Alfabeta - anno II - n. 11 - marzo 1980

'O .... pitale, ,nentre i c.d. «socialismi reali» c·i mettono sott'occhio le aberrazioni della pi'llnificazione autoritaria e centralistica. Va aggiunto che l'esperienza storica dei paesi «socialisti» e delle società capitalistiche sviluppate ha enfatizzato, sia pure in contesti del tutto diversi, lo statalismo, cioè la manovra delle leve e degli apparati dello Stato per I' espansione dello sviluppo, l'organizzazione isti1uzionale dei soggeui e il governo. della composizione di calsse. Badaloni chiarisce che nelle formazioni sociali tardocapitalistiche rispeuo ali'ordine logico del discorso marxiano interviene una ·complicazione massiccia della razionalità post festum, imputabile alla trasformazione morfologica del modo di produzione che riesce a ridurre al minimo gli effeui liberatori e dirompenti contenuti nello sviluppo della produuività del lavoro e del generai intellect La nozione gramsciana di «rivoluzione passiva» esprime esal/amente il mutamento di funzione della produttività del lavoro e delle forze produttive sociali in rapporto ad una forma del potere e dello Stato, le cui contraddizioni sono generate dall'essere chiamato a promuovere /'accumulazione senza, tuttavia, intaccare il nucleo dei rapporti capitalistici di produzione. Su questa base, Badaloni, per spiegare la natura dello Stato sociale (o assistenziale), ricorre alla categoria di interferenza tratta dalla moderna teoria dell'informazione e dei sistemi. Lo Stato keynesiano a regime di democrazia parlamentare cristallizza una congiuntura storica peculiare, in cui le regole' del gioco non sono decise univocamente da un solo partner, ma dalla reciproca sovradeterminazione delle classi in lotta: si è avuta così una redistribuzione dei benefici della maggiore produttività del lavoro a favore dei ceti subalterni e una contemporanea limi/azione del profluo, di cui quote consistenti sono andate ad incrementare il fondo-salari. La forma sociale che ne è nata somiglia, per Badaloni, alla soluzione del paradosso di Maxwe/1a livello della termodinamica. Il diavole/lo che ne/l'ipotesi maxwelliana doveva contrastare la degradazione del/'energia•(attraverso il raggruppamento delle particelle più veloci e più calde in una sezione del sistema e di quelle più lente e meno calde nell'altra), non è affauo esterno al sistema, ma effettua un lavoro attivo a spese di esso e ne reintegra la funzionalità, anche se si si/Uaai confini del sistema. Così si può dire che le classi lavoratrici fanno parte del sistema sociale e consumano una parte della ricchezza prodoua. Ma al contempo possono assolvere ad una funzione relativamente esterna ad esso, indicando modificazioni e sviluppi in direzione di un'autoregolazione sociale, che, come nella soluzione del paradosso di Maxwe/1, non può essere imposta con la forza (il piano autoritario), ma costruita in intima aderenza al corpo sociale. La nozione di «interferenza» serve, dunque, a colmare la divaricazione traprevisioni e fatti prodottasi ne/l'ordine logico della «ragione marxiana». È avvenuto che il movimento operaio ha mutato nel profondo la realtà «rispondente al conce/lo» (Marx) al punto che con lo Stato assistenziale è nata una formazione sociale e politica del tutto particolare che Schumpeter denominava capitalismo laborista. Tuttavia, le mutazioni indoue dall'«interferenza» non sono assumibili come pretesti per appannare la consapevolezza della storicità del modo di produzione, la necessi1à,cioè, di sviluppare una ricerca contro/attuale che affidi il progetto del cambiamento alla costruzione «dal basso» e che corregga il decisionismo dei «giochi» con un potenziamento progressivo delle informazioni e delle capacità d'intervento autonomo sul processo produttivo, di formazione delle risorse e di rideterminazione dello sviluppo da parte dei soggetti (in primo luogo la classeoperaia). La «strategia del potere» diventa la «strategia delle libertà». Badaloni non nasconde il privilegiamento del lato soggettivo inerenle a questo lipo di s1ra1egia del potere (/'«individuo socialmente ricco» di Marx), anche se non manca di sottolineare il «riferimento» alla necessità come «fattualità ricca di casualilà» e di possibilità selettive, su cui si gioca la grande battaglia de~'egemonia. Il vero «tempo della politica» (Tronti) si decide, dunque, sul lerreno del modo di produzione, se non si vuole ridurre il socialismo a ideologia del/'occupazione del polere. Certo, ai margini di questa problema1ica sollevata da Badaloni, che stringe riproduzione sociale e razionalità in una rete di connessioni reciproche, rimane ancora la tematizzazione del rapporto tramodo di produzione e specialismi sul versame della de1erminazione di forme emancipati ve di razionalità dis1esesull'intero arco dell'orgaìiizzazione modulare della socie1à (le «casematte» gramsciane) entro cui ma1ura il bisogno di una mediazione espansiva e dove la qualità politica che vi è cresciuta domanda che le dinamiche del generai intellect non si risolvano in una passivizzazione dell'intellet1ualespecialis1adi massa (in un az~eramento della critici1à pene/rata nei saperi speciali in relazione alle grandi ques1ioni della vita sociale: salu1e, devianza, giustizia, edilizia, ecc.), ma si 1raducano in una leva poderosa di riforma della «composizione demvgrafica» o, ciò che è la stessa cosa, del rapporro Ira S1atoe classi sociali, Ira produzione e polilica. La razionalità del modo di produzione, sotto quesro profilo, si riversa tutta nella questione politica degli intellelluali. Alcune osservazioni, infine, sul contributo di C. Ginzburg, sollo fanti aspeui così suggestivo. Non ho nessuna competenza per entrare nel meri/o del Methodenstreit che esso ha suscitato in campo storiografico. Ho l'impressione, 1uttavia, che il «paradigma indiziario» propos10 per le scienze umane abbia molti debiri (non dichiarali), più che nei confronti della semeiotica medica, con il modello neo-kantiano di Windelband e Rickert, che consegnavano alla sloria e al metodo storico il dominio dell'«idiografico» (del quali1a1ivo, poi del fatto fa(re) la legge del fatto s1esso» (Gramsci). 9 Maurizio Ferraris: Pluralismo di linguaggi o pluralità di differenze S i può imendere un conce/lo come quello di «crisi della ragione» al1rimenti che in senso s1orico? Si può cioè parlare di una crisi della ra- • gione in generale, o non è piut1os10necessario considerare la crisi della ragione come una «crisi di ragione», come·la crisi di una ragioneparticolare o di un modo storicamente determinato di intendere la ragione stessa, i suoi criteri, la sua legiuimità e i suoi fondamenti? Un interrogativo di ques/o genere è, naluralmente, relorico. Sembra indiscutibile il fatto che la ragione come facoltà non possa che trovarsi in una condizione di crisiperenne; così come è altre/tanto sicuro che la perennità di raiecrisi, coestensivae coessenziale alla definizione stessa della ragione, si circostanzi in siruazioni particolari dove la ragione sente con particolare asprezza leproprie manchevolezze. E proprio in lai senso la crisi della ragione viene affrontata dagli autori del reading einaudiano che reca questo titolo, dove non casualmente si oppone all'aporeticità o all'impralicabilità operativa di una ragione delta classica (per inlenderci, ed in un senso molto vasto, quella di Descartes, Newton e Kant) un paradigma di ragioni «neoclassiche» o «postclassiche», sorte precisamente dal crepuscolo di questa razionalità certa e pura. Achille Funi, Una persona e due età, 1924 (Biennale di Venezia, 1924). dell'irrazionale) occulrato e rimosso dalle scienze nalurali. Se non intendo male, il «paradigma indiziario» funge da selettore concettuale, dagriglia epistemologica fine che consente una· visibilità di tracce, resti, indizi che la macrostoria seppellisce sollo la cappa delle istituzioni ufficiali (volta a volta dominanti) e da cui, invece, è possibile risalire all'interpre1azione di fenomeni sociali più vas1i.Forse a Ginzburg si può rivolgere l'obiezione che Gramsci poneva a De Man quando scriveva di ques!'ultimo che «la sua posizione è quella dello s1udioso di folclore che ha continuamente paura che lamoderni1àgli dis1ruggal'oggetto della sua scienza,,, Infatti, non credo che la microanalisi sia in grado, se non sussidiariamente, di identificare e ricoslruire i blocchi di egemonia di quella che lo stesso Ginzburg definisce «una s1rw1ura sociale complessa come quella del capi1alismoma1uro». Senza dubbio l'epoca delle grandi sintesi onnicomprensive è finita da un pezzo e «la decadenza del pensiero si~ s1ema1icoè staia accompagnata dalla for1una del pensiero aforislico - da Nietzsche a Adorno». Ma l'irriducibili1àdei dia/e/li della crisi odierna ad un unico metalinguaggio non è un rompicapo epistemologico superabile con l'ausilio di un diverso paradigma, bensì un da10s1rutturaleche pone su basi del tu·ttoinedi1e l'impresa 1eoricadell'anatomia dell'attua/e socie1àborghese. La microfisica del po1erenon è meno posi1ivistadella fisica del po1ere,se si limi/a a «raddoppia(re) il fatto, descrivendo- /o e generalizzandolo in una formula e L'estinzione o il superamento della «razionalità classica» è un dato lutt'altro che congetturale, ma è invece individuabile nei suoi termini, nella sua genesi slorica e nei suoi esiti 1eorici.I termini, sono quelli di una disfunzione nel/'articolarsi del fondamento con la razionalità che se ne fa interprete o principio, e che si vede allora infirmata nella propria legittimità· una volta che sia cadwa la fede in un fondamento 1rascendente (l'Essere lo spirito della Storia o Dio) o del 1u110immanente (la ragione come organo puro del giudizio), il sapere razionale si trova di colpo destituito della propria legittimità. Questo evento ha un luogo storicamente assegnabile, e cioè quella che Nietzsche indicacome «fine della metafisica»; così in un celebre passo del Crepuscolo degli idoli («come il 'mondo vero' finì per diventare favola») egli afferma infatti che quando, con il trionfo della razionalitàpuramente umana, si vanifica la fede in un fondamento trascendente e separalo dal mondo degli uomini, la stessa ragione umana si vede infirmata da quell'incredulità che essa aveva proiettato contro il mondo delle essenze, esi trova improvvisamente de-legiflimata:«Abbiamo 10(10 di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? forse quello apparente?... Ma no! col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!». Si chiude allora la scena della «razionalità classica»; e la ragione è colta dal dubbio, da una crisi che ne attestala costanza, ed i cui esitisono attestati dalle razionalità «neoclassiche» dispiegatesi a partire dalla fine del/'Ouocento, dove è sempre in gioco il doppio registro, propriamente razionale, del fondamento e della legittimità. Si dà così la critica dell'ideologia, dove la ragione si interrogasul come criticareun discorso illegittimo perché mistificante rispetto al fondamento, valendosi di un altro discorso che trae la propria legittimità da unamaggiore adesione ai dati storici e materiali del reale. Un secondo orientamento della razionalità neoclassicaè quello del/'ontologia di Heidegger: il fondamento non viene ricercatonei dati empirici di una storicità pura, si accentua il carattere rela1ivo-epocaledella storia, e si fonda la legittimità della ratio nell'ascolto e nell'interpretazione di un essere fondamentaje che soggiacerebbe (ora ricordato, ora dimenticato) al di sono del susseguirsi casuale delle epoche storiche. Infine, una terzaforma di razionalità neoclassica è quella, di ascendenza wittgensteiniana, che si dispiega nella filosofia analitica anglosassone: il discorso razionale non trova la propria leginimità nel ricorso a fondamenti ulteriori a se stesso (fondamenti che sono revocati in quanto congeuurali o metafisici), ma si basa invece sulla legiuimazione autofondante conferita al linguaggio dal «contesto» in cui si muove (teoria dei giochi linguistici, della «competenza», riduzionismo neopositivistico). Queste tremodalità neoclassiche della razionalità sono compresenti, con accentuazioni diverse, nel reading einaudiano, ma non lo sono quasi mai allo stato puro e schematico che abbiamo brevemente delineato, offrendosi piu11ostosecondo modi di aggregazione e di organizzazione assai sfumati. Il che è assolutamente spiegabile e necessario, poiché la ricerca di «nuovi paradigmi di razionalità»non può consistere puramente e semplicemente nella ripetizione degli esiti della «razionalità neoclassica»: se, nonostante la critica dell'ideologia, l'ermeneutica héideggeriana, lafilosofia analitica,si continua a percepire una crisi della ragione, è evidente che bisogna procedere oltre. Diversamente, ci si potrebbe appellare ad una qualsiasi «razionalità neoclassica», e rasserenarsi sul fondamento e la legittimilà della ragione, senza procedere ad una vana moltiplicazione degli enti e dei termini in gioco. Salta però agli occhi un dato di fatto evidente, e da esso un dubbio. Tra le modalità di ristruuurazione della ragione neoclassica, quella di gran lunga predominante è la teoria della «pluralità dei linl{uaggi»,che trova nel reading sulla crisi della ragione il suo difensore più acceso in Franco Re/la, e che ha per principale rappresentante nel dibauito filosofico italiano Massimo Cacciari. La teoria della «pluralità dei linguaggi» prevale statisticamente per la sua capacità di radunare souo le proprie insegne le compagini altrimenti disperse dellacriticadell'ideologia, dell'ontologia heideggeriana, della filosofia del linguaggio di Wittgenstein. Essa conserva infaui, della prima, il ricorsoalle «istanzemateriali» allecontraddizioni e alla necessità della loro analisi; della seconda essa assume l'impostazione antiumanistica, l'appello ad un fondamento ontologico che legiuimi la ragione al di là delle semplici empirie della storia e delle sue contraddizioni; dalla terza, infine, desume il criterio essenzialmente laico (benché rìsoÌtosì, in Wiugènsiebi, i~ esiti mistici) di un esame disincantato dei «giochi linguistici», dei singoli linguaggi considerati anche in base alla loro legiuimità e al loro funzionamento immanente, e non solo secondo il semplice appello al fondamento smarrito, che si rivelerebbe come una sospella teologia negativa. Una teoria, questa, perfetta ed ecumenica, talmente pacificata e rasserename da indurre ragionevoli dubbi sulla sua legittimità, e sulla sincerità della «crisi della ragione» di cui essa si pone insieme come il referto e il rimedio; e questi leginimi sospetti su una doarina così apparentemente irenica si rafforzano quando (è principalmente il caso di Re/la), la tendenza ad inglobare e a radunare si i"igidisce di colpo di fronte ad altrecorrenti di pensiero (lapsicanalisi di Lacan, la filosofia della differenza di Deleuze, Foucau/1, Lyotard), e lancia allora delle secche scomuniche. La ragione si difende dal proprio discredito mantenendosi nella pluralità pr.oblematica dei vàri linguaggi che la attraversano; celebra la propria crisi dimostrando la propria problematica; ma ricusa dogmaticamente quei tentativi (e forse quelle soluzioni) che potrebbero indicare una via d'uscita e ricorre alladrasticaaccusa di i"azionalismo, di fuga nell'incontro/labilità notturna del «desiderio», del «rizoma>, dei «flussi». Bisognerebbe allora domandarsi se questa crisi talmente conclamata non sia un tendenzioso scetticismo; e verificare quindi se la pluralità di differenze che viene offerta dalla filosofia francese contemporanea sia davvero imputabile dell'i"azionalismo, della mitica dell'alterità, che le viene assegnat_daallado11rinadellapluralità - del pluralismo a quanto pare parziale - dei linguaggi. Lapietra delloscandalo è, nel caso di Rei/a, la psicanalisi. E non è certo un caso che proprio da essa proceda la scomunica della filosofia della differenza. Ricorrendo ad un fondamento poco verificabile, l'inconscio, e leginimando la propria ermeneutica con il ricorso ad una ragione essenzialmente problematica, la do11rinafreudiana si presta in/ani sia alla formulazione di una filosofia della differenza sia a quella di un pluralismo linguistico. Di fronte al testodi Freudsi danno allora, nella sistematica di Re/la, due opzioni fondamentali: la «critica freudiana» (di cui egli si dichiarapartigiano); e il «ritorno a Freud» proposto da Lacan (ritorno, dice Rella, pernicioso, perché non solo si risolve in una teologia negativa, ma anche perché apre la via a/l'irrazionalismo del «rizoma». La «critica freudiana> si propone come l'assunzione dei caraueri più radicalmente problematici della ragione secondo Freud. Nel freudismo, infatti, viene revocata la fiducia in una ragione evidente a se stessa, e il campo del comprendere si estende alle regioni dell'inconscio, incuranti del principio di contraddizione e di tutto l'armamentario conoscitivo della razionalità classica; ma la ragione permane tullavia come l'unico mezzo per accedere a queste regioni notturne che, privandola del fondamento e della legittimità offena dall'autoevidenza del cogito, devono tunavia venire colonizzate e bonificate da un io e da una ragione che da questa impresa traggono una nuova legi11imità. Ad un soggetto unitario e ad un linguaggio totalizzante, la «critica freudiana» oppone allora un soggello frammentato dalle topiche eterogenee del freudismo (lo, Es, Super-lo), e dai bisogni discordanti che si manifestano in una pluralità di «dialetti>i"iducibili ad un linguaggiopacificato e onnicomprensivo. Compito della ragione sarebbe allora il presentarsi come consapevolezza critica di questa pluralirà; il rendere intelligibiliper quanto possibile gli sconnessi dialetti del sogge110;il porsi in una situazione di perenne e ininterro11a critica e autocritica che scongiuri quel «bisogno di verità»propriamente soggeuivo " «classico» da cui nascono gli illusivi linguaggi dell'alterità teoricamente totalizzanti e politicamente totalitari. A fronte di questa ragione meno giudicante che giudicata, consapevole del pluralismo dei linguaggi che la compongono, si pone il colpo di mano di Lacan: riparandosi dietro ad un abusivo «ritorno a Freud», e facendosi forte delle debolezze e delle incertezze della ragione, egli riduce la molteplicità dei linguaggi ad un linguaggio unico, la parola dell'Altro che governerebbe il sogge110invece di esserne prodolla, e nega ogni valore al sapere scientifico per affermare il primato di una Verità identica al linguaggio dell'Altro, e non sottoponibile ad alcuna criticarazionale.

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