Alfabeta - anno II - n. 12 - aprile 1980

Oaudio Magris Lontano da dove Torino, Einaudi, 19792 pp. 323, lire 6.000 Oaudio Magris «La vita assente•, in Corriere della Sera, 17 ottobre 1979 Rainer Maria Rilke Elegie dllinesi Torino, Einaudi, 1978 pp. 103, lire 3.000 Georg Trakl Poesie Torino, Einaudi, 1979 pp. 198, lire 4.500 Sergio Finzi «Sonnambulismo», in Crisi del sapere e nuova razionalità Bari, De Donato, 1978 pp. 252, lire 4.500 Sigrnund Freud «Lutto e melanconia», in Opere, volume 8 Torino, Boringhieri, 1976 pp. 695, lire 18.000 Theodor Adorno Miaima Moralia Torino, Einaudi, 19792 pp. 321, lire 7000 Lontano da dove, di Oaudio Magris, è un memoriale sull'esilio nella tradizione ebraico-orientale. inseguendone le orme letterarie, da Roth a Singer, esso trascrive metaforicamente il modo d'essere di una condizione generale, «che vede l'individuo esiliato dalla pienezza e dalla totalità della vita vera». Le sue trame si accostano ca quella crisi dell'epica e a quel tramonto dell'autenticità che investono la cultura occidentale e che la civiltà ebraico-orientale ha vissuto con tale evidenza ed intensità da offrirne una parabola esemplare». Più recentemente, spostando il fuoco dell'analisi dalle metafore ebraiche della lontananza e del ritorno a quelle del Novecento europeo, Oaudio Magris ha affermato: «La poesia moderna è spesso nostalgia della vita». Intorno al luogo della nostalgia, il ovecento sembra aggrumare la propria parola: il sapere si fa sapere di una perdita, il conoscere conosce soltanto a partire da una mancanza. «La letteratura del ovecento è spesso segnata Melencolia dalla consapevolezza di questo iato che si è aperto fra l'io e la vita, per cui quella non è più la sua vita, ma un territorio nel quale egli riesce a penetrare e ad insediarsi, un'estraneità che non gli appartiene e alla quale egli non sente di appartenere, una continua fuga di qualcosa che egli non ha mai posseduto, e che quindi non è suo, ma di cui egli ha nostalgia, come se l'avesse perduto». Da un lato, ciò che si lamenta è il dileguarsi di un 'esistenza che sia e pienezza di senso e di felicità», dall'altro si assiste inermi allo scorrere della vita davanti e fuori di noi, impediti ad entrare da un imprescindibile divieto. Se dunque, per un verso, il vivere non si presenta più nello spazio dell'esperienza, per l'altro una condanna all'impotenza proibisce di penetrare il corpo seducente della vita. Ma la vita impossibile, la evita assente», nascono, mostruose creature del nostro tempo, là dove unità e senso e centro si sono dissolti nel frammentario. Là dove non c'è più, ad accogliere la creatura nascente, un luogo e un tempo dell'origine. La nostalgia che nasce da questa frattura, da questa lontananza abissale venuta a separare il mondq_dell'essere da quello del divenire, si presenta innanzitutto come nostalgia delle origini. «Ogni immagine è di questo mondo - scrive Lukacs nel 1910 - e il suo sguardo brilla per la gioia di esistere; ma essa allude e ricorda a noi qualcosa che esisteva chissà quando, qualcosa che esisteva chissà dove, ricorda la sua patria d'origine, quell'unica cosa che è importante e pregna di significato nel fondo dell'anima». Nostalgia della patria, dunque, del terreno fecondo della nascita, in cui non si erano ancora spezzate le «relazioni fondamentali tra l'uomo, il destino e il mondo», e il soggetto non era ancora caduto fuori da se stesso, fuori dalla verità, nell'errore. Questa patria è ormai perduta per sempre, impensabile ogni rientro nel suo grembo. Essa è sempre più un altrove, la cui ricercadestinata allo scacco, ma non per questo meno appassionata - scandisce i tempi di costituzione del moderno. Se, in particolare, la parola del Novecento ruota intorno al sapere di questa «dissonanza», andare a verificare l'origine simbolica (e etimologica) del sentire nostalgico potrà aprirci a qualche illuminazione, Il mito di Nostalgia sembra sposarsi. Gabriella Caramore all'origine del nostro Occidente, con quello di Ulisse. L'uomo del nostos, l'uomo del ritorno, sembra per primo avvertire questo intollerabile dolore. Dolore, però, che è ancora possibile lenire, che è ancora possibile placare, innanzitutto perché la casa, la dimora, non ancora dissolta in un fantasma, lo Munari, Fotomontaggio per L'aerop/a110 innamorato di Luigi Bonelli ( /939) attende, aperta, immutabile nel tempo. In secondo luogo, perché il dipartirsi da quella dimora non tracciava ancora gli «incolmabili abissi• fra «anima e struttura», essendo ancora il mondo «ampio, e tuttavia quale la propria casa». Il ritorno di Ulisse è ilunque un ritorno che ha luogo. I contorni di Itaca- non a caso bagnati dalla schiuma del mare - raccolgono nel loro seno questo eroe del lontano. Itaca, terra del passato, terra del già conosciuto. Il viaggio di Ulisse, fin dall'inizio, non prevede alcuna «terra promessa» al di là dei confini del conoscere e dell'agire: solo il ritorno al domestico, alla donna, alla terra. Terra materna, infatti, più che terra dei padri, in cui è dolce vedere la prima e l'ultima luce. Cosi, l'andare di Ulisse si compie in un senso circolare, sorta di circumnavigazione dell'esistere: il punto di arrivo coincide col punto di partenza, racchiudendo e delimitando in un cerchio perfetto le avventure della conoscenza e le peripezie dell'individualità. lf uomo del nostos ritorna dunque sui luoghi del già noto, e scioglie il suo vagabondare nei contorni di una totalità. In questo senso Emmanuel Levinas lo ha potuto definire eroe hegeliano, uomo del cerchio chiuso che si lascia sedurre dalle lusinghe rassicuranti della totalità e del senso, misurando il rischio e calcolando la perdita: «AI mito di Ulisse che torna ad Itaca vorremmo contrapporre la storia di Abramo che abbandona per sempre la propria patria per una terra ancora sconosciuta e che proibisce al suo servo di ricondurre perfino suo figlio a quel punto di partenza». Il «dolore del ritorno» prevede invece, in Ulisse, fin dall'inizio, pacificazione: il desiderio di tornare, che è ciò che dà dolore, non è ancora marcato da nessuna condanna. (E tuttavia non dobbiamo dimenticare che nostos non significa soltanto ritorno, ma allude anche all'idea di «andare»: per cui nostalgia implica anche il soffrire che tocca all'uomo per il suo amore di conoscenza e di lontano, il dolore della dipartenza e quello dell'osare. Questo il senso in cui Dante ha voluto leggere il mito di Odisseo, «smisurato» peccatore di «esperienza») Definire Ulisse, accettando il paradosso storico, eroe hegeliano (e non possono non venire in mente Horkheimer e Adorno, che ne ricompongono i tratti come eroe della ratio) obbliga, però, almeno a una precisazione. Se, da un lato, l'amore di Odisseo per l'andare e il conoscere si appaesà entro l'arco che arriva fino alla ragione hegeliana e al suo «operare secondo un fine» (in cui quel fine, che è anche «cominciamento», si adopera per la «ricostituzione della perduta sostanMarey, Esperienza delle vibrazioni di una sbarra flessibile ( 1886) zialità e della compattezza dell'essere»), si impone, però, tra queste due figure del conoscere, anche un sostanziale distacco. Mentre per Ulisse il ritorno in patria è riconquista del mattino primordiale, è rinvenire il suo posto in «un cielo fatto di vasti tesori di pensieri e di immagini» (insostituibili le metafore hegeliane), è adesione immediata e senza strappi al naturale, uno scarto decisivo si produce nel moderno. Lo spirito, per «indirizzare lo sguardo alle stelle», ha ora bisogno di attraversare per intero il male del divenire e il necessario della morte, di frangersi nel riconoscimento del sociale, per scioglierli infine nell'armonia dell'Assoluto. Il nostro tempo - quello che con approssimazione sempre maggiore chiamiamo Novecento - pone drasticamente fine ad una nostalgia il cui orizzonte contempli il profilarsi di una mèta. Il «dolore del ritorno» diventa dolore del ritorno impossibile. li cerchio dell'andare e del tornare non si salda, ma rimane aperto e spezzato, a testimoniare che «mai come oggi la natura e il destino furono cosi terribilmente senz'anima, mai come oggi le anime umane percorrono in tanta solitudine le loro strade abbandonate» (Lukacs ). La perdita si configura come ineluttabile destino. L'alba di nuovi giorni non promette più alcun mattino di redenzione. Assoluta è la solitudine crea turale. Tuttavia la parola nostalgica non tace. La sua perdita e il suo lutto lavorano a produrre, insieme, pensiero e canto. Nello spazio nostalgico cerca instancabilmente la sua forma la creatura poetica. Il sapere del limite, il non appagamento, l'impraticabilità dell'origine o del luogo sicuro non inducono ad un immobile tacere, ma si prodigano in un appassionato cercare. Come in una sorta di economia pulsionale, in cui il mancato rinvenimento dell'oggetto non obbliga la pulsione al silenzio,.ma la condanna a un peregrinare senza posa, cosi il sapere nostalgico, senza più seno in cui riparare, prosegue orfano e inquieto il suo vagabondaggio poetico. Se non ha più conoscenza diretta del perduto, esso tuttavia si alimenta di una remota memoria. La «rimembranza», (die Erinnerung) nutre il respiro della. poesia di Rilke. La memoria del perduto apre il suo sguardo lucido sul presente e induce il canto in un terreno che non contempla_approdo. In un intatto sguardo " ....,

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==