Alfabeta - anno I - n. 5 - settembre 1979

Chi fa la letteratura? Roberto Di Marco Giancarlo Ferretti Il mercato delle lettere Torino, Einaudi, 1979 pp. 248, L. 8.000 11mio argomento - seguendo Kraus grande critico primonovecentesco della società e della cultura europea - è questo: «Un tempo il calzolaio aveva un rapporto personale con i suoi stivali; oggi il poeta non ne ha nessuno con le sue esperienze»; e ciò per la ragione che «Non ci sono più produttori, oramai ci sono solo rappresentanti» (Detti e Contraddetti, Milano, Adelphi, 1972, p. 121). Non si tratta del semplice problema della mercificazione capitalistica di ogni produzione intellettuale e artistica: ora le cose sono andate ben oltre, poiché, come è noto a tutti, gli stivali non li fa più il calzolaio. La famosa domanda sartriana del 1947, «che cos'è la letteratura?», nelle condizioni attuali deve porsi cosi: chi fa la letteratura? E per dare risposta a una simile domanda occorre tornare sul rapporto tra letteratura e mercato con ogni attenzione agli sviluppi recenti del capitalismo nel settore della produzione intellettuale-artistica, e alle ragioni del processo in atto di degradazione, e tendenziale scomparsa che la letteratura e l'arte, nonostante ogni apparenza, in quegli sviluppi subisce. Il mio argomento dunque è: a) rispetto al dibattito degli anni Sessanta e anche a studi recenti (il più attuale e dettagliato è lo studio di Ferretti a cui mi riferirò più oltre) occorre essere più radicali nell'analisi; b) ancora per luoghi anni sarà necessario lavorare nella contraddizione, cioè nella crisi d'identità piena dell'intellettuale-artista non filisteo. L'indagine di Ferretti Per rispondere alla domanda proposta, lo studio di Ferretti reca un apporto sicuramente utile, almeno nella sua parte di cronaca ragionata (e da ragionare ora più a fondo e diversamente). G. C. Ferretti, classe 1930, critico letterario di Rinascita (settimanale del P.C.1.), è docente universitario e dirigente editoriale (gestisce l'ufficio milanese degli Editori Riuniti, casa editrice del P.C.1.), e proviene dalla scuola più rigorosa (quella di Luigi Russo) dello storicismo culturale crociogramsciano. Negli anni Sessanta ha indagato gli sviluppi e le possibili alternative alla crisi della letteratura italiana post-resistenziale, neorealistica e nazional-popolare, incentrando la sua attenzione specialmente su BassaniCassola-Pasolini e sul gruppo della rivista Officina. Alla rivista bolognese (edita dal 1955 al 1958, redatta inizialmente da F. Leonetti, P. P. Pasolini e R. Roversi ai quali s'aggiungono poi F. Fortini, A. Romanò e G. Scalia, ma del gruppo come tale partecipa anche P. Volponi) Ferretti ha poi dedicato un accuratissimo studio con ampia antologia della rivista stessa (Torino, Einaudi. 1975). A Ferretti critico preme sempre situare il lavoro intellettuale e artistico entro i processi economicosociali e politico-culturali e ideologici. e individuare, dunque, il ruolo sociale e culturale e produttivo che il lavoro intellettuale effettualmente svolge. e ravvisare quindi i termini reali del rapporto storicamente dato tra testo e contesto. com'egli ama dire. Questo è anche il tema generale del suo studio più recente (Ilmercato delle lettere. appunto). Con più esattezza: «Il rapporto tra industria editoriale e dell'informazione e critica letteraria non è che un livello specifico del rapporto più generale tra processi di produzione e distribuzione culturale e organizzazione del lavoro intellettuale; sì che nella trasformazione dell'uno si ritrovano le linee di fondo della trasformazione dell'altro (e viceversa)». Muovendo da una siffatta dichiarazione d'intenti (ma i problemi esaminati sono poi più complessi). l'autore dedica la prima parte del libro a una cronaca critica delle trasformazioni che in Italia ha vissuto l'industria editoriale dagli anni Cinquanta ad oggi: dall'epoca che Ferretti. secondo me impropriamente. definisce delle «due culture» e cioè della distinzione netta tra cultura «per il popolo» e cultura «alta» (distinzione che invece è da considerare come una invariante del sistema culturale borghese sempre) sino all'epoca attuale della cosiddetta «cultura di massa». La seconda parte del libro è piuttosto dedicata ad un esame del rapporto di adattamento o funzionalizzazione o contraddizione che con l'industria editoriale hanno tenuto la critica letteraria e la letteratura in se stessa. Ma riguardo ai temi di fondo del libro la distinzione tra prima e seconda parte non è mai netta, essendo i problemi in definitiva sempre gli stessi. Pur esaminando la «profonda trasformazione [che] investe l'intera organizzazione del lavoro intellettuale, con una marcata divisione e parcellizzazione dei vecchi ruoli, che significa anche liquidazione dei vecchi margini di 'indipendenza' parziale o presunta» (p. 31), il tema che in realtà sta più a cuore a Ferretti è: «Come opera in questo quadro la critica letteraria organica (o alleata) al movimento operaio organizzato?»; ed è in relazione a tale tema che egli lamenta più volte e in vari modi il «distacco tra livello intellettuale e livello politico» (pp. 12 e 13). E mentre critica tale distacco in critici e letterati, distacco che si manifesta poi specialmente a metà degli anni Settanta nelle posizioni (e nel dissenso) che molti intellettuali assumono riguardo alle proposte del P.C.I. dinanzi alla grave crisi del Paese ( 1), vari rilievi Ferretti muove alla critica letteraria «organica» (o «alleata»: al «movimento operaio organizzato», si capisce) e alla stessa politica culturale del P.C.I. Ma dal cuore del problema egli si mantiene distante; altrimenti non si spiegherebbe, per esempio, come mai nel suo studio Ferretti, pur facendo in sostanza la storia di tre generazioni d'intellettuali italiani, dedichi così poca attenzione analitica alla storia e alle posizioni e al ruolo di Vittorini (non avrebbe meritato un intero capitolo, più di Cassola e della Morante?); né si spiegherebbero varie omissioni e rimozioni nel riferire dibattiti e posizioni (le posizioni di Sciascia, altro esempio). E il cuore del problema è: per quale ragione gli intellettuali ialiani, anche quelli «organici» o «alleati», e nonostante la Resistenza, hanno sempre preferito, nella loro stragrande maggioranza, delegare ai «politici» la politica? quali, cioè, le ragioni (non soltanto strutturali - la separatezza, nella divisione sociale data del lavoro e dei ruoli - ma anche politiche e ideologiche) di «quel distacco»? Ferretti dice: «In sostanza si può dire che, nonostante la sua partecipazione spesso attiva e concreta a certe lotte del movimento operaio e dello schieramento d'opposizione in Italia. la critica letteraria di sinistra ( e perfino quella più consapevolmente orientata in direzione del marxismo) non riesce a diventarne una punta avanzata all'interno del mondo della produzione editoriale: con ciò riflettendo altresl - evidentemente - carenze e limiti ideali e politici dell'intellettualità di sinistra in generale e del movimento nel suo complesso». (p. 14). Ciò è esatto; benché dal mio punto di vista debba invece riconoscersi che la «critica letteraria di sinistra» a cui l'autore si riferisce è stata, nel mondo della produzione editoriale e nel sistema culturale esistente, «una punta avanzata» (che però badava anche agli affari suoi) del «movimento operaio organizzato»: e cioè di una certa politica culturale e di una certa verità sociale (o, riduttivamente, ideologica) da affermare in competizione (per l'egemonia cosiddetta) con altre. Il problema è dunque più radicale ed esteso di quanto Ferretti non ponga; perciò egli non ricerca i motivi delle stesse constatazioni giuste che espone. Con ciò non intendo affatto assolvere la «intellettualità di sinistra» per le sue carenze e i suoi limiti nella storia d'un trentennio: dico che si tratta di ben altro, e che è giunto il momento per esaminare quale sia stata e sia tuttora la vera natura sociale di quella intellettualità e della «cultura di sinistra» in generale nel sistema culturale e produttivo dato e in relazione col sistema politico esistente. Ecco perché è grave nel libro di Ferretti la mancata analisi delle posizioni e del ruolo di Vittorini, a tacere del resto. Vittorini, a suo modo, i problemi di fondo li aveva posti. E non è un caso che Ferretti, ma con breve accenno, a Vittorini come «modello» contrapponga Pavese (p. 174). Ad esser precisi, Ferretti il problema di «quali sono le vere ragioni di fondo delle carenze ecc.» qua e là se lo pone; e la sua risposta è: «tutto ciò deriva ... da una mancata analisi critica e mancata pratica sociale specifiche nei confronti dei processi reali» (pp. 79-80). Nel senso che la «intellettualità e critica militante» «si esaurisce sostanzialmente sul prodotto finito dell'industria culturale capitalistica, senza porsi il problema di un'analisi e trasformazione dei modi di produzione e distribuzione». Che è analisi giusta, emersa specialmente dai movimenti intellettuali del '68; ma, a miomodo di vedere oggi la questione, rimane ancora al di qua delle vere ragioni di fondo, specialmente se ci riferiamo alla critica culturale di sinistra corrente in Italia. Riferimenti utili non presenti in Ferretti NelJ'ambiente intellettuale italiano di tradizione umanista e storicista i meccanismi economico-politici elementari di condizionamento internoesterno dell'attività intellettuale e artistica, non sono stati ben studiati. Per dirla con Ferretti: i testi non sono stati studiati nel loro essere processi e insieme prodoui. Ciò, a dirla schietta e a parte le varie ragioni che Ferretti esamina, discende oltretutto da una conoscenza abbastanza sommaria, presso quell'ambiente, dei processi economico-politici (in generale ritenuti non pertinenti, oppure demandati ad altra sede, politica o sindacale). E anche per questa ragione è da accogliere come utile, nel suo insieme, lo studio analitico di Ferretti, che pone problemi i quali erano stati trascurati dai più. In generale, benché quasi mai trascuri i suoi conti, l'intellettuale italiano di tradizione umanista e storicista, che sia «organico» oppure no, quando deve (o si -propone di) illustrare le condizioni tecnico-materiali e sociali del proprio stesso lavoro, nori sa che pesci prendere. Salvo rare eccezioni, i ragionamenti svolti negli anni Sessanta da molti intellettuali sulle condizioni (entro i rapporti di produzione) e sulla funzione sociale del proprio lavoro costituiscono un campionario del non sapere che pesci prendere pur dovendo prendere posizione generalmente «anti-sistema». ( 2). In particolare, negli anni Sessanta sino ai primi Settanta, due problemi reali, peraltro tra loro connessi e da molti equivocamente intesi, divennero presto miti, e come tali tennero botta a lungo; mi riferisco ai problemi della mercificazione estetica e della proletarizzazione del lavoro intellelluale. Ricordiamone le matrici. La teoria della mercificazione estetica è di origine francofortese piuttosto che marxista rigorosa e fu introdotta nel dibattito letterario-culturale italiano degli anni Sessanta da Edoardo Sanguineti (3), entro una sua ideologia sociologica della letteratura e dell'avanguardia in ispecie. Rispetto ai temi storicisti e populisti precedenti (o tardo-lukàcsiani nelle punte più avanzate), ciò fu un buon passo avanti. All'incirca negli stessi anni, la teoria della proletarizzazione del lavoro intellettuale fu introdotta nel dibattito teorico-culturale di «Nuova Sinistra» da Gianni Scaliacon rigoroso riferimento di tipo marxista critico. Anche in questo caso l'effetto fu chiarificatore e innovativo rispetto ai termini precedenti; ma il problema negli anni successivi fu poi molto dibattuto. ( 4). Con analisi critico-empirica molto accurata intervenne sul tema dell'organizzazione del lavoro intellettuale Simonetta Piccone Stella ( 5) delucidando in concreto quali fossero in Italia da molti anni i termini reali dei processi di funzionalizzazione e subordinazione dei lavoratori intellettuali nel settore della produzione culturale. Già risultava dall'analisi di S. Piccone Stella, con maggiore semplicità e chiarezza di quanto risulti dallo studio di Ferretti, che la letteratura (quella che circola nel «mercato delle lettere», cioè l'unica possibile e reale) la fa l'industria culturale giovandosi di operatori e specialisti privilegiati oltre che di un'ampia manovalanza intellettuale sottoprivilegiata. Ferretti piuttosto esamina la storia italiana recente dei rapporti tra industria editoriale e operatori letterario-culturali specialisti, con attenzione alle carenze e ai limiti cli natura ideologica e politico-culturale di questi ultimi e dedica invece ben poca attenzione alla materialità dei rapporti di produzione specifici. E riguardo alla materialità dei rapporti di produzione specifici tra intellettuale-artista o critico e industria editoriale e mercato, sarebbe stato utile riesaminare col necessario rigore anche fenomenologico e descrittivo il problema della mercificazione estetica, inteso come problema di rapporti dati. Ciò Ferretti non fa, nonostante il titolo stesso del suo libro e benché consideri a lungo i tascabili, i best seller italiani recenti, il caso Morante e altri casi consimili. Ma la questione della mercificazione estetica, benché allora divenuta subito riferimento d'obbligo nei dibattiti, dopo essere stata posta dai marxisti della nuova avanguardia letteraria di Gruppo 63, non fu sufficientemente approfondita e studiata nei suoi termini specifici (che sono economico-politici) e nei suoi sviluppi ( 6). Ora, avvalendosi d'un arsenale metodologico che è politico-culturale è sociologico in senso generico di tradizione italiana, Ferretti svolge un'analisi che vuole essere economica-politica, ma tale non è, data l'assenza, nell'analisi, cli ogni sia pure elementare griglia concettuale economico-politica specifica. Egli non rinuncia tuttavia al punto di vista critico-letterario ·cdi sinistra» solito, e insieme di generica sociologia della cultura. E le cose, io dico, si impasticciano un po', mentre le questioni vere - economiche strette e letterarie specifiche - le quali stanno a monte dei processi che egli descrive criticamente con cura, rimangono appunto «a monte>, sottaciute o neanche prese in considerazione: per esempio, il nesso tra concentrazione editoriale e internazionalizzazione dei processi di produzione della carta e dell'informazione (7). Egli ci dà una storia accurata della formazione di una moderna industria editoriale in Italia, dalla fase «artigianale» post-bellica alla fase modernamente capitalistica recente, e dei rapporti con essa della critica letteraria specialmente «militante> e di una certa letteratura in se stessa ( 8). Ma dei processi che descrive non esamina le condizioni economico-politiche cli fondo, né della letteratura e delJacritica letteraria esamina in modo soddisfacente le profonde trasformazioni intanto avvenute. L'analisi che svolge, cioè, nonostante sia anche utilmente critica e autocritica, non riesce ad essere radicale come dovrebbe, data la gravità e la profondità dei problemi che stanno a monte. Allora la critica delJ'economia politica della letteratura in sensomarxiano o ripreso da Marx, cosa significa? essa non si esplicita né come retroterra teorico-analitico rigoroso (infatti non produce, in Ferretti, alcuna attrezzatura concettuale specifica) né tantomeno come programma di lavoro. A questo proposito c'è un luogo di Marx in Teorie del plusvalore che va inteso alla lettera e in profondo: cii modo di produzione capitalistico è ostile a certi settori della vita spirituale, quali le arti figurative e la poesia>. Altrettanto alla lettera e in profondo - sempre a proposito di critica dell'economia politica della letteratura - va inteso il seguente altro luogo di Marx (questa volta nei Grundrisse): «L'oggetto artistico - e allo stesso modo qualsiasi altro prodotto - crea un pubblico sensibile all'arte e capace di godimento estetico. La produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto ma anche un soggetto per l'oggetto. La produzione produce quindi il consumo a) creandogli il materiale; b} determinando il modo di consumo; c) producendo come bisogno nel consumatore i prodotti che essa ha originariamente creato come oggetti. Essa produce perciò l'oggetto del consumo, il modo di consumo e la propensione al con- ,umo. Allo stesso modo il consumo produce la disposizione del produttore. sollecitandolo in veste di bisogno che dà una finalità alla produzione>. Ed è, questo descritto. da Marx, il

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