..... Lettere Toni Negri: Riflessioni in margine a Ginzburg Viva la retroguardia. Non scherzo: da un po' di tempo non capisco più che cosa sia l'avanguardia, i suoi valori sperimentali, la sua istanza costruttivistica. Mi sembra completamente astratta, svuotata di ogni significato innovativo. Formale. Senti parlare l'avanguardista e, al più, ti stupisce il suono imbecille della voce di una scimmia, senza neppure la tragedia di chi la scimmia la tiene sulla spalla. Un francobollo per coprire un buco. Codici per spingere avanti l'incomprensione, la dissimulazione della realtà. Una incomunicabilità che non ha nulla a che vedere con le sfere della realtàalienata, che non è in alcun caso riflessione sulla difficoltà di comunicare: ma sfizio, eccentricità televisiva. Le pagine culturali dei giornali, fuori dalle riesumazioni dei classici, sono illeggibili. Abbiamo bisogno di sostare, abbiamo bisogno di andare in seconda linea, per riposare, per tentaredi nuovo di capire. Forse. Questo vuoto che l'avanguardia ci presenta è inaccettabile, non perché essa sia avanguardia ma perché è vuoto. Non ce l'ho con l'avanguardia perché va avanti ma perché non va in nessun posto. Ho bisogno di riconoscermi in un pieno d'essere. Vivo una pienezza di comportamenti, di sentimenti (nuovi o antichi? non lo so, comunque posatamente ribelli) della cui dolcezza l'atroce reazione di quest'ultimo decennio non riesce a togliermi il gusto. Ho la sensazione, ho la certezza empirica di una realtà completamente sproporzionata alle possibilità del linguaggio esistente. Una ricchezza, un pieno assolutamente urgenti. Elementari? banali? certo non vuoti né inespressivi. È solo una superficie ma forte. Inaccettabile linguisticamente, almeno per il senso linguistico del/'avanguardia? La banalità di Céline. Parliamone pure con Marx che ci ripete: solo i reazionari c'insegnano qualcosa. Perché? Purtroppo l'avanguardista non è soggettivamente reazionario: l'ha solo comperato Sca/fari. Ma d'altra parte che l'avanguardia sia comperata non dipende dal denaro di Scalfari ma dall'imbecillità dell'avanguardia. Il contrai/o è hobbesiano, il denaro di Scalfari sono la paura, il vuoto, il balbettio dell'avanguardia. Leggo in questi giorni il saggio di Carlo Ginzburg in Crisi della ragione (Einaudi 1979). Il tema è prossimo al mio interesse. Ginzburg cerca, con appro'ccio storiografico ed apparente estrema modestia, di riqualificare la teoria della conoscenza. Definisce una alternativa alla crisi della ragione, una nuova dimensione conoscitiva, come avvicinamento alla superficie del/'essere, di un essere versatile ed «altro» rispetto a quello sul quale la ragione raziocinante si sperimenta. Un esserenon razionalmente univoco, bensl equivoco, diffuso, versatile appunto. Quando la sensibilitàmetafisica dei francesi ed il mestiere storiografico degli italiani si incrociano, vienfuori questo bellissimo approccio. E un'eccezione, pregevole ed affascinante, nel volume citato in cui gli altri saggi si segnalano, con qualche residuopositivo, come tentativo da parte degli avanguardistipiù lesti di filtrare e riassorbire le tematiche culturali comunque connesse all'emergenza dei «nuovi soggetti». Inutile raccontare qui il saggio di Ginzburg, tanto più che nella parte essenziale è circolato nell'anticipazione datane da Il Manifesto. Una nuova forma di sapere, ci propone Ginzburg, collocata oltre la crisi della razionalità classica, un «sapere indiziario» che ha la sua preistoria nel- /' arte dei cacciatoridi seguire le tracce, una prima apparizione (subordinata ma effettiva) nella civiltà classica come contraltare concreto alla luminosità ideale della logica dell'identità/contraddizione, e una prima definitiva moderna stesura in Morelli, Freud, ConanDay/e... Unsaperechesi intrecciadunque con la tradizione grecadella «metis» - l'astuta virtù conoscitiva di Ulisse, come mi raccontava Carlo Diano ali' Università quand'ero piccolo, e come ora ricostruiscono in un altro libro affascinante Detienne e Vernant (Laterza 1978). Il sapere indiziario, la «metis», l'intelligenza intuitiva, l'abduzione ... sembrano così costituire una metodologia di conoscenza alternativa, una forma di approfondimento della no~tracapacità di apprensione del mondo, sempre più utilmente apprezzabile (come orizzonte di innovazione e di libertà) in un universo dominato da funzioni unidimensionali gestite dal potere. Ma subito val la pena di chiedersi se il fascino del discorso di Ginzburg sia riducibile all'eleganza della sua attuale proposta o se invece non trovi fondamento in un potenzia/e teorico più ampio. Il mio ragionamento è questo. Il sapere indiziario non è scienza individualizzante. I rompicapi posti dal neokantismo ottocentesco attorno alla«querelle» sulla classificazione delle scienze umane non interessano il sapere indiziario: non perché esso non si muova verso l'individualizzazione del conoscere ma perché non ritiene compatibili individualizzazione e scienza. A me sembra che questo rifiuto derivi dal fatto che il conoscere indiziario non può essere scienza perché è una pratica. Certo, ai neokantiani non sfuggiva la possibilità di una scienza pratica: avrebbero in questo caso definito il sapere indiziario come sapere tecnico, ossia un sapere articolato da finalità concrete. Ma il conto non torna, perché la fruizione del sapere indiziario prevede rottura con la pratica organizzata dalla tecnica, vale a dire con la finalità funzionale. Il sapere indiziario non conosce, esclude la finalità. (Ed è questo, della distruzione della finalità, comunque essa si presenti, il dato fondamentale -la caduta di ogni forma di dualismo, fosse pure il più formale, inerente alla struttura del conoscere e dell'azione) Il sapere indiziario è un sapere di superficie, logica del senso e della sua pulsazione. Coincidenza di senso e di significato di un conoscere che è immediatamente agibile, meglio, che è costitutivamente agito. Il sapere indiziario vive in un orizzonte dove non si dà discriminazione fra il conoscere e la pratica. Il sapere indiziario sembra dunque ame una pratica, ma una pratica libera perché esso si è liberato da ogni condizione finalistica. Queste caraueristiche «etiche» (in senso lato) del sapere indiziario, questa implicita relazione fra conoscere e libertà e questo contatto con la realtà saltano al di là di qualsiasi definizione semplicemente teoretica del sapere indiziario come forma del conoscere. È una liberazione dalla totalità del conoscere, totalitàche sempre si vuole come istanza dualistica e trascendentale (per definizione). Ma l'eliminazione della pretesa totalitaria del conoscere ha un duplice effetto: da un lato appunto l'af fermazione de/l'impercorribilità del trascendentale (comunque concepito, fosse pure nellaforma de/l'utopia), dall'altro la dichiarazione della radicale esclusività del percorso indiziario. A queste condizioni il sapere indiziario ha quindi una sua specifica pulsione alla totalità, ad una totalitàstrana ed intensiva, alla esclusività del suo darsi, in quanto pulsione corporea del sapere. Il sapere indiziario si mostra come sapere dei corpi, del corpo, nelle sue relazioni mondane. Un sapere completamente avverso alla totalità del comando come sintesi di comportamenti ordinati e finalizzati: di contro, completamente immerso nella totalità dei comportamenti corporei il cui spazio esclusivo esso costruisce con logica speciale. Questa apparente contraddizione a me sembra importante: essa infatti segnala l'irriducibilità del sapere indiziario, sia - in generale - ad una teoria della conoscenza comunque formulata (perché il sapere indiziario è una pratica), sia -in specie -ad un sapere particolare, ad un sapereminore o locale e ai suoi riti sacrifica/i dell'eterogeneo e del differente (perché il sapere indiziario è tratto verso la totalità intensiva dei corpi). Il sapere indiziario non è una scienza minore nel gheuo che la scienza maggiore del potere lascia libero per l'emarginazione. Nella sua speciale collocazione, il sapere indiziario sviluppa sempre lotta contro il potere. Con un vantaggio radicale: esso distrugge il potere come oggeuo di conoscenza. Il pensiero negativo ci aveva portato fino al punto nel qualele connessioni totalitarie del potere raggiungevano una tale intensità da divenire esse stesse la prigione del potere, i cardini del suo isolamento. Muovendosi dal di dentro di queste dimensioni, il pensiero negativo cerca l'iniziativa, - un'iniziativa impossibile, un progetto solo astratto. Il pensiero negativo non può staccarsi dall'isolamento del potere, è il consistente involucro di quel vuoto. Il pensiero negativo ripete la dialettica del potere quando si riconosce come forma della conoscenza, e con ciò assimila nella critica la forma de potere. Il cammino di superficie che il pensiero indiziario indica, distrugge invece l'omologia della forma critica del pensiero negativo e della forma del potere. Ma il pensiero indiziario non indica solo un cammino. Allude ad una potenza che riempie il vuoto lasciato dalla critica, risponde ali'abbandono ed alla desolazione del paesaggio residuato dal pensiero negativo. Opera una dislocazione della critica, eliminando la possibilità del potere di adombrarne la forma. Costruiscefuori dal potere, contro il potere, contro la logica totalitaria del potere, - il sapere indiziario si distende sulla superficie della corporeità. Ci sono tre donne di cui mi sono innamorato in questi ultimi mesi. Le conoscevo ma, frequentandole meglio, mi si è aperto il loro pensiero ed in tal modo s'é reso possibile l'insorgere della mia dedizione: Karen Blixen, Maria Schiavo, Ursula Le Guin. Sul fatto che l'innamoramento maschile sia un sapere indiziario credo corrano pochi dubbi. Lo ribadisce «ad nauseam» Barthes. Ma queste donne ti obbligano e fanno della condizione femminile uno stato superiore di conoscenza. L'innamoramento maschile è solo una pallida analogia della formidabile pulsione totalitaria che il sapere indiziario femminile getta sul mondo. La Blixen sul passato, la Schiavo sulla presenza, la Le Guin sul futuro: l'indizio diviene allusione ad una condizione ontologica. Gli elementi di superficie si accumulano, formano uno sfondo, un risucchio di indizi che mano a mano si organizzano in uno schema significativo, - ed essosi pone al di là di ogni possibilità di controllo, di ogni dinamica di dominio, di ogni logica di potere. Un'ontologia diversa è trattafuori da un'indagine indiziaria che percorre la superficie del mondo. Nella misura in cui rifiuta l'organizzazione del mondo che il potere propone e ne percorre astutamente la sola superficie, il sapere indiziario riscopre, o almeno allude alla libertà del/'essere, alle alternative che la spontaneità, ontologicamente consolidata, storicamente composta, nutre in sé, prima fuori contro ilpotere. Ecco: il sapere indiziario come trama del nuovo. Il pensiero indiziario è pensiero nella crisi ma non certo pensiero della crisi. Non è trattenuto dalla crisi. Contiene dunque una serie di elementi di superamento e di alternativa? Forse. Contiene certo allusioni al nuovo, non ad un futuro ma al reale. È un sapere fresco. Non è un pensiero possente, un sapere progettuale, - interpreta e scava. Perché allora lo consideriamo un pensiero rivoluzionario? In ciò consiste il suo paradosso: che esso costruisce il mondo a partire dalle tracce del nuovo. Il sapere indiziario ci dice che la realtàè al di là dell'esistente, che lamaturità del/'essere, lo sviluppo della libertà, la composizione di classe sono al di là delle forme storiche che hanno assunto. Su questo paradosso non sappiamo che farcene de/l'avanguardia. Basta una onesta retroguardia a segnare vie di verità. Ogni istanza costruttivistica qui è solo un blocco della realtà. L'avanguardia assassinail reale, dando spazio alle idee, quando ciò che solo è nuovo, è il reale, nei suoi minuti indizi di rottura. Le forze produttive hanno· di tanto avanzato i rapporti di produzione che di null'altro abbiamo bisogno se non della loro rivelazione. Oggi è forse possibile parlare di rivoluzione come Tocqueville parlava della rivoluzione francese: lo sviluppo di un corpo che ha insinuato ovunque la sua potenza e che vuole solo il riconoscimento della sua forma. Scavata, interpretata, accumulata attraverso indizi, fino a/l'esplosione della sua forma compiuta. Il sapere indiziario diviene, in questa prospettiva, pensiero costitutivo: costituisce complessità a partire da elementi semplici, diffusi, versatili, liberi. Quello che ci interessa è dunque portare questo processo costitutivo, attraverso il sapere indiziario, fino al punto nel qualeessorivelaladifferenzal,aforma nuova del rapporto di produzione. Il sapere indiziario è forse lo stesso complesso delle nuove forze produttive che forzano la determinatezza dei rapporti di produzione. È la loro ricchezza, la loro densità ontologica. Il sapere indiziario rivela quello che c'è già: è un pensiero retrogrado, è quello di cui abbiamo bisogno davanti a questa realtà. Scopre che quello che c'è, è già rivoluzionario. Il nuovo non è un futuribi- • le, è una traccia: Come cacciatori inseguiamo il comunismo. Palmi, dicembre 1979 Ruggero Romano: Storie vecchie e storie nuove Che si leggano libri di storia è certamente segno positivo della salute civile di un paese. Sintomo ancor più positivo è vedere che ci si occupa non solo di storia: narrazione storica, ma anche di storiografia: del modo di scrivere la storia. Vedere così l'attuale dibattito storiografico presentato in Italia sulle pagine di quotidiani e di settimanali rallegra non solo gli addetti ai lavori ma anche quanti sono attenti ai segni sia pur minimi di quella che più sopra ho chiamato la salute civile di un paese. Infatti, leggerelibridi storia vuol dire una volontà di ricercareil proprio spessore storico - individuale e collettivo, ed entrare nel cantiere in cui la storia viene scritta costituisce un modo estremamente utile per meglio intendere quel che si legge. Ma v'è un pericolo: che ad un certopunto - per interessipiù o meno nascosti -il modello del cantiere vengapresentato in modo distorto. È quel che è accaduto in Italianel parlare delle Annales (non parliamo, per favoredella «scuola» delle Annalesche non è mai esistita) e benvenute sono le note chiarificatrici di Furio Diaz ne/l'Espresso del 10 febbraio 1980. Ma le precisazioni pur necessarie di Furio Diaz mi sembrano troppo limitarsi ad una questione «interna» al mondo degli storici italiani, laddove ilproblema è ben ampio. Dunque: di cosa si tratta? Un gruppo, capitanato da C. Ginzburg, di giovani (ma non tanto...) storici si èscoperta una sorta di vocazione: quella di essere i profeti delle Annales in Italia anche se taluni di essi ne sono stati, per anni, degli accaniti spregiatori. Ma non è questo che è irritante: in fondo, ciascuno è libero di cambiare opinione. Quel che conta, invece, è che si presenti la cosa come una grande novità. Ora, novità non v'è. Questo gralJclamore ricorda quanto avvenne negli anni '30: l'allora giovanissimo professore Amintore Fanfani scrisse un articolo polemico nei confronti dell'opera di H. Hauser. Questi commise l'imprudenza di rispondere; A. Fanfani riprese lapenna; H. Hauser rispose ancora... Alla fine, si parlò della «polemica Hauser-Fanfani». La statura intellettuale del secondo non arrivando nemmeno al tallone di quella di Hauser è ovvio che fu Fanfani che ci guadagnò. Oggi, mi sembra sia in corso una manovra del genere in questo gran polverone che viene sollevato intorno alle Annales. Per quel che mi riguarda resto fedele alla massima di Fernand Braudel: «ci si batte solo con avversari della propria taglia»... e proprio per questo non ho alcuna intenzione d'entrare in polemiche. Ma non entrare in polemiche non significa taceredi fronte ad un completo travolgimento della verità. Procediamo dunque per ordine e diciamo che questa terra dell'arida storiografia, che sembra attendere l'irrigazione di Ginzburg e compagni, ha dato alcuni collaboratori alle Annales: da un luuatto (fin dagli anni '30) ad un De Maddalena, un Cipolla, un Mandich, Sapori ed altri ·ancora (ed escludo, naturalmente, quegli italiani - da un Tenenti ad un Sardella e, se mi si consente, fino al sottoscritto -che sono stati per anni al/'«interno» delle Annales). Non si tratta, qui, di trovare i «babbi» o i «nonni» degli attuali «nipotini» ma semplicemente d'indicare che la lezione delle Annales è stata già recepita da tempo in Italia. E come avrebbe potuto essere altrimenti? Il grande libro (quello, sì, veramente grande) di Fernand Braudel sul Mediterraneo è stato tradotto fin dal 1951 (contro l'opinione di Delio Cantinoriun po' il padre spirituale di buona parte degli attuali «nipotini» che aveva battezzato quell'opera gigantesca «il Via col vento della storiografia» ...); il saggio straordinariodi LucienFebvresu Lutero è stato tradotto fin dal 1949 e via enumerando. Veramente si può credere che tra il 1950 (almeno) e ieri, gli storici italiani siano rimasti assolutamente impermeabili a ques1alezione? Suvvia, scherziamo! Che un Rosario Romeo o un Ruggero Moscati ed altri pochi ancora abbiano lasciato correre, è certo. Ma proprio per questo non sono che gli «zombi» della storiografia e della cultura italiana. Ma, per il resto, risulta evidente l'influenza delle Annales su storici come Zangheri o Vi/lari, Villani o Tucci, Poni o Papagno, Cipolla o Ama/di e dozzine e dozzine d'altri ancora. Tutti questi (che sono di orientamento ideologico quanto più diverso possibile: da crociano a marxista) non sono stati indifferenti, hanno letto, hanno studia10 ed hanno tratto profi110dalle Annales (come da Past & Present, Economie History Review, Kwanalnik Historyczny). Ma, ripeto, non si tratta di ripescare «babbi». Piuttosto-e questo è quel che mi muove a scrivere - bisogna preoccuparsi dei «bisnipoti». Ginzburg e compagni insegnano nell'università del paese chiamato Italia. E cosa mai insegnano? Che la «nuova» storiografia è quella delle Annales. E nemmeno tutta ma ridotta ad una sorta di microstoria che è quanto di più oppos10 si possa immaginare alle idee di un Bloch, di un Febvre, di un Braudel, di un Le Golf. Non era proprio Lucien Febvre che diceva: «la paura della grande storia uccide la storia»? Se si ha paura della storia e ci si nasconde dietro una facciata di prestigio (sulla quale, a completare il pas1iccio,si sparge un' infarina1ura di Marx ed una cilieginadi Foucault....) è affare di questi signori (i quali, a proposito di microstoria, farebbero bene a s1Udiare i libri di luis Gonza/es: naturalmente, mai si «abbasseranno» a prendere a modello uno storico messicano...). Ma non è più affar loro quando si trattadi «insegnare» e di «formare» nuove leve. Perché il fallo vero è che il nuovo della storiografia non è quello che i «nipotini» propagandano: il nuovo è quello dell'emostoria (ma non si fa etnostoria perché si parla di qualche sparuto contadino o di qualche sparso paesello: questa è storia del folk/or.e che da Pitrè a Cocchiara ha già avuto in Italia cultori di reputazione mondiale) di un Murra, di un Mintz, di uno Zuidema; il nuovo è quello della New Economie History (non quella ridicolizzata da taluni ma quella che ha introdotto il conce110di scelta alternativa in istoria); nuovo è quello che dalla matematica (non quella della storia quantitativa, ma quella dei concetti come centrato/ acentrato o locale/globale) può venire ai nostri studi; nuovo ancora tutto quanto si può ricavaredalla psicanalisi (non quella freudiana ma quella junghiana: a riprova lo straordinario libro di luigi Aurigemma sullo scorpione che, na1uralmente,questa «nuova» storiografia ha tranquillamente ignorato); il nuovo è tut10 quello che può venire dalla biologia (p. es., I' emostoria), dalla linguistica... Ma non vale lapena insisteregiacché più che inoltrarsi troppo nel cantiere della storia mi sembra preferibile sof fermarsi sul fatto di costume e culturale in senso lato. E confesso che io non capisco talune cose: a) come è possibile che in un paese come l'Italia che può vantare il numero più alto di traduzioni da 1utte le lingue e che, di fatto, è al corrente di tutto, si caschi così spesso nelle «mode»; b) come è possibile che in questo paese si accetti che un gruppetto di persone s'impadronisca in prima persona di un «palrimonio» (come quello delle Annales; ma il discorso si potrebbe ripetere ad altri propositi)? c) come si spiega che nella nostra penisola - che nella più parte della sua popolazione provinciale non è - vi sia campo perché dei provinciali diventino degli opinion-leader? Rispondere a queste domande significa entrare nel profondo·dei problemi della cultura di questo paese. Una cultura che è molto meno becera di quanto si voglia (interessatamente) far credere: che ha molti più successi internazionali (in molteplici campi) di quantD comunemente si creda; che ha la sua parola da dire (e la dice: il grosso ostacolo essendo cos1ituito dalla lingua, così poco veicolare) nel mondo. Sarebbe interessante fare un censimento di tulli quegli studiosi italiani di reputazione internazionale i cui nomi sono completamente sconosciuti (nascosti?)nel nostropaese:si vedrebbe allora la straordinaria miseria intellettuale di quanti si mettono costantemente al/"avanscena. In più, con un esame del genere avremmo la controprova di una ben più vasta verità: un paese che indecente non è si ritrova da cinque secoli con una classedirigente che indecente è.
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