d'animale, Rilke è pronto a cogliere la frattura dolorosa fra ciò che è stato e ciò che più non è: «Qui tutto è distanza - e là era respiro. Dopo la prima patria - questa seconda gli è ibrida e ventosa. - O beatitudine della creatura piccola - che resta sempre nel grembo che la portò ...». L'ombra della memoria oscura, allo stesso modo ma ancor più da lontano, i riverberi azzurri dei crepuscoli di Trakl. Il paesaggio è quello dell'«esilio» e del «declino». Esso è popolato dalle figure dello «straniero» e del «dipartito», che sanno la loro vita nella lontananza (e infatti «appello nella lontananza» chiama Heidegger il poetare di Trakl), poiché «vana è la speranza della vita». Ma, pur nella contrazione del presente, il cuore non si spegne, e dà voce al lamento e alla lode: «Tra i magli resiste - il nostro cuore, come resiste - la lingua tra i denti - che resta tuttavia, tutto malgrado, per lodare» (Rilke). Se queste voci poetiche piangono lo spegnimento dell'esperienza, e somigliano a resoconti di un viaggio in un deserto dove «non c'è più vita alcuna» (l'espressione è adorniana), tuttavia non si perdono nei labirinti dell'insignificanza, ma resistono alla glaciazione che le minaccia. Al deperimento del senso sembrano rispondere con un movimento che le stringe in una nervatura essenziale, che si alimenta dell'obliquo e di ciò che non è più. Allo stesso modo- a lato del parlare poetico- «triste» è la «scienza» dell'aforisma adorniano. Scandita nell'«arnbiguità della malinconia», la sua strategia micrologica insegue, come in un'elaborazione luttuosa, i segni labili di ciò che è andato perduto nell'«orrore storico» del capitalismo organizzato. Ma «il pensiero - dice Adorno - attende che un giorno il ricordo di ciò che è stato perduto lo ridesti, e lo trasformi in teoria». I Minima Moralia sono l'ultimo epos di un'umanità che, esiliata nello spazio desertico dei valori di scambio, ha memoria di una patria perduta e ormai remota. Come leggere queste «meditazioni messe al cospetto della disperazione», eppure «nutrite dell'immagine della salvezza»? La dialettica adorniana accosta i segni dell'avvenuta catastrofe secondo il «punto di vista di «protagonista» della scena), cui più che l'attributo di nostalgico si addice quello di malinconico, se esso ci richiama alla mente l'abbandono assoluto della Melencolia I del Diirer. Seguendo la traccia delle descrizioni e riflessioni che vanno da Panofsky a Benjarnin, essa ci appare attraversata da una spaccatura profonda: da una parte, in terra, inutilizzati e inermi, gli strumenti della vita attiva, accompagnati dallo sguardo impotente del cane; dall'altra, lungo una linea mediana, lo sguardo della donna inutilmente alata, assorto in fissità pensosa, che si prolunga nel putto Saturno, simbolo contraddittorio di «conternLuigi Vagiti, Il piacere (I 931) plazione» e «inerzia», e, sul fondo, un paesaggio marino di inattingibile lontananza. In che modo questo sguardo nel vuoto ci si impone cosi nella mente da riportarci all'oggi? (Massimo Cacciari ha scritto di recente che «il grande simbolo di questo nostro periodo è la Melencolia», in riferimento alla «tonalità malinconica» della droga pesante, dell'eroina). Perché ci sembra che atteggiamento nostalgico e atteggiamento malinconico non siano più degli intercambiabili e complementari modi del cuore? Innanzitutto. La profonda scissione dello sguardo «malato» di Melencolia, che non vede ai suoi piedi gli strumenti del conoscere e del fare, è profondaArturo Bragaglia, Il violoncellista (pubblicata nel /930) della redenzione». «Si tratta di stabilire - dice Adorno a conclusione dei Minima Mora/ia - prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica». M a oggi, si dà ancora l'attesa di questo risveglio? C'è un luogo che possa chiamarsi custodia del ricordo? O va forse svanendo anche l'immagine di uno spazio del «ritorno»? Quello che Magris chiama «il filo di una nostalgia nella cultura moderna», e che dipana fino a immergere nell'oggi le fibre della sua «tristezza neghittosa», sembra quasi essersi inceppato in un nodo, al di qua del quale si assiste, forse, all'emergere di un nuovo volto storico. Un nuovo soggetto (soggetto non in senso alto, ma in senso minore, mente simbolica di un sapere che non ha più relazione dialettica col mondo che lo circonda, che non ha capacitàvolontà di intervenire su di esso in maniera attiva, che in esso procede alla cieca, trascinato da una sorta di automatismo autoriproducentesi. In questo senso Sergio Finzi sembra parlare di quello «pseudo-soggetto che è il sonnambulo», il quale« ... nell'oblio del sapere ci appare come il soggetto della transizione»·. Dietro lo sguardo di Melencolia si agitano inafferrabili fantasmi. Allo stesso modo, il sonnambulo «dorme, ma qual è il suo sogno?». Egli vive «nella condizione crepuscolare di uno 'stato ipnoide'». I «pensieri» che adombrano la fronte di Melencolia si approssimano allo spazio sterile del non-sapere, all'inconcludenza dell'«io addormentato». Anche per lei, come per il sonnambulo, il risveglio può essere mortale? Il corpo ripiegato di Melencolia si incurva sotto l'assenza greve di ascolto di ciò che le sta intorno. Anche il sonnambulo non ascolta: poiché «ciò che egli sopprime è la domanda: si aspetta che ciò che deve accadere gli accada: qualunque cosa sia, la ricchezza, l'amore, come la morte». Ma Melenco/ia aspetta senza attendere. Reciso ogni legarne tra il conoscere e il fare, divaricata ogni relazione tra io e mondo, nei soggetti emergenti della transizione, che si potrebbero chiamare i «nuovi soggetti malinconici», ogni «produttività dello spirito» sembra essersi risolta in llna malata improg4trività. L'attività immaginaria del pensiero, avvolta in se stessa, non si distende all'opera, resiste fortemente al creare. Una sorta di malattia della scissione accompagna lo stupore malinconico, taglia in due il soggetto. I sussulti della mente non lasciano traccia sulle maglie dell'agire. (Ancora Finzi sul sonnambulo: «Il suo linguaggio è piatto come l'elettroencefalogramma di un cerebroleso»). Alla febbre che ammala il pensiero, corrisponde una lenta pigrizia del cuore: e se anche il cuore è addormentato, come potrà il desiderio, di cui esso è l'organo (Barthes), rimettere in comunicazione il soggetto col mondo? Proprio da un «venir meno dell'interesse per il mondo esterno», osserva Freud, è caratterizzato il soggetto malinconico, che assomiglia, in questo. alla figura del lutto: «La melanconia è psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un venir meno dell'interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di amare, dall'inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie e culmina nell'attesa delirante di una punizione». In uno scritto di poco precedente a Lutto e melanconia, Supplemento metapsico/ogico alla teoria del sogno, Freud ci «racconta», quasi negli stessi termini, le caratteristiche psichiche dello stato di sonno, dicendo che esse sono contraddistinte «da un ritrarsi pressoché completo dal mondo circostante e da una cessazione di ogni interesse per ilmedesimo». Si può parlare, allora, di un incantato sopore che accompagna il malinconico nel suo immobile cammino («nella bella prodezza di camminare e dormire», direbbe Finzi)? D a questo stato di sopore, non può stupire che sortisca una parola «piatta», una parola muta. L'afasia che sostanzia il linguaggio di questa civiltà del disagio (e tutta l'industria culturale ne è uno splendido, «classico» esempio) distoglie la parola dalle tentazioni della «creazione», e la indirizza nei sentieri obbligati della ripetizione e della riproduzione. Se la domanda, oggi, non è più «perché i poeti nel tempo della povertà?», non è perché a questo tempo si possa dare altro nome, ma perché esso sembra non più abitato dalla parola poetica. Ritorniamo, allora, a domandarci: perché, oggi, la forma malinconica ci appare non più sorella di quella nostalgica, e perché Malinconia non dà più luogo al canto che si incontrava nello spazio di Nostalgia? Rischiando l'approssimazione della sintesi, possiamo ricordare come il canto uscito dalla voce di Nostalgia era sorretto dalla tensione irrisolta ad un «ritorno» non più ipotizzabile ma tuttavia sostenuto dal ricordo. Se Rilke poteva affermare che «grembo è tutto», è perché, pur non potendo, di questo grembo, assaporare il tepore con le membra, della sua passata presenza su questa terra conservava, in qualche modo, memoria. Questa _memoria è oggi come cancellata, in questo nostro tempo - senza tempo - senza passato né futuro (non a caso senza storia)- che si attarda in un presente immateriale e immoto. Non più dimora, dunque, non più patria (disegnata nella «natura» o riprodotta nel «sociale»), non più corpo materno (non più corpo, forse), ma neppure la loro sostituzioneo le loro immagini, neppure la loro memoria. «Se almeno si avessero i propri ricordi ...». Così si esprimeva il rimpianto di Rilke, sapendo quanto del poetare fosse elemento prezioso l'attività di «rirnemorare», di immergersi nel tratto di lontananza che «avvicina» il soggetto alle cose. sintesi collanadirettada AdrianoPennaccini letteraturae semiologiain Italia a cura di GianPaoloCaprettinie DarioCorno TerraciniAvalleCortiSegre OrlandoEco Rossi PagniniCaprettiniSerpieri pp. 451 L. 9.400 la sfidalinguistica lingueclassichee modelligrammaticali a cura di GermanoProverbio CracasMatthewsHurstTouratierLavency DresslerHappSteinthalKellyHarrisMurru pp. 337 L. 13.500 ~ Rosenberg &.Sellie,.r...,... AlbertoArbasino senzamemoria senza storia senzapassato senza esperienza senzagrandezza senza dignità senza realtà senzamotivazioni senzaprogrammi senzaprogetti senza testa senzagambe senza conoscenze senza senso senza sapere senza sapersivedere senzaguardarsi senza capirsi senza avvenire? UN PAESE SENZA seconda edizione GARZANTI
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