Alfabeta - anno II - n. 14 - giugno 1980

' ['ij ~ ~ che le dispone in ·maniera persuasiva. Ora l'i11termediarioretorico sparisce. Che cosa accadrà? Non ne so niente... ma rischia di essere affascinante! Immagi110che si arrivi a un rapporto immediato con le informazioni senza una figura discorsiva per distribuirle. Queste informazioni no11sara11nopersuasive per se stesse e, i11u11cerco modo, toccherà ali'alun110farsi la sua retorica, cioè disporle per farne u11'argomentazio11e. O forse discuteremo diversameme ...» Questo significa che la scuola, il sapere universitario non potranno più essere produttori o riproduttori di consenso? «Si porrà certamente il problema. Se è vero che la retorica era persuasiva, creava consenso, un modo di pensare. Un tipo che sa fare una dissertazione alla francese crea un consenso, quello dei 'normalisti': è noto. E questo crea dei dirigenti che sanno a loro voltapersuadere. Il peggio che si può immaginare è che l'apprendimento delle retoriche persuasive diventi privilegio delle classi dominanti. Del resto questo forse già avviene. Ma al tempo stesso l'attitudine dei destinatari a lasciarsi convincere va forse scomparendo» Forse tutto questo impedisce alla scuola la sua funzione di riproduzione sociale? «Senza dubbio. Già un circuito televisivo che separa il professore dall'allievo cambia tutto rispetto al consenso, perché l'allic·,·odiviene un destinatario di secondo ,,mgo, che si guarda ascoltare, che di,pone del messaggio che riceve. Con 1111 terminale si potrà lavorare da soli. Ma il problema sarà allora: in quale lingua verrà restituita l'informazione acquisita? Opiuttosìo, in quale linguaggio, cioè con quale tipo di discorso. Si potrebbe arrivare alla polverizzazione dei tipi di discorso, al deperimento delle connotazioni di c,ò che permelte di sollo-intendere. Ma tutto ciò è quasi fantascientifico» Ma se l'operatore del terminale ha un po' di immaginazione, se improvvisa alla tastiera, potrà fare opera di creazione teorica o altro ... « Potrà combinare dei risultati formidabili, la sua immaginazione potrà moltiplicarsi. Ma soltanto a condizione che l'accesso alla memoria non gli sia limitato!» Già, ma se la ricerca, in quanto tale non è produttrice di sapere bensl di non sapere, se l'invenzione di nuove combinazioni e di nuovi giochi produce l'oscurità e non la luce, la società, lo stato, potranno produrre, mantenere o solo tollerare scienziati che modifichino continuamente le regole del gioco e che non siano controllabili in termini di rendibilità o di consenso? «Questo già accade. In Francia non se ne ha l'abitudine, perché noi 11011 siamo ancora contaminati. Ma nei paesi che vedo110un po' più in là della punta del loro naso in materia di investimenti di capitale, le imprese e lo stato hanno creato fondazioni e altre istituzio11iper mantenere a fondo perduto scienziati che si occupano della ricerca fondamentale. Essi sanno benissimo che un giorno o l'altro potrà esserci feed-back. A volte si sbagliano, e allora si chiude bottega. Io non vedo perché questo non dovrebbe diffondersi. La 'paralogia' degli scienziati rappresenta sempre la possibilità, per quelli che li pagano, di nuove e forse fantastiche combinazioni. Fino a quando il capitale è auivo e non si addormenta sotto la protezione di un qualche welfare state, ci saranno sempre investimenti per la 'paralogia'. Cioè, in fin dei conti, per l'apertura di nuovi mercati. Le stesse equazioni di Einstein furono delle aperture di mercato. «Oggi si ha l'impressione che questa diffusione sia difficile, perché la crisi è dura: è in gioco la riorganizzazione di tutto il mercato mondiale, il capitale serra i ranghi e taglia i crediti alla rice,-,. cafondamentale; ma bisogneràpur che tutto riparta. Si ricordi la tesi di Rosa Luxemburg: per accumulare il capitale ha sempre bisogno di un 'esterno'. Semplicemente questo 'esterno' non è solo, non è più spaziale, cioè non si tratta ora di paesi non ancora sotto la dominazione 'materiale' del capitale. C'è un 'esterno' all'interno. Le paralogie degli scienziati, degli artisti o degli stessi filosofi potranno apparire come possibilità di nuovi mercati, e quindi permettere di risolvere il problema della riproduzione allargata del capitale. Problema che si impone oggi, e che l'informatica arriva al momento giusto per rilanciare. Hanno bisogno di oscurità,perché essa è la trasparenza capitalistica di domani». Il suo discorso è allo stesso tempo rassicurante e angosciante. Rassicurante perché non sembra che ci siano mostri all'orizzonte dell'informatica, ma angosciante, per alcuni in ogni caso, perché offre al capitale la possibilità di perpetuarsi, di rafforzarsi, senza che si possa intravedere la fine del suo dominio. «Si trattadi una descrizione congiunturale, di u11asemplice ipotesi di lavoro, ma non credo che sia rassicurante per nessuno. Guardi quel che avviene dopo l'esplosione del/' Ortf La posizione dei sindacati sul problema è incredibilmente difensiva: difesa del monopolio e delle posizioni acquisite. Cosa che peraltro io comprendo benissimo. Qualunque sia la soluzione che lo stato e le imprese daran110in Franciaal problema dei satelliti e all'utilizzazione delle memorie, si creeranno confusioni straordinarie nelle professioni. Io non credo che tutto ciò sia particolarmente rassicurante. Per parlare di qualcosa che conosco dall'interno, cioè il problema del personale precario de/l'università, io ne sostengo a fondo le lotte perché la loro situazione è veramente abominevole. Lavorano da dieci anni, pagati a fattura, e non hanno alcuna garanzia di impiego, per quanto le loro competenze siano uguali alle nostre. È non si realizzerà. È questo ciò che noi apprendiamo in questa fine di secolo, perché sappiamo che quando ha voluto realizzarsi è stata una catastrofe. I lavoratori stessi, che sono i soggetti di questa storia, pensano che non si realizzerà, se si giudica dalla loro condo/la. E questo non ha niente a che vedere con l'esistenza di un partito rappresentativo dei lavoratori in u11asocietàsviluppata. L'esiste11zadi un tale partito non ha alcun rapporto con la teoriamarxista». Lei dice inAu /uste: «la politica non è un fatto scientifico», e: «la politica razionale, nel senso del concetto, è finita, e io credo che ciò sia il tornante di questa fine di secolo». Tuttavia mai il potere ha tanto richiesto il sapere (lei lo sa perché ha scritto il rapporto per il Consiglio delle università su commissione del governo del Québec, che è dunque il vero destinatario della Condizione postmoderna). Allo stesso tempo che assicura la messa in memoria delle conoscenze, il potere intende razionalizzare le sue decisioni, e si rivolge per ciò agli scienziati. In particolar modo l'informatica è fatta oggetto di questo tipo di richiesta. Ma se la filosofia «pagana» rifiuta di fare un discorso di tipo scientifico sulla politica, non lascia forse al potere la libertà indiscussa di utilizzare come vuole tutti i saperi disseminati e frammentati kantiano del termine, a un lavoro che è quasi quello dell'immaginazione, anche se Kant non colloca le Idee nell'immaginazione. L'immaginazione nel senso di un sapere che non ha il suo sensibilesussunto, perché come direbbe Kant no11 ci sono le intuizioni corrispondenti. Ma il conceuo può giocare come tale, bisogna farlo giocare. In questo senso noi siamo più vicini alla dialetticadellaprima Critica, o a quella della Critica del giudizio, che alla dialeuica hegeliana. «Io non ho voluto dire altro. Lei usa la parola scienza connotandola in senso positivo. È u11bel pezzo che il potere ha bisogno del sapere. Già Marx notava nei Grunc!risse che il sapere è la fona lavoro per eccellenza, anche se non interviene direttamente nel circuito del capitale. E ancora oggi esso è direttamente forza lavoro per il capitale. C'è un ministro che chiama questa cosa 'l'oro grigio' ...» Già. Ma noialtri intellettuali produttori di sapere non veniamo a essere unicamente i piccoli risparmiatori della grande banca dove si va a depositarlo, se lasciamo agli altri il potere di decidere del suo investimento, della sua circolazione, del suo uso? «Sì, c'è il rischio di avere due circuiti del sapere, come ci sono due circuiti monetari. È la stessa moneta, ma ce n'è Testa di degeme morto al Manicomio di Mombello, mummificata fra il 1906 e il 1917 da Giuseppe Paravicini, direi/ore de~'Istituto di Anatomia Patologica del manicomio. evidente tuttavia che data la trasformazione delle co11dizionidi trasmissioni del sapere nell'insegnamento superiore, non possono rimanere così. Non dico quindi che tutto va bene. Ci saranno equilibri e riequilibri, seco11do ipunti di vista, specialmente 11ellenumerose professioni del sapere e della sua trasmissione. Osservi anche le conseguenze della ristrutturazione per i lavoratori del terziario... Tutto questo non farà una rivoluzione, in ogni caso non nel senso marxista del termine, ma sopprimerà posti di lavoro, la cui perdita non sarà compensata dalla crescita economica indotta dall'informatica. Detto diversamente, non si potrà ignorare a lungo la questione del tempo di lavoro, 11équella della qualificazione della forza lavoro. Bisognerà necessariamenteprendere una decisione a livello internazionale, perché il peso della popolazione senza impiego diventerà insopportabile. «Quanto alla rivoluzione, nel senso marxista, essa mi sembra esclusa, ma non a causa del/'i11formatica.Mi sembra perfettamente chiaro che il grande discorso uscito dall'idealismo tedesco e dalla rivoluzio11efrancese, il discorso della realizzazione del sapere e del/'emancipazione de/l'umanità, ripreso da Marx e fuso con la teoria economica, che esso sollecita? « Il veroproblema è lafine del/'eredità hegeliana. Unapolitica razionale era una politica fondata sulla ragione in senso hegeliano, cioè nel senso del conce/lo, cioè del sapere speculativo. Ciò significa che una determinata situazio11eu, na Gestaltung, come diceva Hegel, portava in se stessa le condizioni di sopprimersi e di perpetuarsi in un'altra forma. Si poteva costruirci sopra tutla una politica, ed è quello che ha voluto fare Marx. Per lui la Comune è una specie di embrione, nel senso hegeliano di ghianda che contie11ela quercia, un modello per la società socialista e al momento stesso la sconfitta della Francia di fronte alla Germania. Un'ouima cosa perché il capitale tedesco e il suo pensiero sono molto più forti, e nello spirito di una politica razionale (in questo senso) è meglio avere a che fare con il Capitalepiù forte, perché è là che il proletariato èpiù forte. Tuua lapolitica marxista è una politica razionale nel senso del conceuo, per essa una determinata formazione ne produrrà una tal'altraper necessità dialeuica. La fine della politica come scienza significa la fi11edella fede i11u11adiacronia necessaria delle forme storiche. Di qui il ritorno, almeno per quel che mi riguarda, alla riflessio11esulle idee, nel senso una che serve ad investire, e dunque ad agire, e l'altra che 1101è1che una moneta di pagamento. D-M-D e M-D-M. Se lei sostituisce al denaro il sapere, allora è vero che ci sarà un sapere che si trasformerà in merce per produrre altro sapere, e un altro che sarà immobilizzato tra due merci. « È proprio la collocazione del sapere che è in gioco. Io non so come andranno le cose, ma non voglio che mi si dica che nella mia descrizione io abbandono la razionalità. La razionalità nel senso del capitale e dei gruppi dirigenti è la rendibilità, e gliela lascio. Ma 110nè questa la vera razionalità. La rendibilità non è che un criterio tecnico, non è quindi un criterio universale, è follia pensare che possa essere un criterio del sapere. Niente prova che la ragione esiga che si spenda meno per ottenere più, è assurdo. Io non voglio gestire la mia vita in funzìone del profiuo. «Assenza di politica razionale vuol dunque dire: fine della politica hegeliana, e in più: critica della ragione dei gruppi dirigenti. Ora, sino a questo momento, ci si è battuti contro la seco11dautilizzando la prima rivista da Marx, cioè con il grande discorso. Noi non possediamo più il grande discorso: con che cosa possiamo batterci contro la rendibilità? Non abbiamo che una chance, quella di sostituire la ragione tecnica con l'idea che il linguaggio, che è laposta in gioco, sia ilprodotto di una molteplicità di giochi. La vera ragione è lasciare giocare i giochi sino a quando sia possibile, lasciare che si inventino nuove combinazioni nei giochi, nuovi giochi. È questo che io chiamo ragione, no,r razionale ma ragionevole. E que: sto che io intendo per paganesimo. Ciò implica che bisogna essere prudentissimi, perché la prudenza è la vera complice dell'avventura. «Credo che tutto questo corrisponda allo stato del linguaggio, ma specialmente a ciò che si vuole nel linguaggio, senza che né lei né io lo vogliamo necessariamente, ma che si vuole attraverso di noi. Quello che si vuole nel linguaggio è la sua proliferazione, la sua moltiplicazione, la sua inventività». «Lasciar fare, lasciar giocare> è forse la strategia filosofica del salariato della grande banca del sapere? «Sì, credo che sia la migliore strategia. Quando le prostitute fanno un sindacato, i soldati un comitato, gli omosessuali un film, che cosa fanno? Una mossa nel lingµaggio. Aprono nuovi giochi. Restano dei salariati nella circolazione del capitale, ma spostano in avanti la condizione del salariato. I soldati che discutono in una caserma cambiano l'istituzione, dato che il principio stesso di essa è che un ordine non si discute mai. Gli effetti del '68 furono questi: in tutti i settori nuove mosse, moltiplicazione dei giochi di linguaggio, istituzione di nuovi campi per questi giochi. «Quanto a me, filosofo nelle condizioni della circolazione del sapere nella societàpostmoderna, cheposso dire? A Vincennes noi abbiamo fatto qualche cosa dello stesso genere di quello che hanno fallo le prostitute o i soldati, abbiamo rifiutato di istituire un corso, e abbiamo rifiutato la ponione di potere dei professori cioè il controllo delle conoscenze. Due cose queste sulle quali non abbiamo mai ceduto, e che ci hanno fauo degradare, come si dice nel/'esercito: i nostri diplomi non hanno valore riconosciuto. Noi non abbiamo più niente da offrire agli studenti, che tuttavia sono sempre più numerosi. «Abbiamo dunque effettivamente spostato in avanti le condizioni del sapere nell'istituzione universitaria, sulla nostra piccola scala ovviamente. Abbiamo inventato un nuovo gioco di linguaggio nella trasmissione delle conoscenze: che essanon si fa più inmaniera accademica. Abbiamo icoperto che noi potevamo esserne i destinatari, e che c'erano dei destinatari per questo gioco. I messaggi stessi ne escono così trasformati. Non facciamo più filosofia accademica. Quello che è idiota è credere che, di conseguenza, non parliamo più di Kant, di Hegel ecc. Infatti ne parliamo altrettanto, se non più degli altri... Io credo che questa sia una strategia. D'accordo, è minuscola, ma va benissimo, bisogna che sia minuscola. È locale. Bisogna moltiplicare le strategie locali>. Ma allora lei si rimette alla «mano invisibile> per regolare l'insieme del linguaggio e del sapere? « Una società è forse capace di vivere come la società {jegli artisti o degli scienziati? Preoccupandosi meno del consenso che del dissenso? Essendo più sensibile alla novità dei giochi che alla loro comunicabilità? Con la telematica, la questione del rapporto sociale diviene un po' arcaica. Sul fatto che essa comunichi quasi tutti sono d'accordo. La grande paura che il rapporto si rompa è in via di sparizione. Essa era stata provocata dal fatto che l'apparizione del capitaleaveva fallo esplodere le società tradizionali. Allora ci si era ritirati nei grandi discorsi che annunciavano la ricostituzione del rapporto sociale, dopo la fine delle avventure del capitale. Non so se sogno, ma ho l'impressione che questa angoscia della decadenza del tessuto sociale non esista più. Guardi con quale flemma le società avanzate affrontano il problema del- /' energia, tullavia così angosciante. Sì, sarà probabilmente un po' dura, la transizione energetica, dieci anni difficili, forse, ma che non metteranno in gioco il rapporto sociale. Essendo meno forte la preoccupazione del consenso, ci si potrà forse preoccupare delle differenze, perché è questa la cosa interessante, una volta che la sopravvivenza sia assicurata. La domanda che si pone a questo punto è: che cosa facciamo? Ebbene, giochiamo». (Da Dialectiques, n° 29, 1980)

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