Inquisizion~e!Do.lesa • ' m esta Il 22 e il 23 giugno scorsi si è tenuto a Padova alla facoltà di Scienze Politiche un convegno su Legittimazione, conflitto sociale, produzione intellettuale. Nelle stesse aule. dove per anni Antonio Negri. Luciano Ferrari-Bravo e gli altri docenti arrestati il 7 aprile hanno condotto le loro ricerche. si è voluto. con una prova di coraggio politico e lucidità intellettuale. affrontare i problemi più ampi che l'inchiesta contro i leader teorici dell'«autonomia» ha sollevato. Prima si sono discussi i temi giuridici: la crisi del garantìsmo, il carattere indiziario del processo. i limiti strettissimi concessi alla difesa. Successivamente sono stati affrontati i temi più politici: l'integrazione sociale e le forme del consenso. Al convegno hanno partecipato studiosi di vari paesi europei. Dopo l'introduzione del-prof. Fiorot della stessa facoltà di Scienze politiche. la prima giornata è stata caratterizzata dalla relazione di Luigi Ferrajoli. giurista dell'università di Camerino. Nella seconda giornata l'intervento più importante è stato quello del tedesco Peter Briickner sul rapporto tra integrazione e disintegrazione sociale. Confermando alcune delle tesi esposte durante il convegno. la grande stampa ha in generale passato sotto silenzio questa occasione di riflessione seria sull'attuale slittamento della democrazia. È opportuno invece riprendere l'occasione e aprire un dibattito. Cominciamo col pubblicare un intervento di Cesare Donati della redazione di Criticadel diritto. dell'Università di Pavia. '( legittimazione, conflitti sociali, produzione intellettuale», il tema del convegno chesi è svolto a Padova nell'ultima settimana di giugno, e durame il convegno è stato reso pubblico un «Documento» redatto a Rebibbia dai detenuti del 7 aprile. Il «Documemo» spazza via, dalle sue prime righe, molti detriti di confusione che si erano accumulati in questi due mesi, e questa iniziale pulizia la compie con una domanda: «che tipo di processo?» Domanda concreta ed essenziale. E da qui che scendono altre risposte accidentali. «Bisogna parlarsi chiaro: il 7 aprile ha messo in piedi un processo politico, non tanto quindi un processo alle idee o ad intellettuali solamente, ma un processo a un "ceto politico", a compagni autonomi i quali in nessun momento negano una militanza in quest'area politica>. Così, «non tanto» e «non solamente», certo anche poiché un «ceto politico» non esisterebbe senza idee -e ideali - ma neppure processo a generici intelleuuali, agente che scrive. Ma a tali che scrivono e dicono certe cose. le cose del potere, affari del principe. Non è dunque nei loro scritli che saranno cercate le prove, ma anche. E vediamo come. Ma prima occorre comprendere da dove viene l'ipocrisia inscrittanella richiestadi prove. Perché è chiaramente ipocrita chiedere -o of frire - quello che si sa di non poter come interdizione al linguaggio e al simbolo. Censura come mezzo di legittimazione supplementare [...] Ho già accennato al fatto che la cronica distruzione del posto di lavoro e la disoccupazione. l'erosione dell'integrazione sociale (la problematizzazione dell'etica del lavoro. lo spettacolo della droga. le malattie fisiche e psichiche). la perdita di egemonia culturale dei partiti autoritario-conservatori. ecc.. che queste e moltissime altre manifestazioni della crisi. proprio in una società che si concepisce ufficialmente come società senia classi e pretende di valere come modello di stabilità e di saldezza per la raggiunta pace sociale. debbano notevolmente incrementare il bisogno di consenso e di legittimazione. Sembra che sia un paradosso quando dico che nelle società con stabili tradizioni giuridiche di libertà borghesi. per le quali sono una avere -o dare- in un particolare modo voluto. Così vi è ipocrisia nel garantismo che si rifà continuamente alle «prove», al processo come luogo delle prove. Ma quali prove? Quelle del fuoco e dell'acqua o del giudizio di Dio? Non è ozioso gioco questa domanda, anzi; approdare alla specificità delle prove in questo preciso contesto conduce diritto a comprendere di quali materiali il contesto è costruito, che tipo di processo è questo invocato come corte d'onore e arena di verità. Certo, e non è contraddittorio, la prima, fondata reazione è stata quella: o fuori loro, o fuori le prove. Così anche il documento pubblicato il 12 aprile da Critica del diritto: chiedevamo di sapere - richiesta ingenua e arrogante insieme -di conoscere la verità. Per noi prove e verità erano ancora, malgrado la critica del diritto, o forse proprio perché la criticadelle categoriegiuridiche è ancora piccina, inestricabilmente connesse. Ma auenzione, il terreno è scivoloso. Usiamo - noi che diciamo «fuori le prove» e gli inquisitori - parole omogenee, oppure accediamo, impaludandoci, a un universo estraneo e deformante? La veritàfattuale è quella stessa del dirillo, data da miscugli di costruzioni fiuizie e imposte dalla volontà di punire? Ma, soprattutto, le imputazioni fatte agli arrestati del 7 aprile sono compatibili con prove, così come queste vengono usualmente pensate? Comprendere la natura delle imputazioni è allora determinante per rispondere. E si può partire da un interrogativo udito proporre da quasi ogni interlocutore: ma perché gli inquisitori non hanno fatto ricorso a figure di reato relativamente più comuni, meno sospette, che avrebbero loro permesso di spigolare negli scritti di alcuni imputati brandelli di prova? La risposta è nel taglio nello - e che non è prevalente solidarietà di intellettuali con altri imputati - che il « Documento» contiene: processo a un 'ceto politico'. Allora ecco la necessità di ricorrerealleipotesi «Dei deli1ticontro la personalità interna dello Stato» del codice penale della Repubblica (e non «Rocco» perché se immutato è rimasto allora è stato sussunto efallo proprio giorno dopo giorno dall'ordinamento «democratico»). Facciamo un salto a ritroso e vedremo che, almeno in un punto, più che fascista tale gruppo di norme è borbonico. Nel codice penale del regno delle Due Sicilie (I 8I 9) si trova il titolo Dei reati contro la sicurezza interna dello Stato ove sipuniscono regicidio e auentati all'incolumità dei principi e - si guardi bene - il «misfa110di lesa maestà». Questo è il cuore dell'inquisizione del 7 aprile: gli imputati sono sollo I' aspro governo di leggi che contemplano il crimen/ese, il misfatto di lesa maestà. È lecito sospellare che I' accostamento sia letterario, ma solo a scorrere che fosse tale «crimen» ci si accorge che il parallelo non è abusivo; il codice borbonico colpiva l'allentato e la cospirazione che mirassero a distruggere o • cambiare il governo o ad eccitare ad armarsi contro l'autorità. E, si osservi ancora, il codice borbonico si distingueva proprio per aver conservato il cosa ovvia le forme di espressione modellate sulla discussione oppure le organizzazioni di radicale alternativa politica e collettiva. il dispiegarsi delle lotte di classe non svolge una funzione devastante. anzi. al contrario. aggregante per la connessione sociale. Al contrario dove. come nella Repubblica Federale. solo lo stato deve produrre questo consenso. si ingrossa obiettivamente il potenziale di violenza dif fusa. con la polarizzazione. tipica in queste situazioni. fra estensione dei poteri dello stato da un lato e crescente modellarsi degli ambiti privati sulla violenza dall'altro. Contemporaneamente. poi. si accresce la tendenza alla penalizzazione dei meccanismi di pubblicizzazione dei problemi della violenza nella società. Di fatto con gli attuali interventi della censura. sulla base delle ulteriori determinazioni del diritto penale. non si tratta più di impedire l'aperta propaganda della violenza oppure l'approvazione dei delitti. Casi come il di- «crimen maiestatis» dopo la Rivoluzione francese che l'aveva abolito. Le radici remote del de/iuo contro l'autorità ha storia lunga, e non vale percorrerla interamente, ma se ne hanno definizioni terribilmente attuali: Plinio (Panegirico a Traiano, 42) «singulare et universale crimen eorum qui crimine vacant», quelli che non si sa come altrimenti colpire. E Tacito ( Annal~ 111,22) ancor meglio: «omnium accusationum complementum». Mortale condimento di ogni pietanza criminale, con le inevitabili riflessioni sull'oggi. Abbiamo fatto un giro tondo e ci ritroviamo allespalle della Rivoluzione francese? Certo le parole di Pietro Leopoldo sono auspici per un nostro migliore fwuro: «Ordiniamo che siano tolte e cassatetul/e le leggi che con abusiva estensione hanno costituito e moltiplicato delitti detti di lesa maestà, non tollerabili in nessuna ben regolata società» (1786). L'indeterminatezza oscura e tenebrosa dei «fatti» lo dilata oltre ogni pensabile misura. Sono vecchi testi che ce neparlano-i recenti lo dimenticano, pensandolo morto «istrumento di tirannide» -e sono all'improvviso attuali: «Conciossiaché,fai/o tul/o un fascio, sotto nome di delitti di lesa maestà [...] si estese il concetto e il nome anche alle maldicenze» (Antonio Pertile, Storia del diritto italiano. V, Torino, /892). E infine il solo parlare di cose di stato («affaire du prince») portava nel ducato di Savoia (XVJJ) a essere«pendus et étranglés». Questa violenta assolutezza del potere è l'anima stessadei «crimina» contro il principe; vediamo in questi giomi l'odioso sospetto con cui si parla di quanti avesserotentato una mediazione per salvare la vita di Aldo Moro. Mediatori inattesie indesiderati essisi sono arrogati interessi che sono «affaire du prince». Forse è sfuggita a qualcuno l'ipotesi fatta da Le Monde (avril 1979) che gli arrestatidel 7 aprile avessero tentatodi mediare traschieramenti omicidi. Allora che prove? Un ultimo ricorso all'erudito storico del diritto: « Eppure vi è ancora di peggio. Si semplificarono leforme del processo e, col pretesto di render questi più sollecito, si spogliò di ogni guarentigia l'inquisito. Non gli si comunicavano il nome del delatore, né le testimonianze o altre prove raccoltecontro di lui[ ...]. Pertanto l'inquisito erapressoché nell'impossibilità d'infirmare o distruggere gli indizi che stavano contro di lui, obbligato com'era a procedere a caso e a tentone[ ...]» (Pertile, p. 474). Pare descrizione di eventi di cui si è leuo in questi mesi. Crimenlese e sue prove sono tutt'uno: imputazione barbara, prove barbare, giudizio di Dio. Così perché stupirsi di come gli inquisitori procedono: non è loro «mala voluntas» o perfidia - anzi - ma è che inquisiscono di «crimen maiestatis». li trauma psichico (ma se trauma implica violenza perché questa violenza sì ed altra no? Il monopolio dello Stato solo crinale) usato contro l'imputato («Quando parla così, professore, mi sembra proprio il brigatista che telefonava alla signora Moro») è lecito perscorso funebre di Buback. la documentazione autobiografica di Bommi Baumann. il procedimento disciplinare contro Peter Brueckner e moltissimi altri esempi mostrano la medesima tendenza: la costruzione di un campo di circostanze di fatto completamente nuovo. una specie di colpa per il contatto anche solo .letterario con determinati oggetti e determinate persone. Ad Hannover è stato minacciato di provvedimenti disciplinari un assistente che. in una lezione pubblica. si era proposto di fare ricerche sulle connessioni del terrorismo. causato dalla miseria sociale. nelle famiglie e nei cortili delle case - con evidente accostamento alla affermazione di Heinrich Zille secondo cui una casa può ammazzare un uomo esattamente come un colpo di scure. Un secondo caso. più innocuo nelle conseguenze. ma egualmente significativo. è accaduto nel mio più vicino entourage. Nei confronti di una discussione. curata da me. con l'incauto ché anche la tortura era procedimento di prova («La tortura infame crogiuolo della verità»). Trenta, quaranta giorni d'isolamento disperante perché l'inquisito giunga «rotto» (se non nelle membra certo nellapsiche) di fronte al potere della legge. Anche questo giova alla prova regina, la confessione. È la confessione che si vuole («li principale testimone contro Negri è Negri stesso»), confessione che tutto imbianca e soddisfa, e pacifica gli inquisitori, e li libera da responsabilità e, forse, timori. Se l'imputazione è roba da ancien régime anche le prove ci andranno dietro. Si ritorna al sistema della prova legale (e lo si mischia con quello della prova libera). Poche regole formali e insieme lavorio perché le «prove» confermino comunque la presunzione di colpevolezza. E dalle prove legaligiù a teorizzare le prove privilegiate: più l'imputazione è grave (e quale più grave del crimenlese?) e meno si va per il sottile, e più la presunzione di colpevolezza si fa grave, con le massime «in atrocissimis leviores» (basta poco per condannare!) e «licei iudici iura transgredi». È la «maiestas» ch'è in gioco, oggi la «democrazia». E l'unica prova è la prova di sé, è la «maiestas» stessa. Ma la democrazia maiestatica c'è come democrazia solo se non macchiata da imputazioni da ancien régime. Se prova di sé, allora non queste prove. Altrimenti anche la prova ontologica della colpevolezza degli inquisiti, la bontà democratica, «bonum supremum» crollae trascinaseco prova di sé eprove dell'avversità ad essa. Resta solo galera e repressione. La «maiestas» di un potere facilmente vulnerabile perché fragile e privo di consenso si fa irosa in tempo di crisi, meschina e vendicativa, sprovvista di ogni residuo di magnanimità. Il cetopolitico che hafallo increspare la fronte sudaticcia del potere burocratico, che lo ha fatto specchiare nella sua pochezza difficilmente può sottrarsi alla vendei/a. L'ombra ostile grava sul ceto critico - teorico e pratico - estraneo 'filosoficamente' ai burocrati vestiti in modo uniforme o meno e agli operatori dello sfruttamento. li ceto di quanti si portano nel cuore dèvoto rispello al- /' autorità comunque manifesta. È lesa la maestà della «democrazia», l'ordito ordinato che riposa sull'etica del lavoro, le forme dello sfruttamento presentatecome sacrosante. Il cetopolitico che si è costituito in criticaauiva del lavoro oltraggia l'elemento sacrale del potere borghese, il lavoro e la sua gerarchia e la sua morale. Sono i fondamenti stessi dell'ordinamento borghese, la sua «maiestas»,la mascherasolenne della democrazia. L'attacco all'utopia politica del capita/e, al mito democratico della eguaglianza equivale oggi alla criticadel/'origine divina del potere regale. Gli imputati sono perciò congiurati, da inquisire con istruttoriaesemplare, con istruttoria che manifesti il supremo potere delle leggi, la loro indifferenza alla ragione. Istruttoria spettacolare che si svolge come sul palco d'un patibolo ove gli inquisiti sono tradoui a monito terribile. Ove meno le prove sono ratitolo di «Astuzia della violenza». una ricerca radicalmente sociologico-filosofica dei movimenti rivoluzionari. un collega ha sollevato l'obiezione che essa fosse in tutto e per tutto una propaganda della violenza; non è stato in grado di provarlo in nessuna frase, ma ho potuto dedurre dai suoi argomenti che gli sarebbe andato tutto bene. se, alla dissertazione. fosse stata premessa una chiarificazione personale dell'estensore. con le seguenti parole. pressappoco: «Qui io mi distanzio espressamente dalla Rivoluzione Francese e dalla Guerra di Indipendenza algerina. Mi occupo del tema della violenza espressamente con il proposito di svelare le rivoluzioni come strade sbagliate dello sviluppo umano». Non so se sia anche solo pensabile una cosa del genere in un altro paese civilizzato. In tutti i casi. a me noti. di censura. che contengono capi d'accusa sulla base dei cosiddetti «paragrafi della violenza» del codice penale. si tratta della creazione di zone tabù e della gionevoli e meglio riluce il potere delle leggi. L'istruzione diviene nell'affare del 7 aprile produzione di prove come in ogni «misfatto» contro il potere. Proprio perché organizzazione delpotere - il cui nucleo è la privazione di potere dell'inquisito - l'istruttoria produce prove. Nel senso che produce-esibisce come prove brandelli di fatti, e per il solo esibirli così (come momento di potere) li produce-trasforma in prove. Essenziale, perché le «prove» si producano, è che il rapporto di potere sia palese, che gli inquisiti siano in catene; ogni giorno chepassa le «prove» maturano. L'istruttoria solenne è la loro linfa. In luogo ben visibile sono collocati gli inquisiti, nel centro della piazza del villaggio, nel centro del piccolo schermo e delleprime pagine dei quotidiani: lì si celebra il vero giudizio, il pre-giudizio. li duello-giudizio di potere non si celebra qui nella pena, ma nell'istruzione-spettacolo; è qui che i ribelli, i «sovversivi» devono essere vinti-umiliati: con accusegravide di disumanità, con prove vane e proprio per questo decisive. La durata stessa dell'inquisizione fornisce al pubblico la misura della gravità del «crimen», lo amplia e rassoda, rende quasi ultima e ovvia conseguenza la condanna, inevitabile momento notarile. Gli imputati - già come tali - divengono così bene sociale, sono individui di pubblica utilitàin quanto - dal palco patibolare dei media - mostrano i loro errori (siache parlino sia che tacciano), mostrano ciò che più profondamente è vietato in una democrazia fondata sul lavoro. È proprio in questo «prendere tempo», nel non far seguire al moderno crimen/ese la pena, che consiste il più utile castigo. La vera esecuzione è l'istruttoria mirabile. Non c'è nessuna legge da ristabilire perché se ci fosse legge, per farla agire, occorrerebberq fatti (eprove!). Qui invece si ristabilisce - e subito - un rapporto esemplare di potere. Dovere democratico è partecipare allo spettacolo inquisitorio di rieducazione. Da qui può partire la risposta, non disinteresse ma rifiuto motivato come legalità:fuori le prove, giudizio subito. Maproprio perché risposta tatticaesige che non ci si creda, che non ci si faccia illusioni, che si esplori una strategia. Ebbene la strategia è chiara sin dal momento in cui leparole dei riformatori seuecenteschi ci parevano «auspici per un nostro migliore futuro». Sino a quando accetteremo che nel- /' ordinamento dello Stato si annidino queste figure di reato, rammodernate forme di crimenlese, non potremo che attenderci di vederle messe in agire, secondo i tempi scanditi dalla crisi economica e sociale. li bersaglio evidente è che le norme in forza delle quali gli imputati del 7 aprile sono in galerasiano «cassate». interruzione di contatto con un gran numero di oggetti rimossi dalla coscienza pubblica al fine di sottrarli al sole della politica. [...] Nella censura. per quanto concerne la documentazione letteraria. le esposizioni e le analisi scientifiche, nelle attuali condizioni della Repubblica Federale, io vedo uno strumento essenziale per indebolire la esperienza critica della gente e l'articolazione dei suoi interessi vitali nel medium di forme collettive di una sfera pubblica antagonistica e politica e, con ciò, uno strumento essenziale per restaùrare. con le proiezioni d'angoscia, il consenso sociale generalizzato sui livelli di una a-politica lealtà allo stato, come esisteva nel dopoguerra e rischia di frantumarsi oggi. In ciò consiste una delle funzioni più importanti delle misure censorie. Il cosiddetto pre-giudizio sull'arte non sfugge a questo soffocante conformismo che istituiscegare di apoliticità; magistrati e avvocati di stato definì-
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