A. Graziani «C'era una volta la teoria economica». in Alfabeta, n. IO. febbraio 1980 G. Lunghini «Il posto di Sraffa». in Alfabeta. n. 13. maggio 1980 F. Vianello «Cos'è allora il capitale», in Alfabeta, n. 13. maggio 1980 I due interventi di Graziani e di Lunghini, ospitati in recenti numeri di questa rivista. svolgono davvero quella funzione di «smascheramento», cui fa riferimento il secondo autore. !:issi sollevano infatti la densa cortina di «luoghi comuni». tessuta per più di un decennio dai «giovani leoni dell'economia italiana» e dagli ormai meno giovani «ragazzi degli anni sessanta». allo scopo di dimostrare che Sraffa porta a compimento la critica dell'economia politica invano tentata da Marx. La trama della cortina non è, ovviamente. sempre identica. I tessitori di maggior esperienza e di più radicate nostalgie politiche non se la sono mai sentita di ritrarsi totalmente nella «professione» o di coniugare senza mediazioni Sraffa con «Mirafiori», ossia la determinazione dei prezzi e della distribuzione del reddito (dato «un grado di libertà») con i concreti andamenti della lotta di classe. Consci della fallibilità nell'agire e nel pensare umani, essi hanno perciò sempre ritenuto, e tuttora ritengono, Marx un necessario e geniale «pasticcione», con cui non si può evitare il confronto· per dar conto dei tanti vizi e delle poche virtù del capitalismo. A partire dal 1960 però tale confronto non avviene più in modo inerme: ci si può andare armati del rigore sraffiano e di quella parte dell'analisi keynesiana. la domanda effettiva che. una volta sussunta alle acquisizioni di Sraffa. è capace di spiegare le crisi cicliche del sistema economico senza incorrere in «noiose» controversie categoriali. Il giudizio su Marx diviene così duplice. Condannata senza appello è la sua ossessione di voler determinare i termini quantitativi di scambio fra le merci sulla base del valore-lavoro; giudicata irrinunciabile è la sua insistenza nel voler fondare la critica del capitalismo sulla base dei concetti di sfruttamento e di feticismo. Attenzione, però: non si tratta di separare, civettando con Colletti rovesciato, il «Marx filosofo» buono dal «Marx scienziato» cattivo (cfr. Napoleoni, Valore, 1976; e L'enigma del valore, 1978). Una simile soluzione è giustamente considerata insoddisfacente nella tradizione orale modenese, anche se mai criticata (a quel che mi consta) a livello esplicito, in quanto sospettata di dar si conto di cos'è veramente l'economia ma di spostare il «cielo» della politica nell'universo indistinto della filosofia. Ciò accredita il sospetto che la tesi non venga condivisa perché ineffettuale politicamente. Fatto è che per gli autori qui in esame la questione sta proprio nel recupero del «Marx critico politico», ma ridotto e fuso con il terreno scientifico del keysraffismo. I sonni dei «giovani leoni» non sembrano invece turbati da incubi di cotanta ampiezza: la paziente «strategia del ragno», volta a connettere orditi tra loro distanti, a spiegare l'economia ai mandsti e il capitalismo agli economisti, insomma a irretire in qualche modo anche la «vecchia talpa» della politica, non li interessa direttamente. D el resto, se cosi non fosse, questi inconsapevoli e poco avvertiti nipotini di Popper si verrebbero a trovare in un bell'impiccio. Per loro. il discrimine, che specifica la scienza rispetto alla non-scienza, è soltanto il rigore logico-formale, inteso quale metodo assoluto e come tale totalmente inerente alla teoria. C'era una volta la teoria economica I pastiqjMM,!Jairx Di conseguenza. la storia dell'analisi economica è una storia «interna» di progresso lineare e cumulativo, attraversata e turbata da incidenti cronologicamente circoscritti. ma comunque protesa al raggiungimento della verità. Una verità che, essendo essa stessa ormai costretta nel «terzo mondo» delle idee, non può non essere unica, indiscutibile. I classici (Ricardo) e Marx l'hanno per alcuni versi approssimata, più o meno in ugual misura. Su di loro pesano però le deficienze analitiche note. I neoclassici, con una «cassetta di strumenti» più ricca, perdono glielementi di verità dei loro predecessori, An;ra Valentinowicz sviando definitivamente dal retto cammino. Il dirazzamento lo si coglie nell'introduzione di categorie inesistenti (il capitale come fattore della produzione), nella caduta in palesi circoli viziosi, nell'incapacità conseguente di dimostrare le stesse affermazioni di partenza (concorrenza perfetta e saggio uniforme del profitto, determinazione dei prezzi sulla base delle curve di domanda ed offerta). La teoria di Sraffa mostra lo slittamento di problema regressivo del programma di ricerca neoclassico, riporta la storia dell'analisi economica sul retto e «naturale» sentiero di crescita, corregge gli errori di Ricardo e Marx mostrando la potenziale J1rogressività della loro teoria, si avvicina (o forse coglie conclusivamente) la verità. Poiché tutto ciò dimostra fra l'altro che l'economia è scienza della quantità, per quale arcana ragione Produzione di merci non dovrebbe coprire lo stesso oggetto di analisi di un Ricardo e di un Marx? Gli scritti di Graziani e Lunghini hanno il pregio di asserire che l'economia (politica) è una scienza sociale, volta ad analizzare la strutturale contraddittorietà e la natura storica del modo di produzione capitalistico. Come tale. essa deve, insieme, tener conto e dar conto degli antagonismi di classe, degli elementi di crisi (necessaria) presenti nella riproduzione del sisterna. in poche parole degli squilibri conflittuali che emergono nelle forme mediatamente sociali dell'agire di classi e frazioni di classe con diverso potere di disposizione. Poca cosa. si potrebbe pensare, dal momento che già era stata narrata con grande chiarezza, e dimostrata con dovizia di categorie analitiche, da Marx. Il fatto è che la pars destruens del ragionamento di Graziani-L1_mghini pone in luce come e perché una simile definizione di economia risulti assolutamente estranea a quanto si è finora venuto dicendo: né i giovani analisti, di Sraffa armati, né i loro fratelli maggiori, che rendono rigoroso il Marx economista (variabile dipendente) ponendolo uguale a Sraffa più «Keynes amputato» (variabili indipendenti). possono cioè avviare la ricostruzione dell'economia politica lungo le linee critiche di Marx. Anzi. se si trascurano per un momento le ragioni di empatia politica, i due gruppi sono riducibili ad unità: la sola prospettiva eh<' entrambi hanno aperta sul terreno dell'economia. ridotta a calcolo, è quella di costringere la complessità sociale entro le rigidità di «prognosi di tecnica sociale» (Krahl, Costituzione e iolla di classe, I 971, p. 378). U na questione di non poco conto consiste nello scoprire se ciò dipenda dall'insipienza degli esecutori o dal senso, che assume in quest'ottica, il paradigma sraffiano. La risposta, al proposito fornita da Graziani e Lunghini, è efficace, anche se non definitiva perché poco svolta nelle sue implicazioni positive. Se mal non interpreto il loro giudizio, si tratta dei limiti stessi che «la teoria economica pura» di Sraffa palesa, allorquando viene - propriamente o impropriamente - intesa come interpretazione dei meccanitmi di funzionamento del sistema economico. Tale critica è tanto più efficace. in quanto Lunghini «spende» le proprie argomentazioni secondo un taglio complementare a quello seguito dal primo autore. Ciò rende a fortiori esplicite le considerazioni di «C'era una volta la teoria economica». ostinatamente travisate dai critici (cfr. Vianello). Graziani pone un interrogativo, certo stravagante nel panorama economico italiano: quale nesso intercorra fra analisi teorica e «storia esterna>. Per colmo di scandalo, pare inoltre voler suggerire che è su tale nesso che si gioca la «scientificità» delle diverse proposte teoriche. Così facendo egli ha la «colpa» (grave) di «rompere le uova» in due panieri, che da prospettive diverse sempre più si vanno incontrando. Oltre a disturbare l'appagante sensazione di «vittoria» degli sraffisti, colpisce quelle riletture, tanto «alla moda», della storia del pensiero economico pronte ad impiegare, quale metro di giudizio, gli schemi epistemologici dell'ultimo Kuhn o, ancor meglio, di Lakatos. Come coniugare infatti la dinamica dell'economia con il lakatosiano falsificazionismo metodologico (sofisticato), se non eliminando la «storia esterna» previa la sua riduzione al «giudizio» del gruppo degli scienziati (il famoso «gruppo dei pari»)? E, così operando, come non concludere che, oggi. il solo «programma di ricerca> con «slittamenti-di-problema> progressivi è quello di Sraffa, data la regressività della (neoclassica) teoria distributiva di Keynes? Graziani non tocca, se non marginalmente e in un successivo intervento su Rinascita, la seconda questione a livello esplicito. Il suo obiettivo precipuo consiste nel porre in evidenza per quali ragioni l'elisione della «storia esterna> conduca necessariamente gli sraffisti ad un'«operazione pacificatrice» nell'ambito del pensiero economico. I poli della sua argomentazione sono molto chiari e sarebbe superfluo richi,imarli. Poiché però ritengo frutto di un loro travestimento la critica-difesa di Vìanello. è forse bene riprenderli schematicamente, mostrando al contempo, con l'ausilio dello scritto di Lunghini. la loro adattabilità al secondo obiettivo polemico. Vediamo. dunque, quale sia per i due autori la procedura seguita dai «giovani leoni>, ma non soltanto da loro. Dal momento che la storia del pensiero economico è, in verità, una storia dell'analisi, l'unico modo per distinguere le diverse teorie è quello di provarne l'interna consistenza logica: gli assunti di base, proprio perché tali, sono sottoponibili a valutazione soltanto indiretta, ossia tramite il minuzioso controllo del loro svolgimento analitico o la loro corrispondenza con statuti epistemologici specifici. In quest'ottica la teoria neoclassica viene assunta a modello paradigmatico dell'economia borghese del 900, e viene essenzialmente ridotta al campo, certo importante ma non esaustivo. della teoria marginalistica della distribuzione. Quantomeno sul lungo periodo, che è la sola prospettiva di analisi giudicata rilevante. qualsivoglia determinazione di siffatta teoria si rivela però logicamente fallace. Il programma neoclassico, a prescindere dai suoi complessi legami con la sociologia liberal borghese e dalla sua (in)capacità di dar conto della «storia esterna>, viene perciò irrimediabilmente condannato. E Ricardo e Marx? Come già si è detto, anch'essi sono latori di un programma di ricerca regressivo; anch'essi dovrebbero pertanto subire la triste sorte, riservata ai loro successori. Fortunatamente però il loro errore. per quanto simile a quello neoclassico, non è «volgare>. Il loro programma è sì regressivo, ma può anche tornare in auge. Merito di Sraffa è di aver recuperato il «nucleo razionale> dei classici (compreso Marx, che è Ricardo più la teoria della crisi), adattando la forma della «cintura protettiva> e rendendola «non confutata>. Naturalmente il nucleo consolidato permane inalterato, purché si faccia giustizia di categorie che parevano essenziali e che invece non hanno alcun legame con lo schema analitico cruciale. La determinazione quantitativa della teoria del valore-lavoro è in proposito l'esempio tipico, come dimostra la formazione sraffiana dei prezzi e la costruzione «puramente ausiliaria> del «sistema tipo>. Definito in tal modo un nuovo e rigoroso programma, o meglio, reso rigoroso il programma dei classici, esso è pronto a recepire «spezzoni> dei programmi almeno in parte sconfitti, purché consoni alla propria «politica di ricerca> Anche in questo caso l'esempio disponibile è già noto: l'incorporamento della domanda effettiva di Keynes allo scopo di approfondire l'esame marxiano delle crisi cicliche. S e questo è il senso, anche se non la lettera, del ragionamento di Graziani-Lunghini, la conseguente critica ad una simile impostazione è scontata: chi così ragiona ha trasformato la storia del pensiero economico in una «gigantesca caccia all'errore>, prima, e in unpuu.le, poi, che annulla le differenti «visioni> delle varie impostazioni teoriche, nel senso che cancella le contrapposte interpretazioni della «storia esterna> e soprattutto la diversa spiegazione dei «conflitti sociali>. Affermare perciò che l'esito è un' «operazione pacificatrice> non è un'esagerazione, ma semmai un peccato di troppo «fair play>. In realtà, è lo stesso schema di Sraffa ad essere chiamato in causa. Esso è godibile per il suo nitore formale, ma inutilizzabile per la ricostruzione di un programma di critica dell'economia politica poiché espunge dal campo di analisi gli antagonismi, e ancor più la contraddittorietà, fra classi sociali, fra capitale e lavoro. Capitale-denaro e forza-lavoro non sono più i due poli contraddittori di un rapporto sociale complesso, che si risolve nella riduzione del secondo al primo mediante la
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