Alfabeta - anno I - n. 1 - maggio 1979

Mensile di informazione culturale Maggio 1979 Numero 1 - Anno I Lire 1.000 Redazione. amministrazione Multhipla edizioni 20137 Milano Piazzale Martini 3 Telefono (02) 592. 684 Spedizione in abbonamento postale gruppo III/70 Printed in ltaly CLENCRANT il puro\\bisky di puro maltdo'orzo. • • :L' ano gaa e res unmone : Cases, la f iadelmacellaio e a otecnocrazia • ~ ...___._....~ __ ..... ~===-=- La I~ della iov 1lo e li • -~ • I Dachau• I I .. • SU I ~ • l'àlicloso * ~ . .

Sommario Editoriale pagina 2 Roberto Masotti Tavoli e foto pagina 2 Umberto Eco La lingua. il potere. la forza (Leçon, di R. Barthes Foucault: il potere e la parola, a cura di P. Veronesi Les trois ordres ou l'imaginaire du féodalisme, di G. Dufy La guerra e le armi nella storia dell'Europa, di M. Howard) pagina 3 Augusto Graziani Le inclinazioni del Piano triennale (Il Piano triennale) pagina 5 Pier Aldo Rovatti Il Lacan dei seminari (Il seminario. Libro I, di J. Lacan 1956-/959. Seminari di Jacques Lacan, a cura di J. B. Pontalis La scission de 1953, a cura di J. A. Miller • Lacan et la réthorique de l'incoscient, di A. Kremer-Marietti) pagina 6 Daniel Lagache La scissione pagina 7 Francesco Leonetti In un vuoto di rivoluzione (Quel che deve cambiare nel partito comunista, di L. Althusser Sulla dittatura del proletariato, di E. Balibar Il pianeta irritabile, di P. Volponi) pagina 8 Patrizia Vicinelli Non sempre ricordano poesia pagina 8 Mario Spinella Capirsi a Dachau (Deviazione, di L. d' Eramo A colloquio con l'autrice di «Deviazione», di I. Bignardi Luce d'Eramo parla del suo romanzo «Deviazione», di G. Massari) Pagina 10 Renato Barilli L'antologia della restaurazione (Poeti italiani del Novecento, di P. V. Mengaldo) pagina 11 Giuliano Gramigna La lingua della giovane poesia (La casa di Arimane, di D. Ferla Esercizi I, di R. Giorgi Piumana, di C. Viviani Minusgrafie, di C. Ruffato I sensi meravigliosi, di A. Maugeri La parola innamorata, a cura di G. Pontiggia e E. Di Mauro) pagina 12 Maria Corti Gli infiniti possibili di Manganelli (Centuria, di G. Manganelli) pagina 14 Ugo Volli I mondi impossibili della fantascienza (La storia della fantascienza, di J. Sadoul Mondi interiori - Storia della fantascienza, di A. e C. Panshin All'ombra degli dei, di autori vari La spada di Shannara, di T. Brooks Il signore degli anelli, di J. R. R. Tolkien Il Silmarillion, di J. R. R. Tolkien La botanica parallela, di L. Lionni) pagina 15 Franco Bolelli Non è solo Rock and roll (Velvet Underground & Nico, dei Velvet Underground White Light White Heat, dei Velvet Underground First Album, dei Fugs Aftermath, dei Rolling Stones The Doors, di J. Morrison Are You Experiences, di limi Hendrix Metal Machine Music, di Lou Reed Horses, di Patti Smith Radio Ethiopia, di Patti Smith Waves, di Patti Smith Live at CBGB's, di Gruppi Vari) pagina 16 Patti Smith La tua tribù poesia (Traduzione di Antonio Porta) pagina 17 Cesare Segre Cases. la figlia del macellaio e la logotecnocrazia (Il poeta e la figlia del macellaio, di C. Cases Insegnare la letteratura, a cura di C. Acutis) pagina 18 Marina Valcarenghi Verdiglione supercalifragilistichespiralidoso (La dissidenza freudiana, di A. Verdiglione La psicanalisi questa mia avventura, di A. Verdiglione) pagina 19 Giornale dei giornali Il conflitto cino-vietnamita a cura di Jndex-Archivio Critico dell'Informazione pagina 21 I • Editoriale A lfabeta è un mensile di cui appariranno undici numeri ali'anno (non d'agosto perché sarebbe difficile convincere edicolanti di sperdute stazioni balneari e montane a esporre la rivista). Alfabeta si presenta come giornale di recensioni. In senso lato: si recensiranno libri, ma anche articoli, documenti, film, eventi 1eatrali,mostre. Diciamo che il punto di partenza sarà sempre dato da qualcosa che in qualche modo circola e che il lettorepuò reperire; ma poi si parlerà anche di altro. Anzitutto Alfabeta non è un notiziario, non parlerà di tutto quello che accade, ma solo di quello di cui redazione e collaboratori riterranno utile parlare. E, specie recensendo libri, si partirà da libri che consentano di parlare di altri libri. Per questo (anche se non si escludono le recensioni singole) si avranno di solito recensioni multiple: discorsi itineranti attraverso libri (o altri eventi) diversi, ovvero attraverso campi di problemi. Accadrà che una recensione possa mettere insieme un romanzo, una serie di saggi critici e un manuale di biologia. Se accadrà, saràperché il collaboratore ritiene che da direzioni diversedel discorso culturale emerge uno stessoproblema, una linea di tendenza, e oggetto dell'articolo saràproprio quel problema. Anche se i libri o gli altri eventi non dovranno servire di mero pretesto: se si parlerà di qualcosa è perché quel qualcosa ha stimolato l'avvio della discussione. Per il resto, letture trasversali. Qualcuno potrebbe suggerire:letture di desiderio, letture di godimento. Non necessariamente. Letture di necessità, piuttosto, perché i libri non vivono da soli, stabiliscono dei riferimenti, richiamano un tessuto intertestuale,parlano proprio perché fanno parlare accanto, dietro, davanti a loro altri testi. Non voremmo escludere che, recensendo un libro attualissimo,. appena uscito, si recensisca nello stesso «pacchetto» di proposte anche l'Odissea o il Codice Napoleonico. Maperché partireproprio da eventi e non da grandi interrogativi? Per avere una giustificazione, per farsi perdonare in nome dell'informazione culturale il desiderio di abbordare una questione che magari ossessionava l'autore da anni? Qui dobbiamo spiegare una scelta di metodo pratico che però rivela anche una sceltaculturale e politica più profonda. Quando abbiamo pensato a un lettore ideale ci è venuto in mente il lettore della generazione che si vuole definire come postsessantottesca; a proposito della quale rifiutiamo di parlare, con un termine troppo alla moda, di generazione del riflusso. Non neghiamo che politicamente si stia vivendo una svolta conservatrice. Neghiamo che questo momento che coinvolge le classi dirigenti di tutta Europa, e del mondo intero, implichi necessariamente e per tutti una fuga nel non politico, nel neo-religioso, nel neo-magico. Implica, questo è vero, un momento di letture disordinate e personali, in cui ciascuno si rimette a fare i conti col sapere, sia esso la produzione poetica, la filosofia, gli studi storici, la psicoanalisi o quanto altro vorrete. È come se una grande illusione di attività fresca e frenetica, che poteva liquidare il «già detto» come inutile, abbia lasciato il posto al bisogno di leggere o rileggerequanto era stato detto e quanto è ancora da dire, anche quando è stato detto da coloro che non si ritenevano della propria parte. Questo per noi non è riflusso, è momento assai utile e importante di riflessione critica. . Riflessione critica vuol dire in prima istanza cercare di ricollegare membra sparse di discorsi che non si erano ascoltati o si ascoltavano troppo in chiave (ideologo capitalista,pensatore rivoluzionario, poeta democratico, reazionario inguaribile, e tutti gli altri cliché che vi verranno in mente), per cercarci altre connessioni, vedere da dove vengono e dove ci sembra che vadano. Chiameremo allora le nostre pseudo-recensioni esperimenti di rilettura fatti tra i banchi di una libreria o di una biblioteca circolante (o delle pagine della riviste e dei giornali). Queste i". alfa)J.IJ!p 'm'l!,',nwggio.,J.IJ.7'9;:,pa'g.2n)o riletture saranno fatte dai redattori o dai collaboratori più vari (faremo in modo che siano molti, e di diversa estrazione) ogni volta che gli stessi redattori e collaboratori, più che insegnare a rileggere, vorranno imparare essi stessia rileggereo a leggereper laprima volta qualcosa. Non si tratta di una espressione ipocrita, di una ostentazione di falsa umiltà. Anzi c'è molto orgoglio in quello che stiamo per dire. Visto che il nostro editore è disposto a rischiare almeno per un anno, vogliamo prenderci il gusto e il lusso, ogni volta che vorremmo capire meglio qualcosa, di commissionare un articolo- invece di andarlo a cercare in edicola. Poi se l'articolo non convincerà qualcuno dei redattori o dei collaboratori, se ne farà un altro, sul numero successivo, per allargare la discussione. Così, se per ragioni di metodo ci siamo disegnati l'immagine di un lettore giovane che sta cercando di orientarsi in un campo di parentele e opposizioni, alla ricerca di nuove chiavi di lettura, scriveremo però anche per i lettori meno giovani, tra cui anche molti dei redattori. Tutto quanto si è detto ci porta ora a rispondere a una domanda che i lettori si porranno e la stampa si è già posta prima che Alfabeta uscisse: perché questo «strano» raggruppamento redazionale che ha dato origine alla rivista? Bene, non vi presiede alcuna alchimia particolare, è un ponte di San Luis Rey, con una sola componente unitaria, tutti risiedono a Milano. Ma si sa, anche su un ponte pericolante un gruppo di persone non si trova mai per caso. Per ragioni non casuali, anche se ancora poco chiare, i redattori di Alfabeta si sono incontrati e hanno deciso di fare questo giornale proprio ora.· Non formano un gruppo omogeneo. A (umè di naso, si può dire che si muovono tutti in un ambito culturale «di sinistra». Ma il problema, o almeno uno dei problemi, non è proprio, oggi, di sapere che cosa sia ancora una cultura di sinistra? Siccome i nomi dei redattori sono riconoscibili, ciascuno avendo al proprio attivo una produzione più o meno vasta ma ormai di dominio pubblico, i lettori si accorgeranno che essi vengono da esperienze politiche e culturali diverse. Che negli ultimi dieci anni si sono persino combattuti da sponde abbastanza distanti. Che alcuni vengono dallapratica accademica, altri da ciò che si definisce come attività letteraria free lance, alcuni hanno vissuto avventure di grupf!O o di partito, altri erano cani sciolti. Epensabile che siano legati e siano sempre rimasti legati per lo meno da stima reciproca e da reciproco interesseper ciò che fanno. Ma la difformità delle loro storie personali saràgaranzia non dell'oggettività (brutta parola) ma del loro impegno critico, gli uni nei confronti degli altri, redattori e collaboratori, e tutti nei confronti dei lettori. I quali poi saranno chiamali a far sentire la loro voce attraverso una rubrica di lettere che inizierà nel prossimo numero (non abbiamo voluto avviarla con le solite leuere false). E la stessa scelta dei collaboratori rifletterà la situazione conflittuale dei redattori, quando ci sarà. Collaboratori più anziani e collaboratori più giovani, anche dell'ultima generazione. Dipenderà da chi verrà visto come più adatto a trattarein modo interessante un dato argomento. Ma (questa è stata l'esperienza di avviamento) non si partirà tanto dal nome di chi po1ràscrivere l'articolo, quanto dal tema, avvertito come urgente. Poi si troverà chi ha voglia di leggere o rileggere quel tema in modo da suscitare altre discussioni. Troverete qnche una rubrica fissa, un'analisi della stampa quotidiana italiana che ogni numero prenderà in esame uno di grandi avvenimenti che hanno dominalo i giornali nelle settimane precedenti: uno slrumento di controllo e di critica de/l'informazione, e abbiamo pensato anche ai molti s1udenti che a scuola incominciano a usare la stampa come libro di testo. Poi vedremo, man mano che si va avanti. Alfa, beta, ecce/era. Compitare. Su quello che c'è e su quello che si farà. Le immagini di questo numero Roberto Masotti Tavoli e foto L a frase «you turned the Jables on me ... » (sorta di «tu mi prendi in giro...»), che inti1ola ques1a f010serie, mi è stata suggerita da Steve Lacy, ed è parte (anche Jitolo) di una canzone di Mitchell Alter, interpretata, tra altri, da Billie Holiday. Ora, è sbagliato scrivere questa frase «you turned the tables on me ... »? Questo «errore» deriva forse dal fat10che la forma del /avolo che uso (coslantemente) per questi ritratti è ro10ndo (round); o si riferisce al fatto di viaggiare (1our)portando con me questo /avolo attraverso diversi paesi, seguendo evidentemente un istinto alquanto irrazionale ed una insana al/razione per la «nuova musica». Quesla serie non è staia concepita come catalogo, ma vuole piuttos10 rappresentare uno sguardo più ampio alla musica «contemporanea» (in tutte le sue tendenze radicali e sperimentali), evitando, il più possibile, .categorie e divisioni ormai inutilizzabili. Il 1avolino: una breve sloria. . È sfato trovalo e acquis1a10, in un pomeriggio assolato del maggio '74, per una·somma vicino alle mille lire, in un campo di zingari che vivevano tramite compravendita di cose vecchie e rottami di ferro. È sfato usato, incidentalmente, come tavolino, per la prima volta, come supporto di oggetti, mentre slavo facendo un rifratto di Juan Hidalgo, musicis1a fluxus, e nuovamente, ma senza oggetti, accadde pochi giorni più lardi con WalJerMarchetti che forma con Hidalgo il gruppo Zaj. Da qui è partita l'idea di produrre una serie di ritratti basati sulla compresenza di musicisti e dello stesso lavo/o. Migliaia di rifratti fotografici sono stati eseguili nell'ouocento usando una piccola colonna o una seggiola come supporto; perché non usare un piccolo tavolo quindi? Così proprio questo tavolino è diventato l'elemento unificante della serie, una presenza costante; solo piccole variazioni sono state introdotte, casualmente. (Roberto Masotti) alfabeta mensile di informazione cu/JUrale Comi1a10 di redazione Nanni Balestrini, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella, Paolo Volponi. Coordinatore Nanni Balestrini Art direc/or Gianni Sassi Direuore editoriale Gino Di Maggio Redazione, amministrazione Multhipla edizioni, 20137 Milano, Piazzale Martini 3. Telefono (02) 592.684 Composizioni GDB fotocomposizione via Commenda 41, Milano, Tel. 544125 Tipografia S.A.G.E. S.p.A., via S. Acquisto 20037 Paderno Dugnano (Milano) Distribuzione Messaggerie Periodici Abbonamenti annuo L. 9.000, estero L. 12.000 (posta ordinaria) Inviare l'importo a: Multhipla edizioni, Piazzale Martini 3, 20137. Milano, Conto corrente posta n. 3/49769 Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 281 del 1975. Responsabile G. Di Maggio

~I linguai,lpotere,laforza Roland Barthes Leçon Paris, Seuil, 1978 pp. 46 (s.i.p.) Foncanlt: il potere e la parola a cura di Paolo Veronesi Bologna, Zanichelli, 1978 pp. 154, lire 2400 Georges Duby Les trois ordres ou Pimaginaire du féodalisme Paris, Gallimard, 1978 pp. 428, franchi 80 Michael Howard La pern e le armi nella storia d'Europa Bari, Laterza, 1978 pp. 308, lire 7500 11 7 gennaio 1977 Roland Barthes, davanti al pubblico folto delle grandi occasioni mondane e culturali, pronunciava la sua lezione inaugurale al Collège de France, dove era appena stato chiamato a tenere la cattedra di semiologia letteraria. Questa lezione, di cui avevano parlato i giornali di allora (Le Monde vi aveva dedicato una pagina intera) appare ora pubblicata dalle Editions du Seui!, sotto il titolo umile e orgogliosissimo di Leçon, poco più di una quarantina di pagine, e si· compone di tre parti. La prima parte verte sul linguaggio, la seconda sulla funzione della letteratura rispetto al potere del linguaggio, la terza sulla semiologia e la semiologia letteraria in particolare. Diciamo subito che non ci occuperemo qui della terza parte (che nella sua brevità imporrebbe tuttavia un'ai:npia discussione di metodo), e solo in scorcio della seconda. È la prima parte quella che pone, ci pare, un problema di portata assai più vasta. che va al di là e della letteratura e delle tecniche di indagine sulla letteratura, e tocca la questione del Potere. Questione che attraversa anche gli altri libri esaminati in scorcio da questo articolo. La lezione inaugurale di Barthes è costruita con splendida retorica e inizia con l'elogio della dignità di cui egli si appresta a farsi investire. Come forse è noto, i professori del Collège de France si limitano a parlare: non danno esami. non sono investiti del potere di promuovere o bocciare, si va ad ascoltarli per amore di quel che dicono. Di qui la soddisfazione (ancora una volta umile e orgogliosissima) di Barthes: io entro in un luogo che è fuori dal potere. Ipocrisia, certo, perché nulla conferisce più potere culturale. in Francia. che l'insegnare al Collège de France, producendo sapere. Ma qui stiamo anticipando i tempi. ln questa lezione (che come vedremo verte sul gioco col linguaggio), Barthes. sia pure con candore, gioca: avanza una definizione di potere e ne presuppone un'altra. Infatti Barthes è troppo sottile per ignorare Foucault. che anzi ringrazia per essere stato il suo patrono al Collège: e dunque sa che il potere non è «uno». che mentre si insinua là ·dove non lo si sente al primo colpo esso è «plurimo». legione come i demoni. «Il potere è presente nei meccanismi più sottili dello scambio sociale: non solo nello Stato, nelle classi. nei gruppi. e ancora nelle mode. le opinioni correnti, gli spettacoli, i giochi. gli sport. le informazioni. le relazioni familiari e private e persino nelle spinte liberatrici che cercano di contestarlo». Per cui: «chiamo discorso di potere ogni discorso che genera la colpa. e quindi la colpevolezza di chi lo riceve>. Fate una rivoluzione per distruggere il potere. esso rinascerà all'interno del nuovo stato di cose. «Il potere è il parassita di un organismo trans-sociale. legato alla storia intera dell'uomo. e non solo alla sua storia politica, storica. Questo oggetto in cui s'iscrive il potere, da tutta l'eternità umana, è il linguaggio - o per essere più precisi, la sua espressione obbligata: la lingua». Non è la facoltà di parlare che pone il potere, è la facoltà di parlare in quanto si irrigidisce in un ordine, in un sistema di regole, la lingua. La lingua, dice Barthes (con un discorso che ripete a larghi tratti, non so quanto consapevolmente, le posizioni di Benjamin Lee Whorf), mi obbliga a enunciare un'azione ponendomi come soggetto, cosi che da quel momento ciò che faccio sarà la conseguenza di ciò che sono; la lingua mi obbliga a scegliere tra maschile e femminile, e mi proibisce di concepire una categoria neutra; mi impone di impegnarmi con l'altro o attraverso il «voi» o attraverso il «tu»: non ho il diritto di lasciare imprecisato il mio rapporto affettivo o sociale. Naturalmente Barthes parla del francese, l'inglese gli restituirebbe almeno le due ultime libertà citate ma (lui direbbe giustamente) gliene sottrarrebbe altre. Conclusione: «a causa della sua stessa struttura, ta lingua implica una relazione fatale di alienazione». Parlare è assoggettarsi: la lingua è una reazione generalizzata. Di più: «non è né reazionaria né progressista, essa è semplicemente fascista; perché il fascismo non è impedire di dire, è obbligare a dire». Dal punto di vista polemico questa è l'affermazione che, sin dal gennaio 1977. aveva provocato più reazioni. Tutte le altre. che seguono. ne conseI .11cit1110 Berio guono: e non ci stupirà sentire dire, quindi. che la lingua è potere perché mi obbliga a usare stereotipi già preformati, tra cui le parole stesse, e che è cosi fatalmente strutturata che, schiavi al suo interno, non riusciamo a farcene liberi al suo esterno. perché nulla è esterno alla lingua. Come uscire da questo, che Barthes chiama sartrianamente «un huis clos»? Barando. Si può barare con la lingua. Questo gioco disonesto e salutare e liberatorio, si chiama letteratura. Di qui lo schizzo di una teoria della letteratura come scrittura, gioco di e con le parole. Categoria che non investe solo le pratiche dette letterarie ma può ritrovarsi operante anche nel testo di uno scienziato o di uno storico. Ma il modello di questa attività liberatoria è alfine per Barthes sempre quello delle attività cosiddette «creative» o «creatrici». La letteratura mette in scena il linguaggio, ne lavora gli interstizi, non si misura con degli enunciati già fatti ma con il gioco stesso del soggetto che ·enuncia, scopre il sale delle parole. Sa benissimo che può essere ricuperata dalla forza della lingua, ma proprio per questo è pronta ad abiurarsi, dice e rinnega ciò che ha detto, si ostina e si sposta con volubilità, non distrugge i segni, li fa giocare e li gioca. S e e come la letteratura sia liberazione dal potere della lingua dipende dalla natura di questo potere. E su questo Barthes ci è sembrato evasivo. D'altra parte egli ha citato alfabeto n.1, maggio,1979, pagina 3 Foucault, non solo come amico, e direttamente, ma anche indirettamente in una sorta di parafrasi, quando ha detto le poche frasi sulla «pluralità» del potere. E la nozione che Foucault ha elaborato del potere è forse I~ più convincente oggi in circolazione, senz'altro la più provocante. La ritroviamo, costruita passo per passo, in tutta la sua opera. A ripercorrerla, e ad abbordarla per la prima volta, ecco il recente libretto curato da Paolo Veronesi, Foucault: il potere e la parola. Recentemente sull'Espresso scrivevo contro la nozione di antologia, come di lavoro parassita. Ma precisavo ohe, in sé, l'antologia è pratica utile e onesta e mi accanivo solo contro le antologie mascherate da libri originali o contro le antologie pirate. Questa non è né l'una cosa né l'altra, e dunque è una antologia «buona», costruita in modo da insegnare a percorrere lo sviluppo del pensiero di Foucault. Ora, attraverso il differenziarsi, da opera a opera, dei rapporti tra potere e sapere, tra pratiche discorsive e pratiche non discorsive, si disegna chiaramente in Foucault una nozione di potere che ha almeno due caratteristiche che in questa sede ci interessano: anzitutto, il potere non è solo repressione e interdizione, è anche incitamento al discorso e produzione di sapere; in secondo luogo, come accenna anche Barthes, il potere non è uno, non è massiccio, non è un processo unidirezionale tra una entità che comanda e i propri soggetti. «Bisogna insomma ammettere che questo potere lo si eserciti piuttosto che non lo si possieda, che non sia il "privilegio" acquisito o conservato dalla classe dominante, ma effetto d'insieme delle sue posizioni strategiche - effetto che manifesta e talvolta riflette la posizione di quelli che sono dominati. D'altra parte questo potere non si applica puramente o semplicemente come un obbligo o un'interdizione, a quelli che "non l'hanno"; esso _li investe, si impone per mezzo loro e attraverso loro; si appoggia su di loro, esattamente come loro stessi, nella lotta contro di lui, si appoggiano a loro volta sulle prese che esso esercita su di loro» (Sorvegliaree punire). Ancora: «Con potere non voglio dire "li Potere", come insieme di istituzion_ie di apparati che garantiscono la sottomissione dei cittadini in uno Stato determinato( ...] Con il termine potere mi sembra si debba intendere innanzitutto la molteplicità dei rapporti di forza immanenti al campo in cui si esercitano e costitutivi della loro organizzazione; il gioco che attraverso scontri e lotte incessanti li trasforma, li rafforza, li inverte; gli appoggi che questi rapporti di forza trovano gli uni negli altri, in modo da formare una catena e un sistema o, al contrario, le differenze, le contraddizioni che li isolano gli uni dagli altri; le strategie infine con cui realizzano i loro effetti, ed il cui disegno generale o la cui cristallizzazione istituzionale prendono corpo negli apparati statali, nella formulazione della legge, nelle egemonie sociali». li potere non va cercato in un centro unico di sovranità ma nella «base mobile dei rapporti di forza che inducono senza posa, per la loro disparità, situazioni di potere, ma sémpre locali e instabili [...]Il potere è dappertutto, non perché inglobi tutto, ma perché viene da ogni dove [...] Il potere viene dal basso [...] non c'è, alla origine delle relazioni di potere, e come matrice generale, un'opposizione binaria e globale tra i dominanti e i dominati [...] Bisogna immaginare piuttosto che i rapporti di forza molteplicì che si formano ed operano negli apparati di produzione, nelle famiglie, nei gruppi ristretti, nelle istituzioni, servono da supporto ad ampi effetti di divisione che percorrono l'insieme del corpo sociale» (La volontà di sapere). Ora questa immagine del potere richiama da vicino l'idea di quel sistema che i linguisti chiamano lingua. La lingua è, si, coercitiva (mi proibisce di dire «io vorremmo un come», pena l'incomprensibilità), ma la sua coercitività non dipènde da una decisione individuale, né da alcun centro da cui le regole si irradino: è prodotto sociale, nasce come apparato costrittivo proprio a causa del consenso di tutti, ciascuno rilutta a dover osservare la grammatica ma vi consente e pretende che gli altri l'osservino perché vi trova il suo comodo. Non so se potremmo dire che una lingua è un dispositivo di potere (anche se proprio a causa della s.uasistematicità essa è costitutiva di sapere), ma è certo che del potere essa è un modello. Potremmo dire che, apparato semiotico per eccellenza o (come si esprimono i semiotici russi) sistema modellizzante primario, essa è modello di quegli altri sistemi semiotici che nelle varie culture si stabiliscono come dispositivi di potere, e di sapere (sistemi modellizzanti secondari). In questo senso Barthes ha quindi ragione a definire la lingua come qualcosa connesso col potere, ma ha torto a trarne due conclusioni: che pertanto la lingua sia fascista e che sia «l'oggetto in cui si iscrive il potere», ovvero la sua minacciosa epifania. Liquidiamo subito il primo, e chiarissimo, errore: se il potere è quello definito da Foucault, e se le caratteristiche del potere si ritrovano nella lingua. dire che la lingua è per questo

fascista è più di una boutade. è un invito alla confusione. Perché allora il fascismo. essendo dappertutto. in ogni situazione di potere. e in ogni lingua. dall'inizio dei tempi. non sarebbe più da nessuna parte. Se la condizione umana è posta sotto il segno del fascismo. tutti sono fascisti e più nessuno lo è. Col che si vede quanto siano pericolosi gli argomenti demagogici, che vediamo abbondantemente usati a livello giornalistico quotidiano. e senza le finezze di Barthes. che perlomeno sa di usare paradossi e li adopera a fini retorici. Ma più sottile mi sembra il secondo equivoco: la lingua non è ciò in cui il potere si iscrive. Francamente. non ho mai capito il vezzo francese o francesizzante di iscrivere tutto e veder tutto come iscritto: in parole povere. non so bene cosa voglia dire iscriversi. mi pare una di quelle espressioni che risolvono in modo autorevole problemi che non si sanno definire altrimenti. Ma anche a prendere per buona questa espressione. direi che la lingua è il dispositivo attraverso il quale il potere viene iscritto là dove si instaura. Voglio spiegarmi meglio. e per far questo passo al terzo libro del mio pacchetto. l'impegnativo studio di Georges Duby sulla teoria dei tre ordini. D uby parte dagli Stati Generali. all'alba della rivoluzione francese: Clero. Nobiltà e Terzo Stato. E si chiede da dove venga questa teoria (e ideologia) dei tre stati. E la trova in antichissimi testi ecclesiastici di origine carolingia, in cui si parla del popolo di Dio come diviso in tre ordini. o partiti. o livelli: quelli che pregano. quelli che combattono e quelli che lavorano. Un'altra metafora. che circolava in epoca medievale. è quella del gregge: ci sono i pastori, i cani da pastore e le pecore. In altri termini. a dare un'interpretazione tradizionale di questa tripartizione, c'è il clero. che dirige spiritualmente la società. gli uomini d'arme che la proteggono e il popolo che mantiene entrambi. È abbastanza semplice, e basti pensare alla lotta per le investiture e al conflitto tra papato e impero che abbiamo studiato a scuola, per capire di cosa si stia parlando. Mli Duby va al di là dell'interpretazione banale. In più di quattrocento pagine di eccezionale densità, percorrendo le vicende di questa idea del periodo carolingio alla fine del dodicesimo secolo (e per la sola Francia), egli scopre che questo modello di ordinamento della società non è mai uguale a se stesso. Riappare sovente, ma con i termini ordinati diversamente; talvolta assume anziché una forma a triangolo una forma a quattro termini; le parole usate per designare gli uni o gli altri cambiano. talora si parla di milites. talora di pugnatores. talora di cavalieri; talora di clero. talora di monaci; talora di agricoltori. talora di lavoratori tout court. talora di mercanti. È che nel corso di tre secoli avvengono numerose evoluzioni della società europea. e si stabiliscono diversi giochi di alleanze: tra il clero cittadino e i signori feudali. per opprimere il popolo; tra clero e popolo per sottrarsi alle pressioni della classe cavalleresca; tra monaci e signori feudali contro il clero cittadino; tra clero cittadino e monarchie nazionali; tra monarchie nazionali e grandi ordini monastici ... Si potrebbe andare all'infinito, il libro di Duby ci appare come potrebbe apparire a un lettore del tremila uno studio sui rapporti politici tra democrazia cristiana. Stati Uniti. partito comunista e confindustria nel nostro secolo in Italia. Dove ci si accorge ben presto che le cose non sono sempre così chiare. come appaiono. che espressioni canoniche come apertura a sinistra o sviluppo economico assumono significati diversi non dico nel pass:ire da Andreotti a Craxi. ma persino all'interno di un congresso democristiano e nello spazio tra due consultazioni elettorali. Quelle polemiche medievali che ci parevano così chiare. con un gioco delle parti così ben definito. sono invece assai sottili. E si giustifica qui il fatto che il libro di Duby sia così denso. così affascinante e noioso al tempo stesso. così difficile da dipanare. privo di riassunti immediatamente comprensibili: perché esso ci pone di fronte a un flusso di manovre vischiose. Quando il monaco cluniacense parla di divisione tra chierici. cavalieri e contadini. ma sembra agitare il fantasma di una divisione a quattro. aggiungendo a questo asse ternario. che concerne la vita terrena. un asse binario che concerne la vita soprannaturale. e in cui la terna precedente si oppone ai monaci. mediatori con l'aldilà. ecco che il gioco cambia infinitesimalmente e si allude al predominio che gli ordini monastici vogliono prendere sugli altri tre ordini. in cui il clero urbano assume pura funzione vicaria. e il rapporto si pone direttamente tra monasteri e struttura feudale. Accade che ciascuna di queste formule. così simili eppure così diverse. si innervi su una rete di rapporti di forza: i cavalieri saccheggiano le campagne. il popolo cerca un appoggio e cerca di difendere i prodotti della terra. ma tra il popolo già emergono coloro che possiedono del proprio e tendono a volgere la situazione a proprio favore. eccetera eccetera ... Ma questi rapporti di forza rimarrebbero puramente aleatori se non fossero disciplinati da una struttura di potere. che renda tutti consenzienti e disposti a riconoscersi in essa. A questo fine interviene la retorica. ovvero la funzione ordinatrice e modellizzatrice del linguaggio. che con spostamenti infinitesimali d'accento legittima certi rapporti di forza e ne criminalizza altri. L'ideologia prende forma: il potere che ne nasce diventa veramente una rete di consensi che partono dal basso. perché i rapporti di forza sono stati trasformati in rapporti simbolici. S i delinea allora, a questo punto dell~ mia lettur~ ?i testi così diversi. una oppos1z1one tra potere e forza, opposizione che mi pare sia totalmente cancellata nei discorsi che oggi circolano quotidianamente, dalla scuola alla fabbrica al ghetto, sul potere. Lo sappiamo, dal sessantotto a oggi la critica al potere e la sua contestazione si è molto deteriorata, proprio perché si è massificata. Processo inevitabile e non staremo a dire (con bel piglio reazionario) che nel momento in cui un concetto diventa alla portata di tutti si sfalda. e che pertanto esso avrebbe dovuto rimanere alla portata di pochi. Al contrario: è proprio perché doveva diventare alla portata di tutti, ma che diventandolo avrebbe rischiato lo sfaldamento, che diventa importante la critica delle sue degenerazioni. Dunque, nei discorsi politici di massa sul potere si sono avute due fasi equivoche: la prima, ingenua. in cui il potere aveva un centro (il Sistema come signore malvagio coi baffi che manovrava dalla consolle di un calcolatore malefico la perdizione della classe operaia). Questa idea è stata sufficientemente criticata, e la nozione foucaultiana di potere interviene appunto a mostrarne l'ingenuità antropomorfa. Di questa revisione del concetto si può trovar traccia persino nelle contraddizioni interne ai vari gruppi terroristici: tra coloro che vogliono colpire il «cuore» dello Stato a coloro che invece disgregano le maglie del potere alla sua periferia, nei punti che direi «foucaultiani» in cui agisce il secondino, il piccolo commerciante, il capocottimista. Ma più ambigua permane la seconda fase, in cui troppo facilmente si confondono forza e potere. Parlo di «forza» anziché. come mi verrebbe spontaneo. di causalità, per i motivi che vedremo. ma partiamo subito da una nozione abbastanza ingenua di causalità. Ci sono cose che causano altre cose: il fulmine brucia l'albero, il membro maschile insemina l'utero femminile. Questi rapporti non sono reversibili. l'albero non brucia il fulmine, e la donna non insemina l'uomo. Ci sono invece rapporti in cui qualcuno fa fare a qualcun altro delle cose in virtù di un rapporto simbolico: l'uomo stabilisce che in casa i piatti li lava la donna. l'inquisizione stabilisce che chi pratica l'eresia sarà bruciato sul rogo e si arroga il diritto di definire cosa sia eresia. Questi rapporti si basano su una strategia del linguaggio che. riconosciuti labili rapporti di forza. li ha istituzionalizzati simbolicamente. ottenendo il consenso da parte dei dominati. I rapporti simbolici sono reversibili. In principio basta che la donna dica di no all'uomo perché i piatti li debba lavare lui. che gli eretici non riconoscano l'autorità dell'inquisitore perché esso sia bruciato. Naturalmente le cose non sono così semplici e proprio perché il discorso che costituisce•simbolicamente il potere deve fare i conti non con semplici rapporti di causalità ma con complesse interazioni di forze. E tuttavia questa mi pare la differenza tra potere. come fatto simbolico. e causalità pura: il primo è reversibile. in fatto di potere si fanno le rivoluzioni. la seconda è solo contenibile o imbrigliabile. permette delle riforme (invento il parafulmine. la donna decide di usare anticoncezionali. di non avere rapporti sessuali. di averne solo di tipo omosessuale). Il non sapere distinguere tra potere e causalità porta a molti comportamenti politici infantili. Abbiamo detto che le cose non sono così semplici. Sostituiamo alla nozione di causalità (unidirezionale) quella di forza. Una forza si esercita su un'altra forza: esse si compongono in un parallelogramma delle forze. Non si annullano. si compongono secondo una legge. Il gioco tra forze è riformistico: produce compromessi. Ma il gioco non è mai tra due forze. è tra forze innumerevoli. il parallelogramma dà origine a ben più complesse figure multidimensionali. Per decidere quali forze vadano opposte a quali altre, intervengono delle decisioni che non dipendono dal gioco delle forze. ma dal gioco del potere. Si produce un sapere della composizione delle forze. Per tornare a Duby. quando i cavalieri esistono. quando entrano in gioco i mercanti con le loro ricchezze. quando i contadini si muovono migratoriamente verso la città spinti dalle carestie. si ha a che fare con delle forze: la strategia simbolica. la formulazione di convincenti teorie dei tre o dei quattro ordini, e quindi il configurarsi di rapporti di potere. entrano in gioco a definire quali forze dovranno contenere quali altre. e in quale direzione dovranno marciare i parallelogrammi derivanti. Ma nel libro di Duby, almeno per il lettore distratto, il gioco delle forze rischia di scomparire di fronte all'argomento dominante, che è costituito dal risistemarsi continuo delle figure simboliche. Prendiamo allora l'ultimo libro del pacchetto, quello di Howard sulla storia delle armi nell'evoluzione della storia europea. Ne parleremo solo in iscorcio, invitando il lettore a dilettarsi per conto proprio con questo libro affascinante che parte dalle guerre del periodo feudale per arrivare a quelle dell'era nucleare, denso di aneddoti e di scoperte imprevedibili. Nel 1346, a Crecy, Edoardo III introduce, contro la cavalleria nemica, gli arcieri con arco lungo. Questi archi lunghi. che scagliano cinque o sei frecce nel tempo Ruscue Mitd,e/1 /A.t:.U.C.) che una balestra scaricava un solo verrettone. esercitano una forza diversa contro la cavalleria. La sconfiggono. La cavalleria da quel momento è indotti! ad appesantire l'armatura: diventa meno manovrabile. e non serve più nulla quando scende a piedi. La forza del cavaliere armato diventa nulla. Questi sono rapporti di forza. Vi si è. 1\!11im.\ .~-;. n \ v'i'ò)l:,1·, 7 \. I' 1);~-:ll'.\ 1:, alfabeto n.I, maggio 19 9, pagina 4 reagisce cercando di imbrigliare la forza nuova. Si riforma cioè l'intera struttura dell'armata. Per composizioni del genere. la storia d'Europa procede. gli eserciti diventano qualcosa di diverso. Si ricordi il lamento dei paladini ariosteschi sulla feroce cecità dell'archibugio. Ma ecco che i nuovi rapporti di forza. nell'imbrigliarsi a vicenda e nel comporsi. creano una nuova ideologia dell'esercito. e producono nuovi assestamenti simbolici. Qui il libro di Howard sembra procedere inversamente da quello del Duby: dalla forza, indirettamente. alle nuove strutture di potere. mentre l'altro andava dalla formulazione delle immagini del potere ai rapporti di forze nuove e vecchie che vi si sottendevano. M a se non si riflette abbastanza su questa opposizione. si cade in forme di infantilismo politico. Non si dice a una forza «no. non ti obbedisco»; si elaborano tecniche di imbrigliamento. Ma non si reagisce a un rapporto di potere con un mero e immediato atto di forza: il potere è molto più sottile e si avvale di consensi ben più capillari, e rimargina la ferita ricevuta in quel punto, sempre e necessariamente periferico. Per questo si è di solito affascinati dalle grandi rivoluzioni, che appaiono ai posteri effetto di un solo atto di forza il quale. esercitandosi in un punto apparentemente insignificante. fa ruotare l'asse intero di una situazione di potere: la presa della Bastiglia, l'assalto al Palazzo d'inverno. il colpo di mano alla caserma Moncada ... E per questo il rivoluzionario in erba si affanna a riprodurre atti esemplari di questo genere, stupendosi che non riescano. E che l'atto di forza «storico» non era mai atto di forza, ma gesto simbolico, trovata teatrale finale che sanciva, in modo anche scenograficamente pregnante, una crisi di rapporti di potere che si era diffusa e capillarmente. da lungo tempo. E senza la quale il pseudoatto di forza tornerebbe a essere soltanto mero atto di forza, senza potere simbolico, destinato a comporsi in un piccolo parallelogramma locale. Ma come può un potere. che è fatto di una rete di consensi. disgregarsi? È La risposta di Foucault è: «Vorrebbe dire misconoscere il carattere strettamente relazionale dei rapporti di potere. Essi non possono esistere che in funzione di una molteplicità di punti di resistenza. i quali svolgono. nelle relazioni di potere. il ruolo di avversario. di bersaglio. di appoggio. disporgenza per una presa( ...] Non c'è dunque rispetto al potere un luogo del grande Rifiuto - anima della rivolta. focolaio di tutte le ribellioni, legge pura del rivoluzionario. Ma delle resistenze che sono degli esempi di specie: possibili. necessarie. improbabili, spontanee. selvagge, solitarie, concertate. striscianti. violente irriducibili, pronte al compromesso, interessate o sacrificali [... ]I punti. i nodi, i focolai di resistenza sono disseminati con maggiore o minore densità nel tempo e nello spazio, facendo insorgere talvolta gruppi o individui in modo definitivo. accendendo improvvisamente certi punti del corpo, certi momenti della vita. certi tipi di comportamento (...] Molto più spesso si ha a che fare con punti di resistenza mobili e transitori, che introducono in una società separazioni che si spostano, rompendo unità o suscitando raggruppamenti, marcando gli individui stessi, smembrandoli o rimodellandoli( ...]» I n questo senso il potere, in cui si è, vede nascere dal proprio interno la disgregazione dei consensi su cui si basa. Quello che mi preme, nei limiti di questo articolo. è di rilevare l'omologia tra questi processi continui di disgregazione descritti (in forma abbastanza allusiva) da Foucault e la funzione che Barthes assegna alla letteratura all'interno del sistema di potere linguistico. II che ci indurrebbe forse a fare anche qualche riflessione su un certo estetismo della visione foucaultiana, proprio nel momento in cui egli (si veda l'intervista del '77 in appendice al volumetto citato) si pronuncia contro la fine dell'attività dello scrittore e contro la teorizzazione della scrittura come attività eversiva. O a chiederci se Barthes non faccia della letteratura (nel momento in cui dice che è possibilità aperta anche allo scienziato o allo storico) una allegoria delle relazioni di resistenza e critica al potere nell'ambito più vasto della vita sociale. Quello che sembra chiaro è che questa tecnica di opposizione al potere, sempre dall'interno e diffusa, non ha nulla a che vedere con le tecniche di opposizione alla forza, che sono sempre esterne, e puntuali. Le opposizioni alla forza ottengono sempre una risposta immediata, come nell'urto tra due palle di biliardo; quelle al potere ottengono sempre risposte indirette. Proviamo un'allegoria, da bel film americano degli anni Trenta. Nel quartiere cinese una gang mette in opera il racket delle lavanderie. Atti di forza. Si entra. si chiedono i soldi, se la lavanderia non paga si fracassa tutto. II lavandaio può opporre forza a forza: spacca la faccia al gangster. Il risultato è immediato. Sta al gangster esercitare il giorno dopo una forza maggiore. Questo gioco di forze può indurre ad alcune modificazioni di imbrigliamento nella vita del quartiere: porte blindate alle lavanderie, sistemi di allarme. Parafulmini. Ma a poco a poco il clima viene assorbito dagli abitanti del quartiere: i ristoranti chiudono prima, gli abitanti non escono dopo cena. gli altri negozianti ammettono che è ragionevole pagare per non essere disturbati ... Si è instaurato un rapporto di legittimazione del potere dei gangsters, e vi collaborano tutti, anche coloro che vorrebbero un sistema diverso. li potere dei gangsters inizia ora a fondarsi su rapporti simbolici di obbedienza, in cui l'obbediente è tanto responsabile quanto l'obbedito. In qualche modo, ciascuno vi trova il proprio tornaconto. La prima disgregazione del consenso potrebbe venire da un gruppo di giovani che decidono di organizzare ogni sera una festa con mortaretti e draghi di carta. Come atto di forza esso potrebbe forse intralciare il passaggio - o la fuga dei gangsters, ma in tal senso l'azione è minima. Come aspetto di resistenza al potere la festa introduce un elemento di confidenza, che agisce da disgregatore al consenso dettato dalla paura. Il suo risultato non può essere immediato; soprattutto non si avrà risultato se alla festa non corrisponderanno altri atteggiamenti periferici, altri modi di esprimere il «non ci sto». Nel nostro film potrebbe essere il gesto di coraggio del giornalista locale. Ma il processo potrebbe anche abortila domanda che si pone Foucault sempre nella Volontà di sapere: «Bisogna dire che si è necessariamente "dentro" il potere. che non gli si "sfugge", che non c'è. rispetto a esso, un'esteriorità assoluta. perché si sarebbe immancabilmente soggetti alla legge?» A pensarci bene è la constatazione di Barthes quando dice che non si esce mai dal lin_guaggio.

re. Le tattiche dovrebbero essere subito rinnegate. nel caso in cui il sistema del racket fosse capace di integrarle al folklore locale ... Arrestiamo qui l'allegoria che. come film. ci obbligherebbe al lieto fine. on so se questa festa col drago sia allegoria della letteratura secondo Barthes. o la letteratura di Barthes e questa festa siano allegorie delle crisi foucaultiane dei sistemi del potere. Anche perché a questo punto sorge un nuovo dubbio: sino a qual punto la lingua di Barthes obbedisce a meccanismi omologhi ai sistemi di potere descritti da Foucault? Poniamo pure una lingua come sistema di regole: non solo quelle grammaticali. ma anche quelle che oggi sono dette pragmatiche; per esempio. la regola conversazionale che a domanda si risponde in modo pertinente. e chi la viola è giudicato, volta a volta. maleducato. sciocco. provocatore. o si ritiene che alluda qualcosa d'altro che non vuol dire. La letteratura. che bara con la lingua. si presenta come l'attività che disgrega le regole e ne pone altre: provvisorie. valide nell'ambito di un solo discorso e di una sola corrente; e soprattutto valide nell'ambito del laboratorio letterario. Questo significa che Ionesco bara con la lingua facendo parlare i suoi personaggi come parlano. per esempio. nella Cantatrice calva. Ma se nel rapporto sociale tutti parlassero come la cantatrice calva. la società si disgregherebbe. Si noti che non si avrebbe rivoluzione linguistica, perché la rivoluzione implica rovesciamento di rapporti di potere; un universo che parla come Ionesco non rovescerebbe nulla. instaurerebbe una sorta di grado n (opposto di zero. un numero indefinito) del comportamento. Non sarebbe neppure più possibile comperare il pane dal fornaio. Come si difende la lingua da questo rischio? Barthes lo dice, ricostituendo una situazione di potere di fronte alla propria violazione. assorbendola (l'anacoluto dell'artista diventa norma comune). Quanto alla società. essa difende la lingua recitando la letteratura. che mette in questione la lingua. in luoghi deputati. Cosi accade che nel linguaggio non si abbia mai rivoluzione: o è finzione di rivoluzione. sul palcoscenico. dove tutto è permesso. e poi si torna a casa parlando in modo normale; o è movimento infinitesimale di riforma continua. L'estetismo consiste nel credere che l'arte sia la vita e vita arte. confondendo le zone. Illudendosi. Quindi la lingua non è uno scenario di potere. nel senso di Foucault. Va bene. Ma perché ci è parso di trovare omologie cosi forti tra dispositivi linguistici e dispositivi di potere - e di rilevare che il sapere di cui un potere si sostanzia è prodotto per mezzi linguistici? Qui sorge un dubbio. Forse non è che la lingua sia diversa dal potere perché il potere è luogo di rivoluzione. ciò che alla lingua non è consentito. Ma è Leinclinazioni delPianotriennale Augusto Graziani O Piano triennale Mondo economico n° 4 (27.1.1979) e 5 (3.2.1979) 11Piano triennale, presentato al Parlamento il 15 gennaio 1979, è un documento che merita di essere considerato con serietà. Forse è il pri- , mo documento, nella storia della programmazione economica italiana, che indica le linee lungo le quali il capitalismo italiano presumibilmente si muoverà nel corso dei prossimi anni; come tale, esso va letto con ogni attenzione. All'atto della sua pubblicazione, cosi come quando, mesi or sono. venne presentato il documento preliminare. detto Piano Pandolfi. la reazione generale dell'opinione pubblica e degli esperti qualificati fu che. mentre gli obiettivi espressi dal Piano potevano essere condivisi. era viceversa assai dubbio se il Piano contenesse l'indicazione di strumenti operativi idonei a realizzarli. Come ora diremo. è probabile che il giudizio più appropriato da esprimere sul Piano triennale sia alquanto diverso: e precisamente che il Piano si muova con molto realismo lungo una linea di politica economica facilmente individuabile. ma che sia proprio questa linea che va decisamente respinta. Il Piano prende le mosse dal presupposto iniziale che l'economia italiana debba rientrare. se cosi ci si può esprimere. nel contesto dell'economia europea. e che tale rientro debba avvenire su un piano di competitività e di efficienza. L'ingresso italiano nel sistema monetario europeo è il simbolo di questa decisione di fondo. È significativo ricordare che a suo tempo. affinché la decisione assumesse la solennità necessaria. l'astuto presidente Andreotti ha avuto l'accortezza, prima di dare l'adesione definitiva del governo italiano. di sollevare un'ultima perplessità e di farla dissipare da un voto favorevole del Parlamento. In questo modo, se l'Italia si trova oggi impaniata nel sistema monetario europeo. ciò non è dovuto né all'imposizione di potenze straniere, né al colpo di mano di un governo autoritario, bensi alla volontà popolare. liberamente espressa dal massimo organo rappresentativo. democraticamente eletto. Nessuno potrà dire che l'adesione al sistema monetario europeo rappresenta un pretesto precostituito dal governo per imporre la politica economica che esso vorrà: questa adesione è stata voluta da una maggioranza regolare. Il primo punto che va considerato è quindi il significato di questa scelta europea. Con l'adesione al sistema monetario europeo. l'Italia torna al sistema dei cambi rigidi. almeno per quanto riguarda le valute europee, sistema questo che era stato abbandonato nei fatali giorni del febbraio 1973. quando. nel pieno della tempesta monetaria provocata dalla crisi della sterlina. anche la lira era diventata fluttuante, dando inizio a un periodo di svalutazione progressiva, che si presentava allora come brevissimo, e che doveva invece durare sei anni. Nel corso di questo lungo periodo. sono avvenute due cose importanti sul piano monetario. La prima è stata la grande ondata inflazionistica interna. Su questo piano. gli eventi sono troppo noti per doverli rievocare. In parte l'inflazione italiana è stata comune all'inflazione di altri paesi. ed è stata anch'essa provocata dall'aumento dei prezzi internazionali delle materie prime. ivi compreso quello del petrolio. 1nparte però. l'inflazione italiana è stata un fenomeno tutto particolare. che ha portato il tasso di aumento dei prezzi italiani molto al disopra di quanto non sia avvenuto in altri paesi. Non è il caso di entrare nella polemica sulle cause di questo fatto. Che siano stati i salari. o che siano stati i margini di profitto ad aumentare per primi e a scatenare l'aumento dei prezzi. il risultato è sostanzialmente il medesimo: e cioè che. nella misura in cui la lira si è svalutata all'interno. questa svalutazione ha annullato gli effetti della svalutazione esterna e ha riportato le esportazioni italiane al medesimo livello di competitività (o di non competitività) in cui esse si trovavano prima del 1973. Tutto questo giustifica i sospetti (e anche qualcosa di più dei sospetti) che la svalutazione esterna della lira non sia stata essa stessa conseguenza dell'inflazione interna (come le autorità monetarie hanno sempre affermato); ma che. al contrario. la svalutazione esterna sia stata voluta allo scopo di accelerare l'inflazione interna, la quale, saggiamente gestita. ha rappresentato uno strumento eccellente nelle mani delle autorità monetarie. Infatti, da un lato, l'inflazione ha prodotto il consueto effetto di ridurre i salari reali. Ma dall'altro (e qui interviene la saggia gestione dell'inflazione) essa ha giustificato un aumento vertiginoso dei tassi di interesse, che ha prontamente trasferito i profitti dal settore industriale al settore bancario. In passato. i capitalisti italiani che volevano nascondere i propri profitti li esportavano all'estero; fra il 1974 ed il 1976, li hanno esportati nel settore bancario. In tal modo, l'inflazione ha prodotto il miracoloso risultato di far cadere sia i salari che i profitti. Dopo di che. i capitalisti italiani hanno potuto presentarsi all'opinione pubblica vestiti di miseria, e. nel clima di emergenza che ne è scaturito. è stato facile far accettare la manovra di moderazione e di normalizzazione sindacale che ne è seguita. Tutto questo appartiene alle amenità della politica monetaria interna. La seconda cosa importante, accaduta negli anni della svalutazione della lira. riguarda invece i rapporti con l'estero. La lira non si è svalutata in eguale misura nei confronti di tutte le altre valute. La svalutazione è stata violentissima nei confronti del marco tedesco (la lira ha quasi dimezzato il suo valore) e quasi inesistente nei confronti del dollaro. Questa saggia manovra ha consentito di acqui ire materie prime importate (in prevalenza dall'area del dollaro) senza che la svalutazione le rendesse più costose; e di vendere i manufatti (in buona parte nell'area del marco) con cospicui vantaggi valutari. Poiché tutti questi movimenti si verificano diluiti nel tempo. il calcolo degli operatori diventava un gioco d'azzardo. Se gli imprenditori volevano aumentare i prezzi. potevano farlo. ma dovevano puntare su una pronta svalutazione della lira. che seguisse a ruota. Se non volevano aumentarli. potevano farlo egualmente. ma dovevano sperare che lo scarto fra corso del dollaro e corso del marco aumentasse prontamente per donare loro egualmente un aumento di profitti. Ce n'è abbastanza per dire che le autorità monetarie avevano assunto la veste del prestigiatore. e che avevano traalfabeta n.l maggio 1979, pagina 5 I> 1\1\Ìll,M\ ,Qt-., \ l)'.ll,illl\l , \ .!\ l)\'l\h1\\\i che il potere è omologo alla lingua perché. cosi come esso ci viene descritto da Foucault. esso non ·può mai essere luogo di rivoluzione. Ovvero. nel potere non c'è mai differenza tra riforma e rivoluzione. la rivoluzione essendo il momento in cui un lento regime di assestamenti graduali. di colpo. subisce quella che René Thom chiamerebbe una catastrofe. una svolta improvvisa;· ma nel senso in cui un addensarsi di moti sismici improvvisamente produce un rivolgimento del terreno. Punto di rottura finale di qualcosa che si era già formato inanti- • cipo. passo per passo. Le rivoluzioni sarebbero allora le catastrofi dei moti lenti di riforma. del tutto indipendenti dalla volontà dei soggetti. effetto casuale di una composizione di forze finale che obbedisce a una strategia di riassestamenti simbolici maturata da lungo tempo. Il che equivarrebbe a dire che non è chiaro se la visione che Foucault ha del potere (e che -Barthes genialmente sformato l'economia italiana in una bisca. Con l'ingresso nel sistema monetario europeo. le autorità devono dire addio a questi giochi. La lira è saldata allo scudo europeo. nei cui confronti può slittare al massimo del 6%. Nei confronti del dollaro (come verso ogni altra valuta esterna) la lira si muoverà di conserva con le altre valute dello scudo. Questo significa che le esportazioni italiane non possono più ricercare una competitività attraverso manovre indirette, ma devono procurarsela in via diretta. o mediante aumenti di produttività, o mediante riduzione del costo del lavoro. Questo è esattamente quanto i capitalisti italiani hanno cercato di fare nel corso degli ultimi anni. Mentre le autorità monetarie erano intente a coprirli mediante i loro giochi rocamboleschi, i capitalisti industriali hanno avuto agio di dedicarsi a operazioni più concrete, e precisamente a quelle operazioni che vanno sotto il nome di ristrutturazione produuiva. È noto che la ristrutturazione presenta due volti. distinti e convergenti. Il primo è quello della grande fabbrica. dove ristrutturazione ha voluto dire progresso tecnologico. riduzione degli addetti. modernizzazione e aumento della produttività. Il secondo è quello della piccola impresa, del lavoro a domicilio, della fabbrica dispersa. dove ristrutturazione ha voluto dire riduzione dei guadagni orari, aumento dei tempi e dei ritmi di lavoro, evasione dagli oneri previdenziali. Questa linea è ormai giunta alla sua esplicazione completa. Della sua serietà non vi è motivo di dubitare, dal momento che essa è ormai cosa fatta. La stessa linea comporta di fatto un indebolimento dell'azione sindacale. dal momento che la classe lavoratrice. ridotta di numero nelle grandi imprese e dispersa nelle piccole, non può avere la stessa capacità rivendicativa del passato. e on l'ingresso nel sistema monetario europeo. i capitalisti italiani dovranno perseguire e completare il processo di ristrutturazione; ma dovranno anche farlo senza inflazione e senza giochi sui cambi. Se non ci sarà più l'inflazione ad assicurare una riduzione del salario. occorre che il costo del lavoro venga compresso direttamente. attraverso una politica di moderazione sindacale. e attraverso modificazioni normative appropriate. Questa è appunto la proposta del Piano triennale. che in tal modo si inserisce direttamente nella strategia di rinnovamento industriale, assicurando per altra via quello che i giochi della moneta non potranno più assicurare. Il blocco dei salari. unito al ripristino della mobilità operaia. diventa cosi il punto centrale del Piano: «La politica salariale [si legge al n. 68) non deve comportare nel triennio aumenti del costo del lavoro per ora lavorata in termini reali». Il piano riconosce l'esigenza di applicare la scala mobile per tutelare il salario reale dall'inflazione. Ma. al di là del puro e semplice recupero monetario. il piano non riconosce alcuna possibilità di aumento del costo del lavoro. Ciò significa che ogni auesemplifica nella lingua) sia una visione neo-rivoluzionaria o sia neo-riformista. Se non che il merito di Foucault sarebbe quello di aver abolito la differenza tra i due concetti. obbligandoci a ripensare. con la nozione di potere. anche quella dell'iniziativa politica. Già vedo i cacciatori di mode imputarmi di caratterizzare Foucault come tipico pe.nsatore del «riflusso». Sciocchezze. É che in questo nodo di problemi si disegnano nozioni nuove di potere. di forza. di rivolgimento violento e di riassestamento progressivo attraverso lenti spostamenti periferici. in un universo senza centro dove tutto è periferia e non c'è più il «cuore» di nulla. Bel plesso di idee per una riflessione che nasce all'insegna di una «leçon». LasciamolQ in sospeso. Sono problemi che, direbbe Foucault. il soggetto singolo non risolve. A meno che non si limiti alla finzione letteraria. mento di produttività dovrebbe automaticamente tradursi in aumento dei profitti, con l'esclusione completa di qualsiasi beneficio per la classe lavoratrice. Una politica salariale cosi dura non ha precedenti nella storia dell'Italia repubblicana, e ci riporta direllamente alla politica salariale del fascismo. Il discorso diventa ancora più duro se questa strategia viene raffrontata con i documenti della programmazione che hanno preceduto storicamente il Piano triennale. e cioè con i documenti elaborati dai governi di centrosinistra. Era quella un'epoca di blando riformismo, e la programmazione si faceva più sulla carta che nei fatti. Ma oggi i tempi sono cambiati e dei propositi di riforma di allora non resta nemmeno la traccia. I grandi obiettivi di allora erano quelli della lotta alle inefficienze annidate nel sistema (la famoSreve Lacy sa lolla alle rendite), dell'espansione dei servizi sociali (assistenza sanitaria. scuola, trasporti urbani, case per i lavoratori), di una politica industriale innovativa, che facesse largo posto a settori tecnologicamente avanzati ed estendesse la base industriale al Mezzogiorno. Dal Piano triennale questi obiettivi sono rigorosamente assenti; anzi non mancano accenni che fanno pensare ad un autentico ripudio della vecchia linea riformista. Prendiamo. ad esempio, il problema della pubblica amministrazione. Mentre, come abbiamo visto. la linea di politica salariale è durissima, nei confronti degli impiegati pubblici il Piano segue una linea morbida. Il problema della pubblica amministrazione (si legge al n. 73) «non è solo di ordinamento, ma anche e soprattutto di infrastrullure, di strutture, e di status, anche retributivo dei pubblici dipendenti». Ai quali pubblici dipendenti viene cosi promessa l'esenzione dal blocco delle retribuzioni sancita invece per gli operai. Infatti. in un luogo successivo del Piano, si legge che, per la pubblica amministrazione, si dovrà giungere ad un aumento annuo delle retribuzioni «pari all'aumento del prodotto interno lordo a prezzi correnti» (n. 225); il che significa che ai pubblici dipendenti

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