Alfabeta - anno I - n. 1 - maggio 1979

~I linguai,lpotere,laforza Roland Barthes Leçon Paris, Seuil, 1978 pp. 46 (s.i.p.) Foncanlt: il potere e la parola a cura di Paolo Veronesi Bologna, Zanichelli, 1978 pp. 154, lire 2400 Georges Duby Les trois ordres ou Pimaginaire du féodalisme Paris, Gallimard, 1978 pp. 428, franchi 80 Michael Howard La pern e le armi nella storia d'Europa Bari, Laterza, 1978 pp. 308, lire 7500 11 7 gennaio 1977 Roland Barthes, davanti al pubblico folto delle grandi occasioni mondane e culturali, pronunciava la sua lezione inaugurale al Collège de France, dove era appena stato chiamato a tenere la cattedra di semiologia letteraria. Questa lezione, di cui avevano parlato i giornali di allora (Le Monde vi aveva dedicato una pagina intera) appare ora pubblicata dalle Editions du Seui!, sotto il titolo umile e orgogliosissimo di Leçon, poco più di una quarantina di pagine, e si· compone di tre parti. La prima parte verte sul linguaggio, la seconda sulla funzione della letteratura rispetto al potere del linguaggio, la terza sulla semiologia e la semiologia letteraria in particolare. Diciamo subito che non ci occuperemo qui della terza parte (che nella sua brevità imporrebbe tuttavia un'ai:npia discussione di metodo), e solo in scorcio della seconda. È la prima parte quella che pone, ci pare, un problema di portata assai più vasta. che va al di là e della letteratura e delle tecniche di indagine sulla letteratura, e tocca la questione del Potere. Questione che attraversa anche gli altri libri esaminati in scorcio da questo articolo. La lezione inaugurale di Barthes è costruita con splendida retorica e inizia con l'elogio della dignità di cui egli si appresta a farsi investire. Come forse è noto, i professori del Collège de France si limitano a parlare: non danno esami. non sono investiti del potere di promuovere o bocciare, si va ad ascoltarli per amore di quel che dicono. Di qui la soddisfazione (ancora una volta umile e orgogliosissima) di Barthes: io entro in un luogo che è fuori dal potere. Ipocrisia, certo, perché nulla conferisce più potere culturale. in Francia. che l'insegnare al Collège de France, producendo sapere. Ma qui stiamo anticipando i tempi. ln questa lezione (che come vedremo verte sul gioco col linguaggio), Barthes. sia pure con candore, gioca: avanza una definizione di potere e ne presuppone un'altra. Infatti Barthes è troppo sottile per ignorare Foucault. che anzi ringrazia per essere stato il suo patrono al Collège: e dunque sa che il potere non è «uno». che mentre si insinua là ·dove non lo si sente al primo colpo esso è «plurimo». legione come i demoni. «Il potere è presente nei meccanismi più sottili dello scambio sociale: non solo nello Stato, nelle classi. nei gruppi. e ancora nelle mode. le opinioni correnti, gli spettacoli, i giochi. gli sport. le informazioni. le relazioni familiari e private e persino nelle spinte liberatrici che cercano di contestarlo». Per cui: «chiamo discorso di potere ogni discorso che genera la colpa. e quindi la colpevolezza di chi lo riceve>. Fate una rivoluzione per distruggere il potere. esso rinascerà all'interno del nuovo stato di cose. «Il potere è il parassita di un organismo trans-sociale. legato alla storia intera dell'uomo. e non solo alla sua storia politica, storica. Questo oggetto in cui s'iscrive il potere, da tutta l'eternità umana, è il linguaggio - o per essere più precisi, la sua espressione obbligata: la lingua». Non è la facoltà di parlare che pone il potere, è la facoltà di parlare in quanto si irrigidisce in un ordine, in un sistema di regole, la lingua. La lingua, dice Barthes (con un discorso che ripete a larghi tratti, non so quanto consapevolmente, le posizioni di Benjamin Lee Whorf), mi obbliga a enunciare un'azione ponendomi come soggetto, cosi che da quel momento ciò che faccio sarà la conseguenza di ciò che sono; la lingua mi obbliga a scegliere tra maschile e femminile, e mi proibisce di concepire una categoria neutra; mi impone di impegnarmi con l'altro o attraverso il «voi» o attraverso il «tu»: non ho il diritto di lasciare imprecisato il mio rapporto affettivo o sociale. Naturalmente Barthes parla del francese, l'inglese gli restituirebbe almeno le due ultime libertà citate ma (lui direbbe giustamente) gliene sottrarrebbe altre. Conclusione: «a causa della sua stessa struttura, ta lingua implica una relazione fatale di alienazione». Parlare è assoggettarsi: la lingua è una reazione generalizzata. Di più: «non è né reazionaria né progressista, essa è semplicemente fascista; perché il fascismo non è impedire di dire, è obbligare a dire». Dal punto di vista polemico questa è l'affermazione che, sin dal gennaio 1977. aveva provocato più reazioni. Tutte le altre. che seguono. ne conseI .11cit1110 Berio guono: e non ci stupirà sentire dire, quindi. che la lingua è potere perché mi obbliga a usare stereotipi già preformati, tra cui le parole stesse, e che è cosi fatalmente strutturata che, schiavi al suo interno, non riusciamo a farcene liberi al suo esterno. perché nulla è esterno alla lingua. Come uscire da questo, che Barthes chiama sartrianamente «un huis clos»? Barando. Si può barare con la lingua. Questo gioco disonesto e salutare e liberatorio, si chiama letteratura. Di qui lo schizzo di una teoria della letteratura come scrittura, gioco di e con le parole. Categoria che non investe solo le pratiche dette letterarie ma può ritrovarsi operante anche nel testo di uno scienziato o di uno storico. Ma il modello di questa attività liberatoria è alfine per Barthes sempre quello delle attività cosiddette «creative» o «creatrici». La letteratura mette in scena il linguaggio, ne lavora gli interstizi, non si misura con degli enunciati già fatti ma con il gioco stesso del soggetto che ·enuncia, scopre il sale delle parole. Sa benissimo che può essere ricuperata dalla forza della lingua, ma proprio per questo è pronta ad abiurarsi, dice e rinnega ciò che ha detto, si ostina e si sposta con volubilità, non distrugge i segni, li fa giocare e li gioca. S e e come la letteratura sia liberazione dal potere della lingua dipende dalla natura di questo potere. E su questo Barthes ci è sembrato evasivo. D'altra parte egli ha citato alfabeto n.1, maggio,1979, pagina 3 Foucault, non solo come amico, e direttamente, ma anche indirettamente in una sorta di parafrasi, quando ha detto le poche frasi sulla «pluralità» del potere. E la nozione che Foucault ha elaborato del potere è forse I~ più convincente oggi in circolazione, senz'altro la più provocante. La ritroviamo, costruita passo per passo, in tutta la sua opera. A ripercorrerla, e ad abbordarla per la prima volta, ecco il recente libretto curato da Paolo Veronesi, Foucault: il potere e la parola. Recentemente sull'Espresso scrivevo contro la nozione di antologia, come di lavoro parassita. Ma precisavo ohe, in sé, l'antologia è pratica utile e onesta e mi accanivo solo contro le antologie mascherate da libri originali o contro le antologie pirate. Questa non è né l'una cosa né l'altra, e dunque è una antologia «buona», costruita in modo da insegnare a percorrere lo sviluppo del pensiero di Foucault. Ora, attraverso il differenziarsi, da opera a opera, dei rapporti tra potere e sapere, tra pratiche discorsive e pratiche non discorsive, si disegna chiaramente in Foucault una nozione di potere che ha almeno due caratteristiche che in questa sede ci interessano: anzitutto, il potere non è solo repressione e interdizione, è anche incitamento al discorso e produzione di sapere; in secondo luogo, come accenna anche Barthes, il potere non è uno, non è massiccio, non è un processo unidirezionale tra una entità che comanda e i propri soggetti. «Bisogna insomma ammettere che questo potere lo si eserciti piuttosto che non lo si possieda, che non sia il "privilegio" acquisito o conservato dalla classe dominante, ma effetto d'insieme delle sue posizioni strategiche - effetto che manifesta e talvolta riflette la posizione di quelli che sono dominati. D'altra parte questo potere non si applica puramente o semplicemente come un obbligo o un'interdizione, a quelli che "non l'hanno"; esso _li investe, si impone per mezzo loro e attraverso loro; si appoggia su di loro, esattamente come loro stessi, nella lotta contro di lui, si appoggiano a loro volta sulle prese che esso esercita su di loro» (Sorvegliaree punire). Ancora: «Con potere non voglio dire "li Potere", come insieme di istituzion_ie di apparati che garantiscono la sottomissione dei cittadini in uno Stato determinato( ...] Con il termine potere mi sembra si debba intendere innanzitutto la molteplicità dei rapporti di forza immanenti al campo in cui si esercitano e costitutivi della loro organizzazione; il gioco che attraverso scontri e lotte incessanti li trasforma, li rafforza, li inverte; gli appoggi che questi rapporti di forza trovano gli uni negli altri, in modo da formare una catena e un sistema o, al contrario, le differenze, le contraddizioni che li isolano gli uni dagli altri; le strategie infine con cui realizzano i loro effetti, ed il cui disegno generale o la cui cristallizzazione istituzionale prendono corpo negli apparati statali, nella formulazione della legge, nelle egemonie sociali». li potere non va cercato in un centro unico di sovranità ma nella «base mobile dei rapporti di forza che inducono senza posa, per la loro disparità, situazioni di potere, ma sémpre locali e instabili [...]Il potere è dappertutto, non perché inglobi tutto, ma perché viene da ogni dove [...] Il potere viene dal basso [...] non c'è, alla origine delle relazioni di potere, e come matrice generale, un'opposizione binaria e globale tra i dominanti e i dominati [...] Bisogna immaginare piuttosto che i rapporti di forza molteplicì che si formano ed operano negli apparati di produzione, nelle famiglie, nei gruppi ristretti, nelle istituzioni, servono da supporto ad ampi effetti di divisione che percorrono l'insieme del corpo sociale» (La volontà di sapere). Ora questa immagine del potere richiama da vicino l'idea di quel sistema che i linguisti chiamano lingua. La lingua è, si, coercitiva (mi proibisce di dire «io vorremmo un come», pena l'incomprensibilità), ma la sua coercitività non dipènde da una decisione individuale, né da alcun centro da cui le regole si irradino: è prodotto sociale, nasce come apparato costrittivo proprio a causa del consenso di tutti, ciascuno rilutta a dover osservare la grammatica ma vi consente e pretende che gli altri l'osservino perché vi trova il suo comodo. Non so se potremmo dire che una lingua è un dispositivo di potere (anche se proprio a causa della s.uasistematicità essa è costitutiva di sapere), ma è certo che del potere essa è un modello. Potremmo dire che, apparato semiotico per eccellenza o (come si esprimono i semiotici russi) sistema modellizzante primario, essa è modello di quegli altri sistemi semiotici che nelle varie culture si stabiliscono come dispositivi di potere, e di sapere (sistemi modellizzanti secondari). In questo senso Barthes ha quindi ragione a definire la lingua come qualcosa connesso col potere, ma ha torto a trarne due conclusioni: che pertanto la lingua sia fascista e che sia «l'oggetto in cui si iscrive il potere», ovvero la sua minacciosa epifania. Liquidiamo subito il primo, e chiarissimo, errore: se il potere è quello definito da Foucault, e se le caratteristiche del potere si ritrovano nella lingua. dire che la lingua è per questo

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