Alfabeta - anno II - n. 12 - aprile 1980

zione spettacolare totale e della ripetizione ossessiva dei codici, allargati ed esibiti nella loro struttura dall'introduzione di piccole, ma calibrate varianti dimostrative. Paper Moon, E finalmente arrivò l'amore sono dei perfetti meccanismi di ripr{lduzione del già detto, delle summae compatte, senza sbavature, di situazioni, di procedimenti, di azioni codificati dal cinema classico hollywoodiano. La ripetizione differente delle strutture canoniche resta per Bogdanovich l'unica forma di possibile simbolizzazione. Vecchia America riduce tutto il mondo a cinema, tutta la storia a storia del cinema e fa della ricostruzione degli albori del cinema il tracciato di una mitica ricostruzione dell'America del primo Novecento. E l'ultimo film di Bogdanovich, Saint Jack, anche se non è un collage di citazioni, presenta sotto il tessuto diegetico immediato, una trama segreta, fatta di riferimenti, di allusioni, di répéchages. Saint Jack è certo in primo luogo un film nostalgico, costruito accuratamente con i temi e le avventure canoniche della letteratura e del cinema esotico. Ma è nello stesso tempo un film in cui la nostalgia non è diretta, ma mediata, non è rivolta ad azioni, a spazi esistenziali, a luoghi, ma al modo in cui questi spazi sono entrati nella letteratura e nel cinema, al particolare trattamento dell'esotismo nella simbolizzazione classica. E cosa c'è di più adatto per avviare un processo nostalgico e patetico (cioè emozionale) di un personaggio occidentale che si degrada in Oriente, mantenendo tuttavia una sua dignità particolare, con un passato un po' oscuro, ma non privo di qualificazioni positive e segnato evidentemente da un trauma, e di una storia di bordelli e di prostitute, di gangsterismo (con qualche risvolto politico), situata in un ambiente che sembra annullare la distanza tra il bene e il male e confondere nell'indistinzione pura tutti gli eventi e le sensazioni? E cosi Singapore non è uno spazio di avventure né di nostalgia, ma piuttosto un luogo della letteratura e del cinema, un riferimento simbolico diffuso (alle città misteriose dei romanzi di Conrad, alla Macao di Sternberg, alla Casablanca di Curtiz, ecc.); e Jack Aowers, il protagonista, sembra possedere nella diegesi un'identità, ma è più segretamente il risultato di aggregazioni simboliche differenziate, articolate anch'esse, soprattutto, sulla figura di Bogart e sui personaggi conradiani (magari mediati dalle riscritture cinematografiche). Ma aldilà di questo gioco strutturale di riferimenti, il centro segreto del film è forse in una diversa allusione alla centralità del mondo dei segni nella civiltà contemporanea: l'incisione sul corpo di Jack di tatuaggi osceni ed offensivi da parte di un nano cinese costituisce infatti una singolare incredibile rappresentazione simbolica della degradazione e della sconfitta esistenziale del protagonista. In questa trasformazione dello scacco in segno e nella complementare integrazione del segno al corpo, alla carne, si manifesta una sorta di materializzazione perversa ed insensata del dominio dei segni e della loro immagine, che adeguatamente simboleggia la totale adesione di Bogdanovich al mondo del codice. Tutto è segno nel mondo contemporaneo (e nel mondo di Bogdanovich). E lo spettacolo è l'accumulazione primaria dei segni, il loro luogo reale. Lo spettacolo è il segno puro. B en più apertamente di Saint Jack, Il boxeur e la ballerina, ultimo film di Stanley Donen, è insieme un omaggio, una ricostruzione e una decostruzione del cinema hollywoodiano classico e dei suoi semplicissimi e perfezionati meccanismi di fascinazione. // boxeur e la ballerina non è soltanto una cavalcata nostalgica nella mitologia della vecchia Hollywood, ma un film sul cinema, sui riti, le attese e le attrazioni della sua stagione più favolosa. Movie Movie dice il titolo originale, cioè Film Film. due film, ma anche Cinema Cinema. due volte cinema, cinema sul cinema, cinema del cinema: un titolo che è da un lato una indicazione di double feature, cioè di doppio programma, secondo una moda degli Anni Trenta, e dall'altro è subito una dichiarazione di intenzioni, un'allusione al carattere metacinematografico dell'operazione. Certo il lavoro di Donen non è freddamente e lucidamente ricostruttivo e decostruttivo. [I pathos nostalgico affiora ovunque e l'ironia costante non incrina l'adesione del regista al mondo spettacolare ricreato. Ma nella ricostruzione delle strutture e dei riti del cinema classico emerge di prepotenza il meccanismo della fascinazione e la sua povera e·splendida verità, il fondo patetico-agonistico dell'attrazione filmica e la sua forza di cattura dello spettatore. Non si tratta di un'operazione parodica. ma di uno smontaggio semiologico condotto all'insegna dell'ironia, di una lettura strutturale realizzata come spettacolo: la fascinazione e la sua ambiguità indefinibile sono il centro del film. Donen non fa certo un prodotto alla Mel Brooks, mettendo in ridicolo esplicitamente (e in modo grezzo) i personaggi e le situazioni della tradizione hollywoodiana, ma esalta quel cinema, ne ripercorre i nodi narrativi più importanti, li dilata e li perfeziona sino a farli apparire come articolazioni pure del codice. codice spettacolare riportato alla sua essenzialità. In questo senso Donen non costruisce i due film solo sui riferimenti ai classici del genere, ma opera una sorta di estrapolazione e di riorganizzazione linguistica degli elementi fondamentali dei generi frequentati, realizzando in fondo un film-modello dell'entertainement. Inoltre Donen non lavora in modo separato all'interno di ogni genere: la realizzazione parallela di due film gli consente non solo di utilizzare spesso nelle due «storie» gli stessi luoghi e le stesse strutture scenografiche, ma anche di creare situazioni narrative analoghe, mostrando come le leggi della diegesi filmica non siano strettamente legate ai singoli generi, ma riguardino piuttosto il problema dell'affabulazione cinematografica. Lassù qualcuno mi ama, Il campione, Stasera ho vinto anch'io, che trascorrono in filigrana nel primo episodio, Dynamite hands. sono ridotti al pattern. di base e riscritti in questa chiave (con in più l'aggiunta finale della riproduzione, questa volta si parodica. del film-processo). E il secondo episodio Baxter Beawies of 1933 è una cavalcata nel favoloso mondo del musical, che ne rappresenta anche la consacrazione del suo modulo spettacolare più significativo. E allora contano certo i riferimenti e gli omaggi: alla tradizione Warner e a quella MGM, ma soprattutto a Busby Berkeley (grazie alle coreografie di Michael Kidd), ai suoi film ed alle sue invenzioni coreografiche (a Gold Dig· gers of 1933 di Le Roy - .cui allude evidentemente il titolo - o al remake del 1935 dello stesso Berkeley, a Foo1ligh1parade, a Dames, ma soprattutto a 42end S1reet di Bacon - che presenta in Warner Baxter «il più grande regista di commedie musicali del mondo», suggerisce la famosa battuta, ripresa da Donen («Stai debuttando da principiante, ma tornerai in camerino da stella»), e offre la soluzione narrativa della frattura della gamba della prima auriche che consente il lancio improvviso di una giovane ballerina. Ma conta ancora di più la decantazione del genere musical e la sua riconduzione a una struttura essenziale e soprattutto l'esaltazione del mondo del musical come favola totale in cui lo spettacolo e la vita trovano un significato ed un'autentificazione in qualche modo trascendente. Prima che la mdp si elevi in alto nell'ultima inquadratura del film (con un procedimento tipico di Busby Berkeley), a due personaggi è affidato il compito di sintetizzare il senso del film (e, in fondo, il genere stesso). «Sembra quasi un film», dice uno. e l'altro risponde «La vita è quasi un sogno». Lo spettacolo è il sogno. M a l'esibizione dello spettacolo come forma dell'intersoggettività non è soltanto la sua esaltazione; può anche diventare un vettore per lo scardinamento del tessuto opaco dei fenomeni, un movimento che va diritto al centro delle cose. È in fondo il modello di Arancia meccanica. che attraversa la barbarie contemporanea con l'intensità continua e aggressiva dell'iperspettacolazione, costituendo con una poetica dell'eccesso l'unico modello funzionante di iperimmagine nel cinema degli Anni Settanta (in attesa di vedere Heallh di Altman). È, diversamente, ma nella stessa direzione. la grande spettacolarizzazione del Vietnam diApocalypse Now, in cui Coppola non solo trasforma la tragedia e la barbarie in spettacolo, ma ' ci fa vedere che in fondo, oggi, nella civiltà dell'immagine, non c'è più distinzione tra le une e l'altro. Perché l'elemento centrale e subito evidente di Apocalypse Now è che non c'è più nulla fuori dello spettacolo e che la tragedia del Vietnam non solo è stata sempre vissuta attraverso il filtro dei media. ma non può essere conosciuta se non mediante la struttura dello spettacolo. In Apocalypse Now la follia, l'insensatezza, la crudeltà della guerra ci arrivano come spettacolo, come follia, insensatezza, crudeltà spettacolarizzate. E questo processo è il segno (uno dei segni) dell'artificialità pura del mondo contemporaneo, della fine della natura, dell'avvento della mediazione totale: non significano tanto che tutto è simulazione, quanto che tutto è artificio. messa in scena e che l'artificio fa parte della barbarie contemporanea. La spettacolarità, d'altra parte, attraversa tutto il film, ne costituisce la falsariga permanente, la trama non segreta. ma ritmica ed esplosiva. Non solo nel corso di un'operazione di guerra compare improvvisamente una troupe cinematografica che riprende l'azione, esibendo ovviamente il carattere di finzione ·del film. ma elementi di ritualizzazione spettacolare sono presenti continuamente: non è tanto lo show dellegirls portate dagli elicotteri in mezzo alla giungla per divertire i soldati, quanto ad es. la trasformazione della battaglia per l'ultima postazione americana. in uno spettacolo • pirotecnico. in una successione di fuochi d'artificio sempre più allucinanti, o la struttura di gigantesco rituale, di cerimonialità spettacolare pura della vita nel «regno» di Kurtz, dove la follia e l'anima primitiva si fondono in una grande rappresentazione collettiva; o la splendida sequenza dell'attacco al villaggio vietcong condotto non solo per garantire ilcontrollo del fiume, ma anche per poter finalmente fare il surf (splendido esempio di _sintesitra violenza e superfluo, morte e godimento, che simbolizza con un'esemplarità allucinata la contemporaneità come contraddizione permanente ed assur• da); o nella inquadratura iniziale in cui il fondale di palme, dapprima animato dal vento e poi distrutto dal fuoco, non assume solo valenze metaforiche, ma è in qualche modo il segno, posto sul limitare del film, della messa in scena totale, l'aprirsi evidente dell'ordine della rappresentazione; o, infine, nella frequentazione del kilsch (il finale di cartapesta, tutta l'interpretazione di Marlon Brando, la «Cavalcata delle Walkirie» nell'attacco deg.lielicotteri, ecc.) come dimensione reale della tragedia, forma spettacolarizzata non solo possibile, ma in qualche modo necessaria, della contemporaneità. E. d'altra parte, l'ossatura centrale stessa del film, liberamente ispir.ata, com'è noto, a Cuore di 1enebra, rimanda insieme a strutture essenziali della tradizione simbolica occidentale, a cominciare dalla ricerca del Graal - ricordata !allo stesso Coppola in una intervista - per finire al Bateau ivre e allaSaison en enfer; segni di un'operazione complessa che mentre cerca di elaborare il linguaggio spettacolare degli Anni Ottanta, non solo raccoglie riferimenti continui al simbolico occidentale (si vedano le citazioni di Eliot, dal Love Song of J. Alfred Prufrock a The Hollow Men), ma tende a farli funzionare come testimonianze dell'ordine della rappresentazione. li film di Coppola - come il libro di Conrad, peraltro - non è un film sulla giungla, sul Terzo Mondo, ma un film sulla metropoli, sull'America, è una messa in scena e una analisi di quella rappresentazione tragica allestita dagli Stati Uniti che è stata la guerra del Vietnam. Come messa in scena di una messa in scena, spettacolarizzazione di uno scenario del potere e dello sterminio, Apocalypse Now è quindi un film su un doppio, una immagine di uno scenario di immagini, un discorso sullo spettacolo che punta diritto alle formazioni spettacolari e tragiche della contemporaneità. ·Non a caso il film si conclude con la parola «orrore» ripetuta due volte. La contemporaneità è lo cenario dell'orrore. Lo spettacolo è l'orrore. ErikSatie, l'usignolcoqt,piadlidenti Erik Satie Ecrits (réunis par O. Volta) Paris. Champ libre, 1977 pp. 367. fr. 68 Roman Vlad «Dadà e la musica di Satie» in Silvia Danesi, D Dadaismo Milano. Fratelli Fabbri, 1977 pp. 126. lire 3000 Gioacchino Lanza Tornasi «Erik Satie e la musica del surrealismo» in AA. VV. Studi sul surrealismo Roma. Officina, 1977 pp. 530. lire 12.000 Satie-Parade Programma radiofonico a cura di O. Volta. Testi e musiche di Erik Satie. Interventi di Mario Bortolotto, Maurizio Calvesi, Paolo Castaldi, Gilio Dorfles, Gioacchino Lanza Tornasi, Giovanni Lista, Aldo Mondino, Gino egri. Marcello Panni, Paolo Poli, Luigi Rognoni, Nino Rota, Roman Vlad. Trasmesso da Radio Tre, RAI marzo-maggio 1979 Torino, ERI, di prossima pubblicazione Adriana Guarnieri Corazzo) Erik Satie. Tra ricerca e provocazione Prefazione di Luigi Rognoni Venezia, Marsilio. 1979 pp. 245. lire 12.000 Erik Satie Quaderni di un mammifero a cura di O. Volta Milano. Adelphi, di prossima pubblicazione S atie diceva: «Se la musica non piace ai sordi, anche se sono muti. non è una ragione per sottovalutarla». Confortato dall'uso scolastico di non insegnargli le sette note insieme alle lettere dell'alfabeto, l'acculturato medio - se interrogato con precisione - ammette senza difficoltà di non CO· noscere né capire la musica. I surrealisti dichiaravano addirittura di detestarla. Quando la premiata ditta Aragon, Breton & Co. perturba la prima di Mercure al grido di «Viva Picasso! Abba o Satie!». la posta in gioco non è certo un giudizio di merito sulla partitura di questo balletto, ma una determinata politica culturale. D'altra Tato, Ritratto meccanico di Remo Chi ti ( 1930) parte, se tutte le manifestazioni dadà includono puntualmente Tre pezzi in forma di pera, è solo a causa del titolo provocatorio. Osservando un periodo, anche recente. della storia della cultura, non come ci è stato presentato dai sedicenti protagonisti (ossia da coloro che, per primi. si sono preoccupati di un'automitizzazione), ma dal punto di vista di un personaggio cosiddetto marginale, è raro che i conti tornino. Come dice l'ineffabile pubblicità dell'ultimo suo disco uscito in Francia ( 1). Satie era marginale «ben prima che il marginalismo venisse di moda». LI non essersi lasciato portare dall'onda di alcun movimento particolare, all'epoca in cui nulla si faceva se non all'insegna di un ismo. gli ha valso un lungo purgatorio. senza peraltro evitargli, in questi ultimi anni, le molteplici. e talvolta contraddittorie, annessioni postume. È raro che un libro, una trasmissione radiofonica o televisiva, un corso universitario o un convegno sull'arte e il pensiero del ventesimo secolo non finisca, prima o poi, per citarlo come esempio di musica simbolista, neo-gotica, cubista, futurista, dadà, surrealista, istantaneista, concettuale o fluxus, a seconda delle conoscenze specifiche, preferenze, o necessità contingenti del relatore. Potrà stupire che tante letture diverse vengano fatte a partire da un'opera quantitativamente senz'altro esigua, ma - come faceva notare Cocteau - «l'importanza di certe musiche è sotterranea, e poco importa il loro orifizio. La più piccola opera di Satie è piccola come il buco di una serratura: tutto cambia quando vi si accosti l'occhio, o l'orecchio». «L'estetica musicale d( Satie, ha scritto Virgil Thomson, è la sola estetica del ventesimo secolo nella musica occidentale». Sarà forse per questo che ogni generazione la riscopre, attribuendole un significato diverso a seconda delle preoccupazioni del momento. In piena cavalcata delle Valchirie, questo «musicista medievale e dolce smarritosi nel nostro secolo», colpisce i più attenti per il suo partito preso «decorativo, alla Puvis de Chavannes». Vent'anni dopo, si apprezza il «ricercatore di sonorità nuove, talora bizzarre», il demistificatore del

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