerghi espressivi ». Non possiamo decidere sui due piedi se questa impostazione critica faccia più torto a Montale, novissimo e entusiasta adepto dei più giovani colleghi, o all'altra parte interessata, che alla sua rivoluzione linguistica è pervenuta per le vie dell'immersione totale nella civiltà tecnologica. Ma è fuor di dubbio che un tale presupposto ha distorto irreparabilmente l'ottica barilliana per quel che è del Montale fino alla Bufera. e quindi oltre. I ntanto la pm:tica della memoria montaliana prima della « conversione » viene ricondotta a una matrice proustiana che non ha mai avuto, giacché nel nostro poeta una delle zone di maggior individuazione è sempre stata la difficoltà del recupero e l'insuperabilità della distanza tra il presente e un passato, che si affaccia per frammenti aleatori, improbabili, per cui Montale semmai è un Proust alla rovescia, come ha chiarito Contini in un saggio notissimo. In secondo luogo l'enfatizzazione della componente culla che secondo Barilli sarebbe il portato di un'Arcadia montaliana perdurante fino alla fase Bufera, lo conduce a iscrivere Montale in una zona linguistico-stilistica sottoposta alla giurisdizione dannunzianopascoliana. Ma allora come si giustifica una poesia come Falsetto, dove a partire dal titolo si ironizzano famosi sintagmi dannunziani della Pioggianel pineta, e correlativamente l'eroina è una sportiva nuotatrice ligure? Se, come afferma Barilli, la parente più prossima del « tu » montaliano è l'Ermione di D'Annunzio, come s'interpreterà il rovesciamento polemico de I/imani, che stravolge l'« Ascolta » della Pioggia nel pineta in un e Ascoltami >, foriero di una poetica alternativa rispetto a quella dei « poeti laureati >? II sospetto che gli innalzamenti di tono del primo Montale non siano poi così « incontrollati > e le citazioni cosl « involontarie > come Barilli vuol farci credere in effetti c'è, ed è autorizzato dalla stessa consapevolezza critica che emerge dalle testimonianze d'autore, quali si possono leggere per comodità anche nell'edizione di cui si parla. Per amor di dimostrazione la presunta Arcadia montaliana viene estesa da Barilli a coprire non·solo il linguaggio, ma persino il paesaggio fino alla Bufera, per una fuga nella natura, cventualmente complicata dal « paradiso dell'infanzia, dall'Arcadia ligure, dal limbo delle vacanze in,x:illa>.Equi lo sconcerto è totale, dal momento che <lai Carnevale di Gerti in su la città fa la sua comparsa a tempo e luogo nella poesia di Montale, anche se Firenze negli anni Trenta-Quaranta non poteva essere la metropoli tecno!Ògica dei Novissimi. Per converso, un'occhiata anche superficiale alle poesie recenti e recentissime scopre in atto un consistente filone memoriale ambientato, come è ovvio, nella Liguria dell'infanzia (cfr. in Altri versi Il: Càffaro, Una visitatrice, I nascondigli II, Ouobre di sangue, ecc.). Sicuro, la novità linguistica e stilistica da Satura in poi c'è eccome. Ma non basterà invocare la fatidica data Sessanta e neanche la pura geografia, giacché Milano dal 1948 in poi non è semplicemente la città dove Montale si è trasferito da Firenze, è il contesto in cui egli ha esercitato quotidianamente l'attività giornalistica e, in margine a questa, la scrittura di prosatore. Niente però nasce di colpo: le due prose inserite nella Bufera, ma risalenti al 1943, sono gli incunaboli di una vocazione inalveatasi più tardi nel mestiere. Qui a mio avviso si trova il vero discrimine stilistico per Montale, negli anni a ridosso del Cinquanta. « Nacquero così i racconti non-racconti, le poesie non-poesia che anni dopo raccolsi sotto il titolo La farfalla di Dinard », afferma il poeta in un elzeviro del '69, e pare volerci ragguagliare a posteriori sulla genesi del suo passaggio a una poesia di suggestione prosastica. Un esempio di data alta può essere Di un Natale metropolitano (1948), con i « gradini automatici > e l'affastellarsi di particolari prosaicissimi, il e lavandino >,la« caraffa vuota >, i « bicchierini di cenere e di bucce >; per non parlare della zona terminale della Bufera, più precisamente del Sogno del prigioniero e di Piccolo testamento, ove s'incontrano le prime prove del registro linguistico « comico >, che rispunterà in Botta e risposta /, del '61, a inaugurare la svolta di Satura. Dunque se, leggendo Sanguineti e l'ultimo Montale, ci capita di avere più d'un sobbalzo e di riconoscere più d'una co~sonanza, non abbandoniamoci senz'altro all'ipotesi mutazionisticogenerazionale e prestiamo ascolto al gran vecchio: L'obbrobrio,« Non fatemi discendere amici cari/fino all'ultimo gradino/della poesia sociale./Se l'uno è poca cosa il collettivo/è appena frantumazione/e polvere, niente di più>. P roprio sulla scorta dell'autoironia montaliana potrebbe partire un'analisi seria dell'edizione critica, impossibile in questa sede. Si vedrebbe per esempio come la Nota dei curatori, laddove precisano che l'autore non li ha adoperati « come suo braccio secolare>, lasciando intuire con discrezione i propri desideri, la dica lunga non solo sulle responsabilità comunque ineliminabili della filologia, ma anche - o piuttosto soprattutto - su un atteggiamento di fondo del poeta Montale, da sempre attento a scansare la possibile collusione tra sè e la critica, nella quale incappò invece ben volentieri Ungaretti, l'altro grande della nostra poesia contemporanea, divenuto cogestore delle proprie varianti insieme al suo critico Giuseppe De Robertis. Quando Montale, intervistato nell'imminenza della pubblicazione da G. Nascirnbeni (Corriere della Sera, 1 dicembre 1980), dice: « No, non mi sento come davanti a un monumento. Non ho mai riletto le mie poesie, quando le ho ritenute concluse. Per un'ipotesi estrema, le varianti potrebbero essere arbitrarie, anche fatte da altri, senza che io me ne accorgessi>; quando dice questo, ovviamente non vuol insinuare dubbi sulla proprietà letteraria di quanto è confluito nell'apparato, ma intende ribadire un concetto cardine della sua filosofia nonché della poetica: la natura di illuminazione improvvisa della poesia nell'improbabilità contestuale del vivere. Ironia e relativismo devono avergli agevolato un ruolo di partecipazionedistanziamento dai lavori, con qualche punta ludica che l'edizione registra, come può e deve. Si veda, a p. 865, il ritorno tardivo su Como inglese, che distrugge la testura fonica e ritmica del formidabile inizio, .da sempre e per sempre impresso nella memoria del lettore. In sostanza però Montale ha tenuto d'occhio, ben desto, i lavori in corso. Non è raro, spigolando tra le note, trovare l'espressione « per desiderio dell'autore >. Ad esempio là dove si reinserisce negli Ossi di seppia la poesia Minstrels, espunta dopo la prima edizione (Gobetti, 1925), ripristinando l'ordine gobettiano non perfettamente rispettato nell'edizione Mondadori di Tutte le poesie (1977). L'autore ha fornito precisazioni importanti anche a proposito di certe

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