Alfabeta - anno III - n. 25 - giugno 1981

"' ..... Cfr. Tadeusz Konwicki Piccola apocalisse Milano, Feltrinelli, 1981 Traduzione di Pietro Marchesani pp. 256, lire 8.000 Ecco una narrazione indispensabile (romanzo? si, anche, ma non solo) con cui ci può nutrire con abbondanza, una volta messe da parte le residue paure politiche rispetto alle lacerazioni, ai buchi, alle bruciature del socialismo realizzato (oppure: tradito, mistificato, ecc., ma sempre al potere ....). La tentazione troppo facile è di parlarne solo in chiave polacca (e in questa chiave certa critica tardomarxista può obbiettarci che in Polonia nonostante tutto qualcosa è cambiato, di conseguenza il romanzo non sarebbe più attuale ... si, esiste ancora e trova spazio una simile rozzezza!); la lettura, invece, riduce ogni implicazione politica diretta e rimanda ai grandi modelli del racconto del nostro tempo, al tema dell'ultimo viaggio, dell'ultima giornata della nostra vita... precisamente l'Ulisse di Joyce. Credo che il racconto di Konwicki possa essere definito un «piccolo» Ulisse, con momenti di intensità, desidero sottolinearlo, che nulla hanno da invidiare al Maestro. Il nostro Tadeusz-Bloom viene scelto per bruciarsi, «volontariamente», la sera stessa davanti al Palazzo dei Congressi dove si festeggia il LX anniversario del Partito Comunista Polacco, festeggiamenti prodighi di baci tra il Segretario polacco e quello Sovietico. Presa, ma con riserva, la decisione di accettare l'incarico, Tadeusz esce di casa e rivive in poche ore tutta la sua vita; scopre perfino l'Amore (il rapporto con la ragazza russa, splendida, Nadezda, è uno dei punti di maggiore riuscita); troppo tardi, ma meglio cosi, forse, perché l'Amore è inattingibile, nella realtà, lo si può toccare nel momento in cui si sta sognando di vivere, finalmente. Forse il tema del libro è questo: tentare di riscattare la vita, la vita consumata, fatalmente, nella mediocrità. Per riscattarla occorre riviverla in chiave patetica ma insieme comica, ironica, grottesca, senza indulgenze. Nel punto in cui si ha il coraggio di vivere la propria fine, Il, per uno scatto vitale della dialettica, ricomincia la vita. È anche il tema della ri-nascita, che va ben al di là delle semplici e rozze strutture di quella politica, occidentale o orientale, che «loro» si ostinano a tramandarci, cattivi fratelli della cattiva morte. Amonio Porta Alessandro Dal Lago La produzione della devianza Milano, Feltrinelli, 1981 pp. 75, lire 3.000 I discorsi (medici, sociologici, psichiatrici) sulla devianza, suscitano da sempre un sospetto di base: che prima e più che esigenze scientifiche manifestino preoccupazioni pratiche, di controllo e normalizzazione del corpo sociale (ad esempio: la psichiatria si propone principalmente di curare i pazzi, o non serve piuttosto a indicare i criteri in base ai quali qualcuno può essere classificato, e poi segregato, come pazzo?). Si tratta di meccanismi indagati negli ultimi anni, nel campo della medicina, della psichiatria, della psicanalisi, dei meccanismi disciplinari, da Foucault e dalla sua scuola. Rispetto ad essi, il merito dello studio di Dal Lago consiste nell'esaminare non i singoli dispositivi di controllo (il carcere, l'ospedale, il manicomio), ma la griglia generale entro cui viene interpretata e legittimata la devianza, e cioè la riflessione sociologica degli ultimi due secoli. È in Comte e Durkheim, in Parsons e nella scuola di Chicago, che la normalizzazione della devianza trova la sua prima legittimazione teorica. «Si tratta allora - scrive Dal Lago - di discutere le incongruenze, e in fondo l'inconsistenza, dei discorsi sociologici sulla devianza non come accidenti della teoria, ma come crisi e riaggiustamenti di una strategia politica che tenta, attraverso l'individuazione delle differenze, di stabilire la morfologia di una normalità sociale sempre sfuggente». In questa prospettiva, si capisce allora come definire la devianza sia il metodo più sicuro per determinare a contrario, e per disciplinare, la normalità: le anomalie, segnalate dall'apparato giuridico, vengono filtrate dalla riflessione sociologica, che fornisce una copertura teorica generale (spesso assunta acriticamente anche dai movimenti progressisti) ad una repressione dei comportamenti socialmente indesiderabili che diviene allora produzione effettiva della devianza. E contemporaneamente, da questo processo di selezione e di esclusione, risulta un corpo sociale compatto e omogeneo, la cui effettiva «normalità», è altrettanto indefinibile quanto la «devianza» che si è voluta estromettere. m.f AA.VV. Treni Ferrovie dello Stato, Roma, molto tempo fa Il corpus di locomotive e di vagoni delle FF.SS. è molto vasto, e ricco di storia. Anzi, potremmo dire che la raccolta è decisamente antiquaria. Fra i locomotori la Tartaruga è il titolo più noto, ma se una volta esso era ironico, adesso invece è decisamente realista. Fra le carrozze prevale l'eclettismo: i convogli sono misti di oggetti anni '40, '50, '60, rimangono gli arredi in legno per le linee minori e i pendolari. L'estetica della povertà ha invece il suo rilancio, con le splendide tappezzerie sdrucite, gli strapuntini dissestati, i tovaglioli della prima classe con frittelle e unto di capelli. L'avanguardia ha il suo peso, con la produzione di -eccellenti sinestesie, soprattutto nell'unione di sensazioni della vista e dell'olfatto: persistente odore di arancia marcita; ritirate con odore di merda alla Piero Manzoni; e i treni del mattino con un caratteristico odore di bivacco, molto folkloristico e che richiama un'idea ottocentesca di meridionali. Splendide le performances nei vagoni ristorante, con sedicenti camerieri (ah, Bonito Oliva!) che gettano paste scivolosissime e scorrevoli verdure nei bicchieri di vino acido o dietro la cravatta o il reggiseno dei frequentatori. Magnifica la critica al rapporto artificio-natura con le preziose suppellettili in finta plastica, il formaggio reso formaggino, frutta alla Oppenheim, panini alla Rauschemberg, caffè simulato, dolci in gommapiuma. Fantastici, infine, i party-sorpresa e gli happenings, che si verificano assai spesso con improvvise fermate lungo le linee in località deserte, o con l'arrivo di treni a lungo percorso dotati di piccolissimo numero di vagoni, allo scopo di provocare le più imprevedibili aggregazioni nei corridoi, incontri erotici fra sconosciuti in piedi, trasformazione del treno in autobus. Ma l'invenzione letteraria più eclatante è quella del «treno fantasma»: si tratta di convogli annunciati e descritti con strategie referenzialiste sugli orari ferroviari (solitamente provenienti dal Sud, per accrescere il senso esotico dell'oggetto) e assolutamente inesistenti. Taluni sostengono tuttavia di averne avuto apparizione in certe stazioni poco frequentate, e in orari assolutamente demenziali. Fra i volumi della collana, i più imprevedibili sono Vesuvio, Freccia dei due mari, Adriatico, Ambrosiano, Romulus, ma l'intera serie è diretta magistralmente e non invidia un Borges. o.e. Pane e vino Firenze, dalle parti del ponte da Verrazzano Testo antologico splendido, che nulla ha a che vedere con l'omonimo Marcellino, e anzi si pone in una tradizione anticlericale, quella dell'osteria rivisitata in senso giovanile e vagamente intellettuale. I curatori sono quattro, la simpatica Antonella, una sua deliziosa amica, e due giovani compiti nella parte di sommeliers. L'ambiente è quello di una enoteca popolare ma raffinatissima. Si beve in gotti, su tavoli di legno e magari panche, ma si bevono vini di pregio e di rarità. Prediletto ovviamente il Chianti, ma spesso i curatori offrono conferenze di ambito veneto, e in particolare friulano, di grande competenza. È interessante l'abbinamento del • bere e del mangiare, con esempi di microalimentazione praticamente settecenteschi: torte salate, frittelle, formaggi rari e da collezione, tartine antiche con fegatini o addirittura salmone, tartufi e altre preziosità. L'ambiente è generalmente ben frequentato, con giovani di belle maniere e parte della intellighenzia fiorentina stanca dei locali alla moda e dei caffè chantant, nonché del giro «radical chic>. Vi si notano talora attori, romanzieri, cantanti e perfino qualche studioso di comunicazioni di massa. È d'obbligo la citazione casuale, ed è bene arrivare ad ora un po' tarda, a ricercare la pace e la raffinatezza. o.e. Dejà Vu Mensile di immagini numeri 1 e 2 - marzo/aprile '81 Paris, 23-25 Rue de Berri Il dominio dell'istantaneità elettronica e il declino della cultura alfabetica: questo è lo scenario. E fra i suoi illimitati effetti, la comunicazione planetaria in tempo reale ha anche quello di far mancare ossigeno alla stampa di attualità (come inequivocabilmente dimostra l'agonìa in cui versano i giornali di informazione). Perché è chiaro che ormai è la velocità istantanea e simultanea a scandire il ritmo: e davanti ad essa, i giornali di oggi sembrano sempre più i giornali di ieri («Who Wants Yesterday's Papers?- cantavano i Rolling Stones, e rispondevano «Nobody in the World» ). E non c'è scampo, per la stampa di informazione: o il misero castello di carta costruito con i detriti della comunicazione videoelettronica, o la paranoica corsa allo scoop, che immancabilmente porta dalle parti dei servizi segreti e da quelle della spazzatura. A meno di non mettere a fuoco un punto di vista completamente autonomo rispetto all'ottica d'ordine dell'appiattimento sull'esistente quotidiano. Dejà Vu, allora: un mensile parigino che lavora sul materiale apparentemente più bruciato dal ritmo del quotidiano, quello dell'immagine. E senza rifugiarsi né nel tempo storico della memoria né nel fuori dal tempo della pura tecnica fotografica. L'ipotesi è invece quella del «mensile magnetoscopico, che registra quello che è passato altrove, al di là dell'epicentro quotidiano>. Ecco allora un defilè di immagini planetarie (dal Sahara al Salvador, dall'incendio dell'Hilton di Las Vegas alla strategia dei videogames, dallo sport allo spettacolo) già pubblicate nel mese precedente dalla stampa internazionale e ricaricate di energia co- • municativa grazie a una qualità esclusiva di montaggio (secondo un modo di produzione già sperimentato qui dal Giornale dei Giornali). Perché un'estetica del montaggio è proprio quello che rende possibili le combinazioni più impreviste, svincolando le immagini «già viste» dall'identità del soggetto-autore e liberandole in funzione di infinite connessioni possibili. Proprio come hanno fatto Balestrini con la scrittura, Magazzini Criminali con i suoni, Jean-Luc Godard con il suo progetto di fare un film con spezzoni di decine di altri film. Davvero Dejà Vu? Franco Bo/e/li Rossana Rossanda Un viaggio inutile Milano, Bompiani, 1981 pp.144, lire 6.000 Rossana Rossanda ripubblica in un volume, con l'aggiunta di una significativa postfazione, le memorie del suo viaggio in Spagna del 1962 già apparse sul Manifesto l'estate scorsa. Il libro che ne risulta è affascinante; ed è difficile dire se tale fascino sia più legato all'acutezza dell'analisi politica, o dagli elementi aubiografici e di scrittura. Inviata nel 1962 in Spagna dal Comitato Centrale del Partito Comunista Italiano per raccogliere adesioni ad una conferenza per la libertà di quel popolo dal franchismo, Rossanda incontra luoghi e persone: Barcellona, Madrid, Siviglia, San Sebastiàn; e decine di antifranchisti di varia estrazione. Tutti parlano, e qualcuno anche a lungo, sino alle ore piccole della notte; Rossanda, il più delle volte, ascolta ed annota nella memoria. Ma ciò che emerge alla fine è un grande silenzio, il silenzio di un Paese dominato da un sistema di potere occhiuto e a suo modo abile, ove le «opposizioni> sembrano muoversi nel vuoto pneumatico. Il quadro che Rossanda ne ricava è sconfortante: malgrado il coraggio e la volontà dei militanti, comunisti e non solo comunisti, il regime è quanto mai solido, il dopo-Franco, quando avverrà sarà sostanzialmente gestito dagli stessi gruppi di potere che hanno appoggiato la dittaturra. La rivoluzione (democratico-borghese) sarà, semmai, sostituita da una serie di concessioni dall'alto, abilmente amministrate e dosate. Così avverrà- e non si dica che Rossana Rossanda sia stata «facile> profeta: ben altre erano le analisi e le prospettive dei maggiori esponenti politi~ ci, specie della sinistra. Il viaggio si chiude sotto la pioggia torrenziale che investe uomini e cose sulle coste del- !' Atlantico e sembra sommergere volti, ideali, speranze. L'analogia che Rossanda crede di poter trovare tra la situazione spagnola di allora e quella odierna italiana è opinabile; ma i termini in cui ella la pone meritano un'attenta verifica. Nessun dubbio, invece, sulla capacità dell'autrice di darci una immagine esatta di paesaggi, persone, situazioni; e particolarmente del suo paesaggio interiore, e dei sottili mutamenti che il viaggio provoca in esso. Mario Spinella

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