Alfabeta - anno II - n. 14 - giugno 1980

Linguaggeiocambiamento ( Il) La prima puntata di questo tema è apparsa nel n. I Odi Alfabeta e comprende scriui di A. Guglie/mi, F. Leone/li, A. Porta. 4) Roberto Bugliani: Nell'utopia (intervento politico) I ntervenendo sui problemi di natura politica, oltre che letteraria, che il libro di Leonetti, In uno scacco, offre alla discussione, è indispensabile mobilitare alcuni concetti-limite o grandi temi: quali la scrittura, la militanza, lo scacco e l'utopia. Quest'ultimo termine, chiamato in causa nella prima tornata di interventi su Alfabeto 1 O da Porta e da Angelo Guglielmi pur con diversità di analisi, è comunque pertinente al testo: «avviene così che nel timbro del testo, che è quello che conta, ci sono qui rilievi di emozione o di utopia», si legge a p. 23 del libro. E una poesia ha il titolo e il luogo «L'utopia». Si comincerà col notare che In uno scacco è intersecato da una molteplicità di piani e di registri linguistici, presentandosi tanto come testo in prosa (nelle forme del frammento autobiografico, diaristico, romanzesco e del discorso politico) che come raccolta di poesie. E il testo stesso ad autorizzare di sé più letture possibili. Non solo dunque si deve parlare di una articolazione del libro in sezioni o parti, ma soprattutto di una sua mobilità, di una discontinuità «organica»: che sul piano letterario assume i caratteri dello scarto stilistico, del brusco trapasso da un codice a un altro, mentre su quello del discorso politico la parola di Leonetti irrompe nei modi «forti» dell'intervento leninista, della sferzante valutazione propria della lotta teorica. Inoltre, nel gioco o «gara a ruberia, combinazione e controcanto» avviato con i testi classici. le poesie del libro trovano la loro dimensione costitutiva. che è poi quella della riscrittura, della ripresa, nello scacco del '78, di moduli stilistici e di forme metriche della tradizione, in commistione di «alto» (i classici: Dante, Leopardi, ecc.) e «basso» (canzonette e modi popolari), materiali con cui Leonetti aveva già intessuto il suo primo libro di poesie, La canlica, del 1959. Ma non basta definire questa specifica operazione letteraria come «ritorno» di Leonetti al verseggiare della maniera giovanile, e coll'occasione richiamarsi magari alla dialettica tra vecchio e nuovo che deve. in maoistica concezione. guidare la prassi letteraria, doverosamente aggiungendo poi del nuovo nel processo di rielaborazione (come il bracciante meridionale fa nell'«inizio» di romanzo del «Racconto corsivo, 6». leggendo La Gerusalemme liberata, cui egli «aggiunge» la storia e le lotte della sua classe al Sud). C'è dunque dell'altro da dire, se vogliamo cogliere il complessivo senso politico sotteso a tale operazione di riscrittura, tentata per l'appunto oggi quando, vuoi per «gli sbagli, i tradimenti e i sogni statalisti e nazionali del partito grosso», vuoi «per il fallimento del nuovo, del nostro modo di lotta», dice Leonetti, «non c'è più nulla di buono» nel disordine che ci circonda. Se viene meno l'azione. la militanza politica diretta, la progettualità rivoluzionaria nei tempi medio-brevi, se segna il passo la lotta e la pratica politica dei gruppi di Nuova Sinistra (innestata con un certo rigore leninista sul '68), se questi sono i nodi e le immagini che caratterizzano l'attuale congiuntura politicà, allora la risposta dello scrittore, che vive sulla propria pelle questa contraddizione, può essere appunto la riscrittura attuale nello stile antico di vecchie poesie, con la coscienza, scrive Leonetti, che «anche ora scrivo nient'altro che un oltraggio linguistico pur impugnando il linguaggLocome giusta risorsa, proprio oggi». Orbene, c'è in questa definizione del linguaggio quale (giusta risorsa, proprio oggi» il rifiuto di leggere lo scacco (che è del testo e del contesto insieme) in chiave di «fallimento», inglobando di fatto il testo di Leonetti, preso come testimonianza o pretesto, all'interno del discorso (meglio sarebbe dire dei discorsi) sulla cosiddetta «crisi del marxismo». Tale discorso rifiorisce puntuale a ogni bilancio del decennio appena trascorso; oppure sboccia autonomamente, sulla spinta tanto dell'involuzione politica dei gruppi di Nuova Sinistra quanto del giro di vite autoritario che la borghesia vuole imprimere al paese in questo inizio di anni 80. E c'è anche il rifiuto di ripetere vecchi schemi di analisi, ritenendo per esempio che tra prassi artistica e lotta politica intercorrano unicamente rapporti di immediatezza e meccanica dipendenza. . Difatti, si può postulare un rapporto unitario tra linguaggio artistico e realtà, un rapporto di scambio o «riflesso», a patto di comprendere la relazione dialettica esistente tra i due termini, la quale assume le forme specifiche della contraddizione, della differenza, del riflesso attivo, in una complessità di livelli «rappresentativi». Così, il linguaggio che riflette e parla lo scacco intellettuale e politico del nostro tempo nelle specifiche forme e moduli stilistici prima visti, non .è da intendersi quale «ritorno a», arretramento o regressione al passato linguistico per aggirare in qualche modo lo scacco del presente. Bensì, precisa lo stesso Leonetti, ha il senso dinamico di «passaggio negativo», il che implica l'idea di attraversamento di questi nostri amari e dispersi anni: con possibilità dunque di verificare il «negativo», e con resa linguistica parziale nel momento stesso dell'attraversamento: in oggettivo percorso della classe che è anche percorso intellettuale di pochi. Allora, una lettura possibile. o. s<: vogliamo, «al'tra» del testo di Leonett i (e non solo di questo. ma del nuovo Balestrini e inoltre. allargando giustamente l'area ad altre recenti produzioni letterarie o artistiche). ha da proporre la polarità ternaria Scrittura - Rivoluzione- Utopia: la quale indie;, un percorso intellettuale «irregolare». che ilconcetto di scacco priva di centrn stabile e di modelli già collaudati; e· che è irriducibile a una sua ricomposizione in un ordine superiore di equilibrio. magari di qualche sistema binario proprio del nostro secolo cibernetico. Se questa ipotesi sia frutto di ragioni contingenti oppure se si dimostri più longeva e continui a dare i suoi frutti anche in un periodo più felice di questo non sappiamo dire; sappiamo comunque che è questo un modo per lasciare aperte le contraddizioni operanti in arte e letteratura; e sappiamo anche che l'utopia è ipotesi di lavoro linguistico. paradigma di militanza e scrittura, modo per enunciare qui e ora le ragioni politiche della prassi letteraria, in continua ricerca del nuovo, in termini conflittuali di rottura con le istituzioni linguistiche e i valori artistici esistenti. Ma l'utopia deve rimanere anche etimologicamente fedele a se stessa: un non-luogo, proprio da rivendicare provocatoriamente di contro ai luoghi propri, scientificamente suddivisi e autonomamente indagati, del Sapere, del Politico, del Linguaggio. L'utopia anche nel senso di Baczko (che richiederebbe un lungo discorso, è quasi un «bisogno radicale») è ben diversa da quella di Mannheim. on si deve assegnare una scansione o una cronologia -al processo utopico e distinguerlo da quello propriamente rivoluzionario mediante l'introduzione di un prima e di un dopo. Perché oltre a sparare sugìi orologi (vecchio progetto rivoluzionario), bisognerebbe anche fare un uso diverso, anomalo, dell'orologio; e per riprendere un'immagine di poesia leonettiana, !'«antico oriolo» deve sempre più essere «degno d'un mariolo». Del resto, nessun programma che prefiguri alcunché si deve stendere oggi, bensì lavorare su dettagli, su frammenti, su ipotesi parziali, in continua verifica, giacché ora, come scrisse Marx all'inglese Beesly in una lettera del 1869, «chiunque stenda un programma di società futura è reazionario». Legittime, invece, ci paiono le tensioni alle utopie e alle verità intellettuali che, ricorda Fortini, sono storicamente connesse con le classi nonborghesi. E doveroso è nel contempo rifare i conti con gli errori politici, le incapacità teoriche, le contraddizioni anche soggettive, ripigliando i nodi irrisolti che hanno determinato (per chi si richiama al progetto di trasformazione rivoluzionaria del reale), questo luogo di scacco; ciò per rifondare, in una continuità teorica del processo, il progetto stesso, e malgrado che l'indirizzo prevalente sia quello di abbandonarsi a una visione da Wall Street del pensiero marxista, non esitando a compiere i gesti più clamorosi, ad attuare gli accostamenti più impensati nella speranza di trovare in tal modo l'uscita. Uscita che nessun discorso (nell'odierna accezione del termine) saprà mai trovare, e della cui esistenza «plurale», distinta per sistemi, territori e discipline, fortemente dubitiamo. Fi:;. f:G. - Stupore prirnith·o (pazzia masturlintot·ia). (L'atteggia,nento catalettico e semie~tatico del soggetto è stato provocato pc,· su,;gestione]. 5) Romano Luperini: Linguaggio del cambiamento U n'altra discussione di metodo? Vogliamo tornare a Vittorini o Togliatti, politica o cultura? Alle querelles categoriali degli anni cinquanta? Guglielmi vorrebbe. li suo linguaggio, fondato sull'inappellabilità del truismo, sembra quello del Vittorini anno 1946 (quello che si apprestava a tessere l'elogio di Croce): «è fin troppo facile ricordare che uno scrittore è uno scrittore e un politico è un politico e non vi è passaggio dall'uno all'altro». Ma Vittorini aveva davanti Togliatti e l'intero movimento operaio internazionale (cioè Zdanov e Stalin: e scusate se è poco). Guglielmi ha davanti solo un poeta che ha fatto precise scelte politiche e che per questo seguita a preoccupare. Non sarebbe meglio, invece di parlare in astratto di politica e di cultura, di linguaggio e di cambiamento, da un lato chiedersi di quale politica e di quale cultura stiamo parlando, interrogarsi sui fattori (invece di catalogare fatti o di di ceIlare sulle teorie), dall'altro vedere, in concreto, in Leonetti, il nesso di soluzioni formali e politiche? Non sarebbe meglio, insomma, passare al merito? Guglielmi a prima vista difende la «scrittura» contro la politica ovvero le ragioni del linguaggio di fronte a quelle del cambiamento e della «rivoluzione». In realtà difende una certa linea politic_asul linguaggio e sulla scrittura. Ma non solo sul linguaggio e sulla scrittura, se si unisce al codazzo dei più e aggiunge la sua pietra a quella dei lapidatori del '68. C'è il terrorismo? La colpa è del '68. I democristiani rubano? La colpa è del '68. La poesia declina? La colpa è del '68. Come si stava meglio prima, come si stava meglio prima (prima del '68). Il tema era già stato svolto da Siciliano nella sua prefazione all'antologia di Porta .. Guglielmi Io mette in bella copia. È troppo chiedersi se questa non sia un'operazione politica in qualche modo collegata (ne siano o no consapevoli Siciliano e Guglielmi) al clima di restaurazione in cui si tenta di cacciarsi? Ma sotto c'è anche una scelta letteraria: la scelta di una linea politica sul linguaggio e sulla letteratura che impedisca un intreccio fra linguaggio e cambiamento. Il caso Leonetti è solo una scaramuccia di una battaglia più generale. Quale soluzione migliore, allora, del ricorso all'armamentario consueto del distinzionismo idealistico? E io che avevo sperato che la neoavanguardia fosse servita almeno a far passare l'elementare concetto (elementare, dopo Benjamin) che ogni scelta stilistica è una scelta politica. Evidentemente, m'ingannavo; c'è ancora chi seguita a porre la questione del cambiamento del linguaggio, saitanto quella del linguaggio del cambiamento. Ma allora che c'è stato a fare, Sanguineti, a predicare, fra voialtri avanguardisti, per tanti anni? Tra stile e politica, tra «scrittura> e «rivoluzione» Guglielmi torna ad abbassare le usuali saracinesche della tradizione culturale e letteraria. Sceglie il vecchio terreno sicuro dell' «autonomia» della letteratura. Vecchio. di certo. Ma davvero sicuro? Il fatto è che questi incorreggibili ritardatari del Gruppo 63 (che pure a loro tempo ebbero il merito d'aver capito che gli operatori culturali sta- , ano ormai nuotando nell'oceano dell'integrazione capitalistica) sembrano ignorare che la stessa letteratura non .:\iste più o almeno sta cambiando statuto. Quando tutto diventa letteratura. anzi. come oggi si dice. «testo> o «,crittura». questo vuol dire. per l'appunto. che niente è più letteratura: o non lo è più come prima. Non esiste più l'«autonomia» della letteratura. ,irto sicuro e separato. ben recintato in 111:tctionfini. con giardinieri «liberi> e, naturalmente, appassionati. Sono pas- ,ati quei tempi (passati già al tempo del «boom» economico). 11 '68. come movimento oggettivo (al di là delle idee dei suoi rappresentanti). non ha fatto che prenderne atto. scoprendo una realtà indotta dallo stesso sviluppo capitalistico: la fine della separatezza della letteratura. Contemporaneamente, come movimento soggettivo e tendenza politica, il '68 ha condotto una lotta contro tutte le separatezze: non solo contro la separatezza della letteratura (e cioè contro la pseudo-autonomia garantitale dal capitale). ma anche contro la separatezza della politica. Esso ha posto in discussione la separatezza dei vari linguaggi come sistemi formalizzati, astratti e istituzionalizzati. Ha denunciato la ìstituzione letteraria non meno di quella politica. La crilicaalla separatezza della leueratura implicava la critica di ogni separatezza, non già l'affermazione della separateu.a della poli1ica o della sua supremazia sulla letteratura. Questo è stato il nocciolo culturale e strategico del '68. Che poi talora sia stato travalicato il segno e ci sia stato chi ha teorizzato il suicidio dell'intellettuale e «il rifiuto della letteratura>, è vero (d'altronde, è assai difficile, grazie a dio, mettere le brache a un movimento reale). Ma questo non è stato certo il caso di Leonetti e della maggior parte degli intellettuali. Anzi, l'unica rivista letteraria del '68 che abbia posto con rigore la questione dei rapporti tra «linguaggio> e «cambiamento>, Che fare, diretta appunto (oltre agli altri) da Leonetti, non ha mai abbandonato in quegli anni la riflessione sullo specifico letterario, pur studiandone le connessioni col «cambiamento> politico (una svolta in senso politico si è registrata dopo il '70, ma non mi risulta che sia mai stata teorizzata: fu semmai il riconoscimento di una necessità pratica). Se si vuole essere precisi, bisogna addirittura riconoscere che Leonetti, pur essendo l'unico della sua generazione a impegnarsi direttamente nella milizia politica. è stato, in merito alla questione dei rapporti fra politica e cultura, anche troppo vittoriniano (e comunque - questo è certo- mai ha pensato a soluzioni Manoviane o panpoliticiste in proposito). ·o•altronde, se si scende sul terreno del merito, i testi cantano chiaro. Proprio l'unilateralità delle posizioni politiche assunte da Leonetti a partire dal biennio 1967-68 e la convinzione teorica- a livello di poetica-che Iospecifico letterario vada destinato non «alla storia letteraria o a quella dei valori> ma alla «rottura> e alla «lotta> (si veda la Lunga noia in calce all'ed. recente di Conoscenza per e"ore) impongono alla sua ricerca una limpidità e un'intensità secca di dettato che superano di colpo, nella sua produzione post sessantottesca (e soprattutto in Percorso logico del '960-75 e in alcuni testi diln uno scacco), quanto di attorcigliato e d'indeciso (anche formalmente) rimaneva nella precedente. La posizione politica si è fatta stile, è diventata sentenziosità maoista e scandita percussività: «E parlo col plurale, questo è sbocco. / Dicevo di me solo. ero tale una volta! / e ora dico di me duplice! e di me uguale!>. Sul piano della «scrittura>. altro che «scacco>, dunque. Ma, si dirà. ora è lo stesso Leonetti a confessare un fallimento (accettiamo per un attimo questo significato indebito assegnato da Guglielmi al termine di «scacco»). Già: ma non è uno «scacco» privato di Leonetti colpevole di aver tradito la letteratura fornicando con la politica; è qualcosa di più. Possiamo dire che questo scacco è in realtà quello dell'intero movimento operaio internazionale? Credo di sì. E se qualcuno non ci crede. si guardi in giro, dai gulag dell'Urss alla politica filoamericana di Teng-xiao-ping alle guerre fra Cina Vietnam Cambogia alla politica militaristica di Cuba in Africa sino al clima di «tentata restaurazione> (usiamo pure la formula cautelativa di Porta) di casa nostra. li '68 è stato l'ultimo subbuglio di un'epoca che moriva,ecioè di una fase storica del capitalismo (quella cominciata con la «grande depressione» del 1929) e di una fase storica del movimento operaio (quella inaugurata dalla rivoluzione d'ottobre). Come sempre. alle tenebre del tramonto si univano le prime luci di un'alba (certo, di una nuova fase capitalistica;forse. ma è troppo presto per dirlo, anche di una nuova storia dei proletari e degli emarginati). Per questo il '68 ha cominciato a porre in discussione quelle certezze che oggi crollano tutte, a una a una, nella morsa delle trasformazioni epocali di questi anni. Tutte? No, se Guglielmi seguita a nutrire quella dell'«autonomia» della letteratura. Ma l'Italia, si sa. è solo una provincia dell'impero. I suoi letterati sono così intenti a zappettare il loro orticello che non si accorgono nemmeno del terremoto che lo sta sconvolgendo. E dopo aver tentato, nel '68. all'ultimo momento, di saltare sul tram della «rivoluzione> (come dimenticare Quindici?), oggi ci sputano sopra. Invece di guardarsi attorno, seguitano a leccarsi le ferite del '68. Così continuano a sognare una letteratura che sia «forza trainante del rinnovamento strutturale della nostra cultura» (Guglielmi) e non si rendono conto che questa «forza trainante» esiste di già: è l'elettronica, la cibernetica, l'informatica di Monsieur Le Capitai. Il dibaui10prosegue a pag. 15

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