Alfabeta - anno II - n. 14 - giugno 1980

Sullaculturadell'estremism(olii) Continuiamo gli interventi su questo tema; sono già apparsi scritti di F. Leonetti e di P.A. Rovatti nei numeri 10 e 11 di Alfabeta. 3 Lapo Berti: Le esitazioni, le ambiguità, gli scongiuri N on sono tra quelli che considerano il tefforismo quale si è manifestato da noi costituzionalmente estraneo alla cultura politica della sinistra, che in Italia significa poi cultura marxista e leninista. Non si capirebbero altrimenti le esitazioni, le ambiguità, le mistificazioni, gli scongiuri, che in questi anni hanno caratterizzato di volta in volta l'atteggiamento degli spettatori di sinistra del fenomeno terroristico. Non si capirebbe, per essere più chiari, la lunga, sorda connivenza ideologica con cui certi settori della nuova sinistra (ma anche della vecchia, a quanto si comincia a intravvedere) hanno seguito le prime fasi della storia terroristica, né la furia cieca con cui il partito comunista ha menato colpi su tutte le forme di dissenso per esorcizzare lo spettro del terrorismo. In un caso e nell'altro, sia la supina accettazione sia la reazione furibonda si spiegano solo con la consapevolezza latente di un legame sottile ma profondo, di una sostanza sfuggente ma vischiosa, che convoglia l'esperienza del tefforismo nostrano nel grande alveo della storia politica della sinistra italiana, di quella che a lungo si è proclamata o tuttora si proclama rivoluzionaria. Non dico questo per uniformarmi al diffuso clima di autoflagellazione che , serpeggia nella sinistra. Né voglio tantomeno avallare un'interpretazione rozza e spesso in malafede che vede nel tefforismo il prodotto necessario del marxismo rivoluzionario. Voglio semplicemente dire che l'atteggiamento di chi si affretta ad espungere dal marxismo storico l'esito tefforistico mi pare assolutamente inefficace, oltre che iprocrita. Non si tratta di dimostrare, sulla base di qualche citazione da Marx o Lenin, che i padri del marxismo rivoluzionario hanno sempre vigorosamente respinto la violenza armata come strumento della lotta politica. Sarebbe forse, dico forse, facile, ma anche improduttivo. Non possiamo continuare a giocare, ha ragione Rovatti, sull'opposizione di ortodossia e deformazione per sentirci rassicurati sulla validità del modello. Quando gli errori, le deformazioni sono cosi ricorrenti, quasi una costante nella storia politica del marxismo, è lecito domandarsi se un qualche vizio non sia anche nel manico. Allora l'ipotesi cruciale che si tratta di affrontare è questq: nell'insufficiente determinatezza del discorso politico marxista, nella maniera in cui è tematizzato il problema della trasformazione sociale, nella forma che esso ha assunto nella pratica leninista, sono o[ferii i termini per una sua risoluzione anche mediante la lotta armata e quella sua particolare applicazione che è il terrorismo. no da due secoli e che nessuno può sperare di cancellare con la scolorina. dunque le grandi novità della nostra epoca, per fare spazio allo smercio di pseudo-novità di serie già obsolete da decenni. Si pensi alla scomparsa del proletariato in quanto classe, già cavallo di battaglia dei Touraine prima del Maggio. già caduta nel ridicolo e ora riproposta ovunque con spudorata leggerezza anche in ambienti che si reputano «estremisti,.. Dov'è la novità? A otto anni dai Limiti dello sviluppo sappiamo che il capitalismo è incapace di seguire la ricetta «illuminata,. (leggi: nazista) dello sviluppo zero proposta dal Qub di Roma. Il capitale è inscindibile dal profitto e quindi dallo sviluppo. Ma egualmente la strada dello sviluppo gli appare bloccata, poiché e~ non è più in grado di soddisfare le esigenze avanzate contemporaneamente dal proletariato metropolitano e dalle masse del Terzo Mondo. SviBisogna dunque riandare alla genesi delle categorie politiche del marxismo ed in particolare alla sua filosofia della storia, che è poi la cornice entro cui si disegna il programma di ricerca marxiano. E qui vedere come si costituiscano, entro una visione generale del processo sociale, una concezione del potere e dello Stato, un'idea del passaggio rivoluzionario (distruzione del/'apparato statale) e della transizione (estinzione dello Stato) che ancora concorrono a plasmare con forte impronta la coscienza che i soggetti antagonistici si formano delle possibilità e delle vie del cambiamento sociale. Il momento chiave del modello politico marxista, quello che condiziona pesantemente la formulazione del programma, è certamente costituito dalla concezione dello Stato come epifenomeno dei rapporti di classe. Si è già osservato altre volte come nella teorizzazione dell'autonomia del politico si ritrovino sorprendentemente affiancati sia i teorici delle Br intenti a colpire il cuore dello Stato sia i propugnatori di una grande iniziativa neoriformista che investa direi/amen/e la gestione statuale. Questo passaggio, che non fa altro che riproporre il rovesciamento leninista dell'impostazione marxista classica, poggia comunque sullo stesso terreno, quello dello Stato inteso come organismo separato in cui è organizzato il dominio di classe sulla società civile. /upparsi nella miseria è il sogno proibito. come ai bei tempi dell'accumulazione primitiva. Su questo sogno si innesta la ricorrente utopia di una cibernetizzazione che gli ridia controllo sulla società e terreno di sviluppo a buon mercato. Da queste contraddizioni senza uscita provengono le crisi che scuotono il mondo. Sotto mentite spoglie, il processo rivoluzionario è in moto ovunque, ir:iSvezia come in Iran. Se la nostra intelligenza non ci basta a rendercene ragione è meglio non dare la colpa alle cose. Gli ultimi trent'anni hanno dimostrato con argomenti ben pesanti che due soltanto sono le forze che fronteggiano il capitalismo: il movimento operaio tradizionale, che ha perso l'unità fittizia dello stalinismo conservando il processo di burocratizzazione che ha marcato il nostro secolo; il movimento autonomo del proletariato, quale si è espresso a Berlino nel 1953, a Budapest nel 1956, in BelIn questo senso sono d'accordo con Horst Mahler, ed è forse l'unico punto, quando dice che solo la sinistra può sconfiggere il terrorismo. Sconfiggerlo politicamente, voglio dire, perché su altri terreni sembra sufficiente ilgenerale Dalla Chiesa. Ed è anche questa una cosa su cui rijlellereseriamente quando si parla di Stato e di sovversione in un paese capitalistico maturo. Ma per battere il terrorismo sul terreno politico, per batterlo come soluzione politica che cerca e talvolta trova, una sua perversa legittimazione nei bisogni e nella volontà delle masse proletarie, è necessaria una grande inziativadi riconversione del pensiero politico che tenti di dare espressione e sbocco operativo ali'antagonismo sociale. Occorre, credo, andare a riconsiderare con occhi nuovi la storia di questo decennio di lotte e di tentativi, allenti ai passaggi cruciali in cui il nuovo non hasaputo trovare forme di espressione adeguate, in cui il prevalere di schemi teorici ed organizzativi tradizionali ha sbarrato la via ad esiti non codificati. Perché qui stanno anche le ragioni del terrorismo. All'inizio di tutto c'è il '68. Su questo non c'è dubbio. E c'è sopral/ullo il tentativo di verificare,all'interno di questo primo grande movimento maturo della storia di classe in Italia, massicciamente e dichiaratamente anticapitalistico, la possibilità di un uso fortemente innovativo dell'impostazione marxiana. L' operaismo teorico si fa pratica politica, dentro un crogiuolo di idee e di pratiche co/leuive in cui entrano confusamente le grandi esperienze rivoluzionarie di questo secolo e soprattu/lo l'idea-forza che la classe operaia si stia concretamente dimostrando classe egemone nell'esercizio di un suo potere di comando sul processo produuivo, sul meccanismo generale dello sviluppo. Questa è e resta l'unica ipotesi innovativa, a/l'altezza dei tempi, che circola nel movimento di lolla. È bene riaffermarlo. Il marxismo accademico ed istituzionale tace, mentre la variante m-1 ripropone antichi rituali. L'operaismo pratico, che non gio nel 1960. a Watts nel 1965. in Francia nel 1968, in Italia nel 1969, in Polonia, in Portogallo e in Iran negli anni Settanta. Questa autonomia - che ha ben poco a che vedere con Antonio Negriè un fauo storico che non può essere cancellato solo perché dà dispiaceri o perché si oppone alla forma tradizionale del movimento operaio. La Cultura di sinistra degli anni Settanta ha agito contro queste forze reali, a favore di forze irreali, aborti di partiti, gruppuscoli, racket e bande. Nessuna di queste «forze• è sopravvissuta a se stessa, quasi tutte sono servite al disegno di rivincita con cui il capitale dello «sviluppo limitato• cerca· di salvarsi. Attraverso questa mediazione, le forze della Cultura hanno partecipato a tutte le illusioni e a tutte le irrealtà, servendo l'unica forza reale retrostante. quella della società del capitale. E della realtà effettuale che bisogna ora occuparsi, e delle forze esistenti. Il ha mai ricevwo una codificazione teorica e che travalica i limiti dei gruppi organizzati, è l'unico habitus di pensiero che abbia tentato di cogliere e di esaltare le novità della.situazione. È, se si vuole, l'ideologia del movimento. Il suo estremismo sta nel rifiuto spontaneo delle regole del gioco, di tutte le regole. E qui è la sua grandezza, ma anche la sua miseria. Non appena sul movimento si cominciano a fare giochi politici, non appena il movimento stesso, nella sua caoticità, comincia a rifluire nelle forme deliri politica, la spinta innovativa si appanna, perde la sua forza trainante. Le forze della sinistra, tulle, non hanno saputo rispondere, né sul terreno riformistico né su quello·rivoluzionario, alleaspeuative, ai nuovi comportamenti, ai nuovi valori, che il movimento aveva espresso. Oggi, nella prospeuiva di 1111 decennio ormai trascorso e di una restaurazione selvaggia, lo si può affermare con certezza. Si sono limitate a vedervi, banalmente, la conferma di antiche ipotesi, a cercarvi, tutt'al più la legiuimazione di nuovi ceti politici, mentre si trai/avadi raccogliere la sfida a guardare in maniera diversa l'oggeuo della trasformazione, i suoi co111e11utlie, sue forme. Si è visto allora che i partiti operai, i sindacati, i «gruppi», per una ragione o per l'altra, non producevano potere, 1101p1roducevano ciò che doveva costituire la materia del loro esistere. Non materializzavano la trasformazione. E per di più in presenza di un'ondata di insubordinazione anticapitalistica senza precedenti, con uno spessore sociale mai visto. É in questo scarto che nasce e si afferma l'ipotesi terroristica. Come tentativo di surrogare un potere che il movimento, partiti e partitini 1101h1anno saputo produrre. Credo sia questo il momelllo cruciale, sia storicamente, come passaggio concreto che decide de~'evoluzione successiva del movimento, sia teoricame111e,come nodo da sciogliere per ridare senso e prospeuiva ad un diballito sulle forme alluali dell'antagonismo e sulle possibili vie di una trasformazione delle condizioni sociali. Nella fase critica del '68-'70 era certamente data la possibilità di sperimentare un nuovo rapporto tra la dinamica conflittuale dei sagge/li sociali e leforme costituite dellapolitica, una nuova figura del (co111ro)potere che aprisse spazi al libero dispiegamento di un'immaginazione sociale alternativa. Ci si sco111ròinvece con uno di quei faui duri su cui l'intellige!1zasi affatica invano se non è sorreua da una prassi trasformatrice, ossia la vischiosità delle soluzioni storiche, la sorprendente permanenza nel medio periodo delle forme date della sublimazione politica delle spinte sociali. Decine di migliaia di quadri operai e stude111eschcihe forse per la prima volta si erano sentiti davvero protagonisti, partecipi di un movime1110che non li avrebbe più costreui a/l'antica divisione dei ruoli tra chi lolla e chi rappresema, si videro a poco apoco ricacciatidi frame alle vecchie soluzioni: il partito, il partitino, il sindacato, l'opposizione di sinistra. Sembrò allora, e qui sta ancora oggi il puma, che l'alternativa incombeme progetto dell'autonomia operaia si è storicamente abbozzato nel movimento dei Consigli, ma è ancora distante dalla sua formulazione pratica. Anche il p·rogetto del movimento operaio tradizionale si è dissolto, c'è chi spera di ricostruirlo, ma è inutile fingere che esista. Ed è inutile fingere che le due forze non si contrappongano. Quello che ha cessato per sempre di contrapporsi è la cultura dell'estremismo, l'impossibile Terza Via coltivata dalle cerchie intellettuali e politiche gauchistes. Essa è morta con gli anni Settanta. E meglio che la cultura più consapevole ne prenda atto e tragga partito dalla lezione. A prezzo della disperazione, quelli del S. Marta hanno ora strumenti più affilati verso la cultura del recupero e della mistificazione. Bisogna innanzitutto che lo sappiano, per possederli realmente. La Cultura, ubriaca del suo successo apparente nei fosse la scomparsa del movimento, la distruzione del suo potere. Molti si piegarono alla «logica delle cose», altri tentarono scorciatoie. Ma sempre dentro la stessa prospeuiva del processo rivoluzionario, che vede salire il potere dal movimemo finché non si trova faccia a faccia con il potere costituito e si pone quindi il problema di infrangerne le struuure, perché non è più dato conquistare altri spazi senza passare per questa ro1111ra. Date le premesse, e queste erano largamente diffuse, la soluzione armata non era priva di una sua coerenza. A nessuno venne in mente che il potere proletario non fosse omologo al potere costituito, ma avesse una sua qualità particolare e quindi anche forme diverse di espressione e di comunicazione. La storia si è ripetuta, seppure su scala minore e con connotati diversi, nel '77. Anche qui un movimento, forse ancora più consapevole delle proprie implicazioni sociali e dellacaricadi rottura ideologica, teorica, pratica di cui era portatore, non ha saputo darsi uno statuto adeguato alle istanze di liberazione che esprimeva ed ha finito per ripercorrere la via sbarrata di una sua rappresemazione politica. Ancora una volta, il radicalismo dei comportamenti sociali è stato tradouo nelle forme dell'estremismo politico, la violenza insita nella rouura delle regole del gioco riprodultivo, nel rifiuto dei valori costituiti che disciplinano l'esistenza, è stata risucchiatadallagestione della violenza che il sistema politico istituzionalizza nella polarizzazione terrorismo-partiti costituzionali. Ed ancora una volta ne è residuato un ceto politico che ha cercato di trasmigrare nel cielo della politica con la forza delle armi. La radici ideologiche del terrorismo, dunque, non sono propriamente nella cultura diffusa del movimento, ma nella cultura politica, soprauuuo di matrice neoleninista, che sul movimelllo tentò propri giochi di potere. Da questo punto di vista il terrorismo è un fenomeno tu/lo politico, la sua storia è quella di un ceto politico che ha cercato a tu/li i costi una via per la propria legittimazione, dopo che era fallito il tentaativo di reinventare il ruolo e la figura del militante, la funzione della politica, de111roil movimento. Certo, le origini del terrorismo non sono solo ideologiche. Esso trae alimento anche e sopra/lutto da quella decomposizione di un tessuto sociale, da quella disgregazione di una composizione soggelliva di classe che si consuma nella sconfiua politica di questi anni. Ma le radici sociali del terrorismo sono per così dire indirei/e, forteme111e mediate da una componente ideologica e politica che ne fa, in senso più pregnante, un elemento str1111uraldeel sistema politico italiano nella configurazione perversa che ha assunto nella seconda metà degli anni se/tanta. Ed è dunque come fenomeno politico, con tulle le sue implicazioni ideologiche, che va bauuto, come cerniera decisiva de/l'universo bloccato in cui l'amagonismo sociale è stato costreuo, come perno di un'uscita autoritariadallacrisidestinataa renderemuto il sociale. teatri e nelle librerie, è già totalmente vulnerabile, poiché non è più protetta da nessuna illusione «estremista». Su questo si sbagliano quelli del S. Marta, quando scrivono: «nei prossi!J1ianni non ci sarà più contestazione giovanile». Probabilmente, quel «gidvanile» confonde le carte in tavola, come le ha già confuse altre volte. Ma poco più sopra avevamo letto: «sai che bella prospettiva fare l'operaio e l'impiegato per tutta la vita ... ». Quella frase contiene l'unica questione effettivamente posta: il mantenimento o il superamento del lavoro salariato e della divisione del lavoro nell'epoca dell'automazione, la capacità o l'incapacità del capitale di gestire lo sviluppo informativo universa(e (cioè la comunicazione) nell'epoca in cui da esso dipende ogni altro sviluppo. Con il lavoro, anche la Cultura, come esercizio separato del pensiero, è ora messa in causa.

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