Una città - anno V - n. 39 - marzo 1995

un 111ese di un anno B 1129 aprile del 93, una data che resterà nella storia del paese, quando il "partito del crollo" trainato dal giustizialismo di Lega e Rete tende una trappola al governo Ciampi. Ogni ipotesi di transizione graduale, per riscrivere le regole e dare tempo alle forze politiche di cambiare, viene travolta dalla fretta di vincere che si impossessa di una sinistra che di lì a poco sarà travolta. Una pagina di storia da meditare. Intervista a Marco Boato. Marco Boato, oggi ricercatore all'Università di Padova, è staro in Parlamento ininterrottamente per sette anni, per i Verdi, prima come senatore e poi come deputato. In particolare dal 92 al 94 si è dedicato alle questioni istituzionali e costituzionali e delle leggi elettorali, partecipando ai lavori della Commissione Affari Costituzionali e della Commissione Parlamentare per la riforma istituzionale. Tu hai vissuto la crisi degli ultimi anni da un osservatorio privilegiato, quello delle riforme istituzionali. Volevamo ripercorrerè un po' la storia di tale crisi, per tentare di capire perché siamo giunti al marasma attuale. Intanto va detto che, della crisi finale del sistema politico e istituzionale italiano, Tangentopoli è stata solo l'epifenomeno. La ragione profonda della crisi stava nel blocco, nella mancanza di alternativa in un sistema politico fondato al tempo stesso su una conventio ad excludendum e una ad includendum: esclusione della sinistra dal governo nazionale e sua inclusione in tutto il resto dell'amministrazione dello Stato. Con il crollo del Muro di Berlino e la fine della divisione in blocchi, viene meno il riferimento-internazionale che legittimava il blocco del sistema politico. Ovviamente questa paralisi del ricambio aveva incentivato fenomeni di corruzione a un livello inimmaginabile anche per chi, come me, ha fatto vita politica per molti anni dentro il Parlamento, però questo, ripeto, è una conseguenza, non è la causa, come molto spesso in questo periodo si è confuso. Ora, in questa crisi si fronteggiavano due schieramenti: da una parte il "partito del crollo", formato da forze di diverse aree politiche -Lega, Rete, Rifondazione Comunista- ma convergenti nel ritenere che bisognasse semplicemente picconare e buttar giù e che ogni tentativo di cambiamento graduale fosse non solo inutile, ma dannoso. Dal!' altra parte il "partito della transizione", di coloro che, rendendosi conto della necessità di superare il :vecchio sistema partitocratico e consociativo ma anche della follia, dal punto di vista di un cambio politico, di un crollo improvviso e generale, puntavano ad un processo di transizione graduale e guidata dal vecchio al nuovo attraverso una serie di tappe: il referendum elettorale, il varo successivo di una nuova legge elettorale, le riforme costituzionali e istituzionali in materia di forma di stato, di forma di governo e di garanzie istituzionali e, infine, il processo di cambiamento delle forze politiche, determinato sia dalla fine del vecchio sistema dei partiti sia dal cambiamento del sistema elettorale e costituzionale. Tre elementi facevano pensare che ci si fosse avviati su questa seconda strada: la vittoria dei sì nel referendum, sostenuta da una maggioranza di forze politiche, alcune delle quali ali' inizio alquanto scettiche che poi, per scelta o puro opportunismo, si erano accodate alla marea montante dell'opinione pubblica; l'istituzione, per la prima volta nella storia italiana con una modifica una tantum dello stesso articolo 138della Costituzione, che è I' articolo cardine per riformare la Costituzione, di una commissione, an- .data sotto il nome di Commissione ·Bicamerale, a cui veniva attribuito il compito di disegnare la riforma costituzionale della seconda parte della Costituzione, cioè dell'ordinamento della Repubblica; l'inizio del lavoro di messa a punto della nuova legge elettorale. Questi elementi e un adeguato lasso di tempo, non anni ma alcuni mesi, avrebbero poi permesso i processi di adeguamento e cambiamento delle forze politiche. Qual è il punto di svolta che ha bloccato e fatto fallire questo processo di transizione? Il punto di svolta è il 29 aprile. Ricordiamoci le tappe della primavera '93: il 18 aprile il referendum segnò anche la fine del governo Amato; si formò per la prima volta il governo Ciampi, che era un mix tra un governo in parte tecnico e in parte politico, molto aperto e potenzialmente con una grossa base parlamentare, che dal vecchio pentapartito, oramai in aperta rotta, si allargava al Pds e ai Verdi, piccola formazione, ma nuova ed estranea al vecchio sistema del pentapartito. i ministri del Pds durarono ventiquattro ore Io seguivo dall'ufficio di Rutelli le difficoltà spaventose che stava incontrando in quel momento il Pds nel decidere se accettare o meno, ma finalmente il governo Ciampi fu varato il 28 di aprile e il 28 sera venne annunciato che quattro ministri erano del Pds e uno dei Verdi, il che era già una svolta storica perché si legittimava per la prima volta il Pds a governare, ma era una svolta graduale, non traumatica rispetto ai pentapartiti precedenti, con Ciampi presidente del Consiglio e con una serie di ministri, per di più altamente qualificati, che per la prima volta erano stati scelti senza trattative di partito. Il tutto è durato lo spazio di 24 ore: la mattina del 29 i ministri giurarono al Quirinale e si avvertiva la sensazione perfino fisica di una svolta profonda e anche gioiosa, perché inquel clima di disfacimento del vecchio si cominciavano a vedere novità: il referendum dieci giorni prima, ora il governo, le nuove facce dei ministri. Ricordo che, a mezzogiorno, partecipai con Rutelli a una conferenza stampa molto festosa all'Hotel Nazionale, in cui Rutelli alla presenza di tutte le associazioni ambientaliste, annunciava il programma di lavoro. li pomeriggio del 29, per una pura coincidenza casuale, c'era alla Camera la votazione sull'autorizzazione a procedere su Craxi e nel1' inavvertenza di quasi tutti scattò un trabocchetto parlamentare classico, una trappola per fare cadere un governo formato la mattina, che nulla c'entrava con quel voto parlamentare: Craxi ottenne la maggioranza in proprio favore su alcune votazioni, non tutte, e fu subito chiaro, perché alla Camera pochi minuti dopo il voto si hanno i tabulati della votazione e si possono fare le somme, che Craxi aveva ricevuto sottobanco una settantina di voti da chi sui banchi gli urlava contro, cioè dal!' area della Lega, della Rete e del Msi. Che fosse una trappola, poi, l'avrebbe riconosciuto anche un bambino dal fatto che, tre minuti dopo il voto su Craxi, c'era già una manifestazione organizzata davanti alla Camera, con urla contro il governo e il Parlamento. Ma stupidamente e irresponsabilménte il Pds e, purtroppo, anche i Verdi, ci cascarono e, col parere contrario mio e di pochi altri, decisero l'uscita immediata dal governo Ciampi per punire il Parlamento che aveva votato a favore di Craxi. E' una vicenda che seèondo me ha segnato una svolta nella storia italiana. Se l'Italia oggi si è incartata su se stessa, senza proseguire il processo di cambiamento graduale che pure nel terremoto si era sviluppato, la ragione sta in quel confronto fra il partito del crollo e il partito della transizione, o, in altre parole, fra il partito massimalista, populista, giustizialista e il partito riformatore, democratico, garantista. Occhetto credo dica la verità quando nel suo libro fa capire che fu D' Alema a chiedergli di ritirare i ministri dal governo, ma ciò non toglie che ogni leader politico deve assumersi le sue responsabilità. Comunque, di chiunque siano personalmente le responsabilità, quelle scelte comportarono la scelta dell'astensione: il governo Ciampi diventava a termine e a fine anno Ciampi doveva essere liquidato per andare rapidissimamente alle elezioni. Tutto questo impresse un' accelerazione enorme nel varo delle leggi elettorali. Cambiare un sistema elettorale che ha retto per 50 anni non è una cosa facilissima. Ricordo che a volte trovavamo errori sulle norme e per fortuna riuscivamo a correggerli, ma ali' ultimo momento, perché qualcuno faceva una verifica. E naturalmente la necessità di fare in fretta rese più forte la pressione del!' ala proporzionali sta, che allora, non dimentichiamolo, andava dal Msi a Rifondazione Comunista, dalla Rete alla Lega. Quella fretta portò anche al varo a tempi forzati della regolamentazione delle campagne elettorali, quella di cui si riparla in queste settimane. Il risultato fu, da una parte, quello di un eccesso, a volte maniacale, di normative, per cui adesso ci sono centinaia di eletti e di candidati non eletti, sottoposti a multe di 30, 40, 50, I00 milioni per errori formali o per ritardi di alcuni giorni, e dall'altra che cose macroscopiche come i conflitti d' interesse passassero senza neanche rendersene conto. Abbiamo discusso ore e ore casi come quello del politico locale che ad hoc si compra o si affitta la televisioncina locale per farsi propaganda elettorale e iIcaso più grave, quellodell 'eventuale presentazione del padrone delle principali tv private, di chi non le deve comprare perché le ha già, non fu esaminato. Ma ripeto: non si cambiano le regole da un giorno all'altro, di notte, improvvisando. Vi potrei raccontare come facevamo le leggi perché eravamo 5-6 persone in tutto: è una commissione di 30 che le vota, ma chi le fa sono 56 persone, che possono capire e non capire, pensarci e non pensarci e se tu non hai il tempo di farle vedere a degli esperti e di sottoporle al vaglio dell'opinione pubblica, tutto diventa abborracciato, improvvisato. Malgrado ciò si produsse un progetto perfettibile ma dignitoso di riforma della seconda parte della Costituzione nelle due materie principali: riforma dello Stato, cioè la questione regionalismo-federalismo, e riforma del governo, la questione del primo ministro, della sfiducia costrutti va. Ed erano tante le innovazioni importanti. Basti un esempio: oggi il Presidente del Consiglio può scegliere un ministro, che poi il Presidente della Repubblica nomina, ma non ha il potere di revocarlo. O c'è una mozione parlamentare di sfiducia ad hoc su di lui, che però deve avere la maggioranza -e finora non ne è mai passata una e ne sono state presentate varie-, oppure quel ministro resta lì anche se è in totale dissenso con il Presidente del Consiglio del cui governo fa parte. Una delle cose ovvie che avevamo introdotto è il fatto che il primo ministro ha il potere di nomina e di revoca dei ministri. Pensiamo a cosa sarebbe successo se fossimo riusciti ad andare alle elezioni 6 mesi dopo, avendo fatto o il federalismo o la riforma regionalista -e su questo terreno il progetto elaborato era molto avanzato-: avremmo tolto tutto il terreno alla Lega, che ha avuto l'esplosione massima proprio nel marzo facendo una campagna ali' insegna di un federalismo puramente flatus vocis, usando una parola vuota di contenuti come randello sulla classe politica. E se c'è una cosa su cui dò ragione a Berlusconi, perché sono testimone, è quando dice di aver sempre chiesto alla Lega: "datemi il vostro progetto federalista, datemi un pezzo di carta, ditemi cosa intendete" e di non aver mai avuto niente. Il progetto è stato presentato il 12 gennaio, se non ricordo male, e pochi giorni dopo si è sciolto il Parlamento. Io ho vissuto in prima persona il dramma di una donna come la Jotti, che è diventata presidente della commissione quando De Mita ha dovuto dimettersi per le vicende del fratello, la quale, essendo tra l'altro un'antica membra della Costituente del '46-'47, della stessa commissione dei 75, aveva preso con molto impegno questa carica. Ma il suo stesso partito all'interno della commissione faceva di tutto per delegittimarla, per impedirle di fare. A un certo punto il relatore di una delle parti di questo progetto, Bassanini, cioè l'esperto del partito della Jotti in materia di riforme costituzionali, minacciò le dimissioni da relatore per costringere la Jotti a frenare la sua volontà di accelerare i tempi per arrivare all'esame. Ma sia la Lega che la sinistra erano entrambe convinte di poter e dover dare la mazzata definitiva al vecchio sistema, quello era ormai il clima incandescente che si era creato nell'autunno del '93. Ogni giorno c'era un martellamento costante sul Presidente della Repubblica perché sciogliesse il Parlamento. una sinistra che scappa se c'è da governare Feci una lunga interrogazione al Presidente del Consiglio indicando tutte le occasioni in cui la Lega insultava il Presidente della Repubblica Scalfaro in modo violentissimo e feroce. Allora la Lega considerava Scalfaro poco meno di un criminale, oggi siamo a parti rovesciate con la Lega che difende Scalfaro e qualcun altro che lo attacca: paradossi dei tempi che viviamo. Se ci andassimo a rivedere le tribune politiche di allora vedremmo che quasi tutti continuavano a dire "bisogna sciogliere il Parlamento e andare a nuove elezioni". Era la follia, frullo della scelta fatta quel 29 aprile, abbandonando la logica del governo Ciampi. E il Pds non capiva su quale china ci si stava mettendo? La sinistra credeva di avere la vittoria in tasca, si sarebbe magnanimamenteoccupala delle regole poi. "Le faremo dopo", dicevano, senza rendersi conto che, chiunque vinca, è completamente diverso fare le riforme costituzionali col sistema proporzionale e farle col sistema maggioritario. All'obiezione che bisognava dare tempo alle forze politiche di riorganizzarsi, di rifondarsi, di riflettere, perché ci vuole tempo per cambiare in politica -il Ppi dovette fare il congresso di fondazione praticamente già a elezioni indette- la risposta era: "non diamo il tempo alle destre di riorganizzarsi". Il risultato s'è visto: le destre hanno vinto le elezioni. Non parliamo di cosa fu la campagna elettorale. Tutti quelli che avevano una concezione riformatrice, graduale, equilibrata, della transizione democratica, sono stati quasi tutti Iiquidati perché oggetti vamente alleati della destra. Oggi ci lamentiamo che le coalizioni del marzo '94 erano abborracciate e improvvisate. E se sicuramente lo era quella di destra perché non si può fare un'alleanza al nord con la Lega e una al sud col Msi mentre i due si insultano in tutta la campagna elettorale, la sinistra non fu da meno. Chiunque abbia conosciuto quelli che vanno sotto il nome sciagurato di "tavoli dei progressisti" sa che i peggiori esperimenti di intergruppi della nuova sinistra degli anni '70 erano un capolavoro di equilibrio, rispetto alla guerra per bande, alla rissosità e alla strumentalità di quei tavoli, dove l'unico problema era piazzare i propri nei collegi che si ritenevano vincenti. Si potrebbe fare uno studio psichiatrico sul concetto di collegio vincente. Quali risse, quali coltellate, quali lotte hanno suscitato quei collegi vincenti che nel 90% dei casi, o perché non c'erano i voti o perché candidati erano ignobili, sono diventati perdenti! Non so se avete mai riflettuto sul- !' idiozia del concetto di progressismo: se c'è qualcosa che fa a pugni con una moderna concezione dei rapporti fra uomo e ambiente, fra uomo e scienza, fra uomo e produzione è la cultura di progresso che è un'ideologia ottocentesca tardoilluminista, esattamente l'opposto di una moderna cultura politica. Noi siamo arrivati a presentarci - noi?loro?-nell'annodigrazia 1994, alle elezioni con un concetto riesumato negli anni '30 dallo stalinismo, quando, superata la teoria del social-fascismo, bisognava recuperare come "compagni di strada" i socialisti. L'idea che nel '93-'94 si potesse affrontare la sfida di governo con questi concetti, con questa cultura politica è un'idea folle. Il bello poi era che tutto questo andava esattamente nella direzione opposta ali' indicazione che duetre mesi prima era venuta dall'elezione dei sindaci. Quali sindaci avevano vinto in Italia? I Castellani, i Rutelli, i Sansa, i Cacciari, quelli che avevano un' impostazione di centro-sinistra, di sinistra moderata, capace di conquistare il centro. Avevamo avuto tre casi paradigmatici che ci dovevano insegnare cosa sarebbe successo se quella fosse stata, come poi è stata, l'impostazione dei progressisti: Novelli a Torino, Dalla Chiesa a Milano, Fava a Catania. Tre casi in cui una sinistra egemonizzata dalla Rete, con posizioni oltranziste, masUNA CITTA' Abbonamento annuale La testata UNA CITTA' è di proprietà della cooperativa UNA CITTA'. Presidente: Massimo Tesei. Consiglieri: Rosanna Ambrogetti, Paolo Bertozzi, Rodolfo Galeotti, Franco Melandri, Gianni Saporetti, Sulamit Schneider. Redazione: Rosanna Ambrogetti, Marco Bellini, Fausto Fabbri, Silvana Massetti, Franco Melandri, Morena Mordenti, Massimo Tesei, Gianni Saporetti (coordinatore). Co/laboratori: W CarrdoeRi irparmdiFi orlì s.p.A. a 1Onumeri: 40000 lire. e.e. postale n.12405478 intest. a Coop. Una Città a r.l. - Forlì Redazione: p.za Dante 21, 47100 Forlì Tel. 0543/21422 Fax 0543/30421 Si possono richiedere copie saggio. 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