Una città - anno VI - n. 48 - marzo 1996

I La medicina può affrontare, pur con grande difficoltà, il dolore, ma non la sofferenza, il modo con cui ognuno affronta il suo dolore. Il problema decisivo della relazione con gli altri. La grande solitudine che spinge a cercare terapie, e relazioni, alternative. Il dolore è male e non può avere nessuna carica redentiva. Anche nelle condizioni estreme della croce la vita ha sempre una possibilità. Intervista a padre Lucio Pinkus. Padre Lucio Pinkus, dei Servi di Maria, psicologo, per 15 anni ha lavorato al reparto di neurochirurgia del Policlinico di Roma, ha insegnato Psicologia dinamica ali' Università di Venezia. Auualmeme è membro del Comitato Nazionale per la Bioetica. In una logica, ormai dominante, che esige sempre più competenza e omogeneità dei casi, il dolore può essere trattato come le altre malattie? Questa impostazione cosa comporta? Non c'è dubbio che il dolore è difficilmente restringibile per competenza. Questo ha fatto sì che in medicina sia stato assunto nell'aspetto più neutro possibile, cioè comè una reazione di segnale algico del sistema nervoso. La terapia del dolore è così diventata una branca specialistica, praticata per lo più da persone provenienti da esperienze di anestesiologia, parzialmente anche da neurologi, che ha come obiettivo lo studio, la soppressione o la diminuzione del segnale doloroso. La terapia del dolore ha isolato un settore che possiamo chiamare "l'organo del dolore" e cerca di curarlo. Che cosa non cura? Non cura la sofferenza, che è il vissuto del dolore. Se il dolore è quantificabile, descrivibile, anche circoscrivibile, se è proporzionato a determinati fattori di natura appunto fisiopatologica, spesso neurofisiopatologica, la sofferenza è il modo soggettivo con cui ciascuno vive e attraversa il proprio percorso di dolore. La sofferenza è quel senso di incomunicabilità della propria esperienza, di disgregazione delle immagini su cui uno ha fondato la propria esistenza, che sono anche sociali: autonomia, efficienza, eroicità, senso di colpa perché si fa male a coloro che si amano, bisogno di essere accolti, accettati. La sofferenza allora non è contenibile mediante strumenti farmacologici, chirurgici o elettrofisiologici. E' qualcosa che fondamentalmente, pur con l'aiuto necessario degli altri strumenti, avrebbe bisogno di relazioni in cui trovare senso. C'è un competente per tutto questo? Fuori dell 'ospedale si è trovato un escamotage: per una certa gamma di sofferenze c'è un eompetente che è lo psicoterapeuta, ma c'è una sofferenza che fa parte di una ferita esistenziale, e di cui il dolore è intriso, per la quale non c'è consulente o competente di sorta. Diventano fondamentali il modo di vedere la vita oppure fattori di eticità, di civiltà, di solidarietà. E in questo la terapia del dolore non può che essere povera, parziale e, volendo essere paradossali, inutile, perché non accoglie questo aspetto soggettivo. Una persona non avrà più il segnale fisico di ciò che vive e che, cionondimeno, continuerà a vivere. Il dolore diventa un oggetto da standardizzare in protocolli, e se qualcosa esce dai protocolli, allora è il paziente a "non collaborare", il che diventa pure colpevolizzante. In certe situazioni, come per i trapianti, l'amputazione di arti o nel caso di un ragazzo divenuto tetraplegico per un tuffo riuscito male, è molto importante trovare chi aiuti a costruire il senso di un dolore non secondo la propria prospettiva, ma secondo quella di chi è portatore della sofferenza. Solo a questa condizione possono avere un loro ruolo, in molti ospedali, alcune presenze, come il cappellano di religione cattolica: che la sua ottica sia quella di alimentare la vita secondo il fiume di ciascuno e non in un 'unica cannella. Ma si sta diffondendo un atteggiamento di rimozione del dolore, di fuga dall'esperienza del dolore? Nella nostra cultura -e dico nostra non per contrapposizione alla cultura orientale, che in Italia viene idealizzata non poco. Chi ha avuto modo di andare in Oriente si è reso conto che l'esperienza del quotidiano non èquelladei libri santi.così come da noi non è quella della Bibbia- ebbene, nella nostra cultura occidentale, il dolore viene ormai ritenuto uno spiacevole incidente da rimuovere. La logica tecnologica porta ormai a pensare che in ogni situazione "tutto è possibile". Siamo entrati in una dimensione in cui noi siamo come assorbiti dall'inseguire le cose e non le viviamo più. E' come se fossimo vissuti dal tempo, anziché vivere il tempo. Si dice: "Non abbiamo tempo per parlare, perché c'è tanto da fare", che vuol dire: "Non ho tempo per vivere". un dolore non standardizzabile in protocolli In quest'ottica si sono un po' perse alcune specificità delle emozioni umane che non sono trasferibili in luoghi, tempi e misure, volute e controllabili, ma richiedono semmai degli stati d'animo: la capacità di attesa, la capacità di filtro, di comprensione e di rigenerazione personale di quel che si vive. Si è perso il senso di finitudine, di limitatezza, per cui assistiamo, sul piano personale, nella nostra vita relazionale, al dilagare di atteggiamenti narcisistici, all'espansione di un io universale e telematico. Di fronte agli ostacoli ci si sente o impotenti o onnipotenti. E non è forse la mancanza di senso del limite a caratterizzare un certo protagonismo, a spiegare il perché di certe avventure economiche e politiche i cui danni stiamo tuttora sopportando? In realtà, nel momento in cui si arriva a un'esasperazione della competenza, la competenza di vivere non è rilevante. E' rilevante la competenza di compiere azioni più o meno previste. Oggi, per esempio, non si parla mai di gioia, ma di divertimento. La gioia è uno stato d'animo, che non posso delegare alla percussione di uno strumento che deve scaricarmi. La gioia di un incontro non la posso delegare alla fortuita circostanza se quella persona è di buonumore, se poi andremo a fare quattro salti in un locale oppure no. E' l'attivazione di uno stato, vissuto, posseduto, mentre il divertimento vuol dire: "Mettiamo le parentesi e svoltiamo l'angolo". Così è per il dolore. Quando il dolore non riesce più a integrarsi in una mentalità in cui c'è un incontro, in cui la sofferenza viene elaborata, cercando di capirne il senso oppure di coglierne e affrontarne l'assurdo, perché anche questo fa parte della vita, il dolore viene rimosso, ~ CaffdileRi ifparmdiFi orlì s.p.A. 111111■ a • da O a 10 anni da 11 a 19 anni Perloroil migliorfuturopossibile dal dolore si tende a fuggire tramite I'analgesico. Un tempo il dolore non era nello stesso modo? Ho vissuto per un certo tempo in una borgata della città di Roma, e dico "borgata" non per fare il mito dei miei anni giovanili, ma perché a quel tempo una borgata era veramente una città emarginata, dove un unico mezzo portava alla stazione Termini in circa 30-35 minuti. Quel1 'esperienza mi ha detto che la solidarietà nasce dall'eco che ha la sofferenza altrui dentro di me, perché sento una certa simiglianza, mi posso identificare. E non sto parlando della mitica classe operaia, ma di persone che ho incontrato, persone a volte consapevoli a volte meno consapevoli, che però avevano un 'enorme sensibilità verso i malati, persone che dicevano: "Tu devi andare a lavorare, stai tranquillo, porto io il pranzo a tua moglie". Una cosa che in altri quartieri era impensabile. La visita ai malati era nonnale, cl' obbligo. In quei quartieri, finché era vivo questo modo di pensare, non c'era usura, perché piuttosto i soldi te li prestavano quelli del palazzo facendo la colletta. E garantisco che non sono favole, erano aggregazioni comuni, niente affatto eccezionali. Ma c'era una sorta di commozione, anche pessimistica a volte, nel ritrovarsi uniti dal fatto di essere già passati per la strada della sofferenza o di sapere che comunque ci possiamo passare. Questo creava un nesso di contiguità capace di scavalcare, persino in anni in cui queste erano più ruggenti, passioni politiche, passioni ideologiche, difficoltà etnico-razziali. Era questa la base perun ethos, una concezione per cui gli eventi nella vita vanno dotati di senso e non vissuti occasionalmente, devono avere una loro continuità, qualunque essa possa essere. Dunque, è un deficit relazionale a rendere insÒpportabile il problema del dolore che allora, inevitabilmente quasi, viene affrontato con la rimozione? Ci si potrebbe chiedere per esempio: una serie di sostanze o di strumenti antalgici leniscono il dolore della persona o sono gli ansiolitici della famiglia, del medico, di chiunque sia? Perché una resistenza, sovente ingiustificata, contro altri modi di' affrontare il dolore? Penso per esempio allo shiat:u che ha dato risultati che ho verificato ed è una tecnica giapponese che esige un contatto col corpo, che è già una relazione, una soggettività. Chi mette le mani su una altro non può poi sottrarsi alla domanda: "Cosa sto facendo? Perché?". Non c'è un tramite chimico-meccanico di qualunque tipo e non c'è il protocollo fisso. Oppure penso ad altre tecniche che chiamiamo orientali perché derivate da un approccio diverso, che tuttavia non andrebbero ignorate. Perché nelle strutture sanitarie non deve entrare l'agopuntura? Si risponde: "Perché non ha effetti registrati, sicuri ecc.". Ma se è per questo, credo che farn1aci antalgici, cominciando dal!' aspirina, di cui si possa essere sicuri di cosa fanno e di come fanno, per quel che oggi s'intende per livello di certezza scientifica, o sono pochi o sono ancora da inventare. E' chiaro che l'aspirina semplifica, e al Iora si può cominciare a pensare che, di fronte alla mestruazione dolorosa di una ragazzina, è più difficile parlare, spiegare, massaggiare, insegnare anziché dire: "Optalidon". In questo senso, poi, si perde la fondamentale competenza della generazione più adulta di trasmettere a quella più giovane le esperienze di come si sono affrontate le emozioni che qualificano l'esistenza, in cui rientrano anche il dolore e la sofferenza. E' una privazione grave a livello genitoriale, ma anche a livello di amicizia, a livello dell'insegnante che comunica con una classe. L'ospedale è solo il microcosmo più visibile: qui il paziente è diventato "utente", chi prendeva a cuore, chi curava, ora "prende in carico". E guardi la forza delle parole: "Prendo in carico un caso". E siccome le parole nascono da emozioni, esperienze, logiche ... Una società che non prevede nel suo addestramento alla vita la capacità di porsi il problema del dolore è in grado di produrre persone felici? Penso di no, perché la frustrazione diventa inabilitante. Una cosa che mi ha spesso colpito è il fatto che nella scuola italiana, né nell'insegnamento di religione né in quello di storia della filosofia, è prevista programmaticamente una riflessione sul dolore e sulla morte. Posso dire per esperienza, avendo insegnato per sei anni all'Università di Venezia Psicologia dinamica, quanto rispondesse ali' interesse di studenti e studentesse cominciare a parlare di cosa vuol dire soffrire, perché, come, che rapporto c'è fra vita, dolore e morte. Io credo che se i quesiti più profondi, a livello giovanile, sembrano, a volte, trovare risposte di negazione, la colpa sia perché non si dà loro alcuno spazio. C'è una mancanza di ossigeno psicologico. un 'insoddisfazione in parte non del tutto autentica, ma in gran parte molto autentica: i giovani hanno l'impressione, a mio avviso del tutto giustificata, che tutte queste strutture che sono l'università, la chiesa, l'ospedale non sono fatte con loro e forse neppure per loro, ma loro sono il materiale senza il quale noi adulti non potremmo avere la cattedra, l'ambulatorio, la chiesa ... Un secondo aspetto è un messaggio, gravemente negativo e privo di rispetto, che, se potessi, denuncerei, proprio in particolare della televisione. che presenta il dolore in forma scenica e senza rispetto. Non si può intervistare una persona al la quale un quarto d'ora prima hanno ammazzato il padre, perché questa persona non potrà rispondere a niente che riguarda il dolore, ma solo allo sconquasso. Non voglio generalizzare, non tutti fanno così, ma è un atteggiamento molto diffuso in televisione. Non ho più il televisore, per fortuna, ma non per una fonna di snobismo, intendiamoci, quanto per rigetto di una spettacolarizzazione del dolore che allontana e inibisce la riflessione, la meditazione. Anche l'aumento delle terapie alternative testimonia questo bisogno insoddisfatto? E' un segnale, disgraziatamente non colto dai responsabili delle politiche culturali e formative.L'aumento di terapie o pratiche alternative, da quelle che hanno una certa tradizione riconoscibile fino al riemergere di altri tipi di prassi, quali cartomanzia e affini, è un messaggio importante. le domande vengono a mancare come l'ossigeno Ultimamente c'è una grossa lamentela a proposito di messe nere, o di altri colori non autorizzati. La mia esperienza personale mi dice che queste cose scaturiscono da una ricerca, frutto di una sofferenza che non trova risposta. Ci sarà anche una percentuale di curiosità morbosa in qualcuno, non lo voglio negare, ma vi ho visto sempre quella sofferenza esistenziale che nei primi del secolo gli psichiatri chiamavano "angoscia", mentre adesso chiamano "ansia". E anche qui: "ansia" è un termine più sterile, più asettico, meno implicato di fenomenologia. Chi è che non ha l'ansia? "Tavor" e giù. L'angoscia no, l'angoscia esprimeva il sintomo e un vissuto del sintomo. Allora. queste persone cercano una risposta. E sarà, lo ripeto, anche una risposta degenerata, ma il problema è che prima di un 'interpretazione teologica, del tipo: "Queste cose sono frutto di credenze sataniche ...", dovremmo cercarne le cause in una ricerca dolente di ethos, di ragioni di vita, che non vengono trovate. Perché io vado a fare quel certo tipo di trattamento che si chiama moxa ex ustionibus? Non tanto perché io sia in grado di valutare se sia più o meno efficace, per esempio, della morfina, non lo so e al limite non mi interessa, ma per cercare qualcuno che stia lì durante quel trattamento, che mi chieda di dire cosa provo. Così come l 'iridologo, guarda caso, ci perde mezz'ora a guardarmi, come si diceva da giovani, "nelle palle degli occhi". Mi guarda, non mi passa vicino dicendo ad un tizio: "Ah, sì, allora quattro fiale in flebo". lo non voglio scagliarmi contro nessuno, perché questo è un problema di cultura, di mentalità. La scuola e la medicina devono recuperare il concetto che chi si rivolge a un servizio non è un utente, non è un suddito, ma è una persona. Vorrei dire che al di là del fatto che è un cittadino con dei diritti, il che, ovviamente, è fondamentale, è un tuo simile, che chiede la tua competenza, in un rapporto che non può essere di subordinazione, di fuga o di difesa, ma che, pur nella asimmetria di competenza, diventa vitale nella riconosciuto specularità dell'essere umano. Questo è quello che offrono molte medicine alternative, indipendentemente dai risultati, che, fra l'altro, possono anche essere rispettabili. Torniamo, quindi, alla centralità di una relazione frutto di un certo atteggiamento collettivo, che recupera la solidarietà come ethos umano. Senza modificare la cultura, non si modificherà la ricerca, si andrà sempre nella stessa direzione e ci si continuerà a domandare perché mai la gente spende I00 mila lire nella cartomante per poi lamentarsi del ticket. Insomma, la cartomante trufferà anche, non lo so, però quella persona mi si dedica, io lì mi sento una persona, non mi devo alzare alle cinque e mezza per avere alle sette il privilegio del bigliettino, per pagare il ticket. E sto parlando di casi veri. Se sento un dolore che mi dà angoscia, non mi sento dire: "venga il 24 maggio". E nel frattempo? Il dolore ha a che fare con l'attesa, con il tempo, con l'insicurezza, tutte variabili che non possono essere programmate. Tanti miei pazienti in terapia hanno partecipato a pratiche spiritistiche. Il problema non è di dire se credono o invocano il diavolo, ma di rendersi conto di quanto possa essere grande il dramma della solitudine del loro dolore, talora inesprimibile: visto che il dio ufficiale non parla, si può persino arrivare per paradosso all'opposto. E secondo me sono linguaggi da studiare con molto rispetto, perché, ripeto, ci sarà anche il caso della curiosità perversa, ma c'è soprattutto un malessere, una sofferenza sociale, che viene denunciata. Si può deridere questo? Forse meno da quando vivo ad Arco, un paese di 15 mila abitanti, ma questa cosa l'ho avvertita con molta drammaticità negli anni vissuti a Roma. Quei giorni festivi in cui non sai dove andare, in cui non si trova quello che cerchi, in cui il pronto soccorso ti dice: "Sì, forse sarebbe bene fare questo, ma tanto siamo intasati, non c'è posto". E ancor più quando questa sofferenza è data per scontata, quando un nostro familiare ha un tumore che sta andando avanti, ha una variazione, non regge, e ci si chiede: "Cosa faccio?", e al pronto soccorso dicono: "Ma tanto lo sa. cosa vuole che le facciamo?". Una domenica, a mia madre che era malata di rumore, si ruppe una fiala di morfina: girai sei farmacie, niente, poi, certo, approfittando di una certa condizione, sono andato in ospedale, dove mi hanno detto: "La porti qui!". Ma ho pensato: "Prendono una paziente preterminale e si sa cosa vuol dire". Perciò, finalmente, ho pensato: "Coraggio, telefono all'amica anestesista". Riconosco il privilegio del sottoscritto, però ho anche provato e capito quella reazione che in certi momenti ti fa distruggere tutto, per cui dici: "Basta!". Non si può non avere una risposta in cui il tempo. non dico debba coincidere col tempo della mia ansia divorante, ma non può essere il tempo indifferente scandito dall'orologio elettronico. Deve avere un rapporto con la vita. E' lì che ti rendi conto di come il tempo sia una convenzione. Ma questa è una strada senza ritorno? Su un piano culturale, stiamo vivendo passaggi epocali. La mia speranza, che credo fondata, è che questi segnali di malessere giungano al punto di creare piccoli pozzi dove le energie carsiche vengano fuori. E allora si può riprendere un filo interrotto o crearne dei nuovi, ricreare questa sensibilità che è fatta di rispetto e di accettazione di essere interrogati dalla vita. Questa è una mia utopia, legata alla mia scelta di vita, ma a ben guardare, cosa ci dice il nostro tempo? Trovo veramente interes-

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