Una città - anno III - n. 26 - ottobre 1993

te. Ancora non controlla la suaistintualità, non la sa dominare. non l'ha disciplinata. con l'Aids la morte viene . . 1nmezzo a noi Oppure il rapporto si basa sullo scambio. L'altro cosa mi può dare e cosa mi può togliere? Cosa può dare o togliere a mio figlio? Non "siamo tutti sulla stessa barca e bisogna che stiamo tutti bene", no, l'importante è che mio figlio stia bene. L'altro può dargli o togliergli qualcosa e allora io devo diffidare, perché il rapporto è di scambio e mio figlio nello scambio non deve perderci. Questo vale per I' Aids, ma anche, per esempio, quando in una scuola c'è un bambino disadattato. Allora i genitori degli altri si ribellano per quel tanto che ci può perdere il proprio figlio. Altra cosa ancora, invece, è se i rapporti sono disinteressati per cui non sono io in primo piano, ma le persone acui voglio bene. In primo piano non più "io", ma "noi". Il problema fondamentale, quindi, è anche un problema sociale. Qual è il modo prevalente dei rapporti nella nostra società? Lo scambio, in cui tutti diffidano di tutti. E nel momento in cui uno sta per morire, di qualunque cosamuoia, per essere aiutato ha bisogno che gli si voglia bene. Infatti, nei rari casi in cui questo avviene, si può tenere il malato di Aids in fase terminale a casa.Ed è lui stessoche si preoccupa di non contagiare i suoi. Gli altri non hanno bisogno di ricordargli che è pericoloso, non hanno bisogno di diffidare, perché è lui stesso che non vuole far loro del male. E' la direzione verso cui bisognerebbe andare, ma nel caso dell' Aids è una direzione difficilissima non solo perché la maggior parte di quelli che sono sieropositivi o malati, sia tossicodipendenti che omosessuali, hanno delle storiacce alle spalle, ma anche perché nel momento in cui c'è da dare solidarietà ad un altro bisogna dedicarsi a lui. Ma se il mondo in cui vivi è organizzato invece sullo scambio e il calcolo questo diventa assolutamente impossibile. Tenersi in casa una persona che ha bisogni fondamentali, cioè ridotta ad uno stato di sopravvivenza, implica volergli molto bene e soprattutto esseredisinteressati, perché altrimenti il peso diventa eccessivo. Si ha l'impressione che I' Aids abbia ributtato la morte dentro la società, come una realtà con cui in qualche modo bisogna fare i conti. E' così? Certo, questo è verissimo e si vede bene, per esempio, nella differenza di atteggiamento che c'è sul dire o meno la verità al paziente, tra il malato di cancro e il malato di Aids. Nessuno si sogna di dire al malato di Aids che ha qualcosa d'altro. Anzi, bisogna dirlo, e uno che sa di essere sieropositivo ha tutte le informazioni per sapereche deve morire. Non è detto che la morte venga portata nella consapevolezza del paziente, perché ci sono quelli che non vogliono saperlo e non conta niente dirgli tutto. Ma Sacro Cuore, trafitto dalle spine e mostrato non come assoluto, ma nel suo luogo. Ciò che impedisce l'ascolto del dolore può suonare anche così: bisogna essere ben coscienti del male, il male deve essere continuamente visto inmodo così aperto e inconfutabile da zittire. Non viene zittita la "denuncia": la denuncia spesso ha già dichiarato la sua impotenza di fronte all'assoporta questa consapevolezza nella società. rende il tabù della morte più difficile. E' finita la storia della rimozione della morte, del vivere come se non dovessimo mai morire. In realtà continuiamo a vivere così, perché è difficile cambiare, ma tulio questo è in crisi. Con I' Aids la morte viene in campo, viene più esplicitamente in mezzo a noi. Però ha ancora qualche arma per rimuoverla, cioè considerarla pur sempre qualcosa che non riguarda tutti. Sì, unacosache riguarda le famose categorie arischio. E il primo effetto che determina sono i messaggi della prevenzione, tutti indirizzati ai sani. La seconda conseguenza è che si tende a rafforzare, perché è quella più difensiva, la modalità dei rapporti di diffidenza edi scambio. Viene paura, si vive il mondo come minaccioso, si vivono i rapporti sessuali, i rapporti intimi, come minacciosi, si vivono le relazioni amorose come minacciose. E allora, se sono minacciose, meglio rinunciare, ritirarsi, accettare l'esistenza, per quanto brulla possaessere. E si rafforza anche un modo, già prevalente, di rapportarsi con gli altri pensandoche l'altra persona può strumentalizzarti, può farti passarequalcosa di brullo; diventa qualcuno di cui diffidare. Diverso sarebbesevivessimo in una società in cui si concepisce un bene comune, non ciascuno il suo bene in lotta con il bene degli altri. responsabilizzarsi della sofferenza dell'altro Quindi I' Aids porta in campo alcune questioni fondamentali del vivere sociale, le rende più drammatiche. Sottolinea che bisogna fare una scelta, perché finché possiamo pensare di sconfiggere tutti i mali, allora facciamo quello che ci pare, tanto dopo c'è il rimedio. Mette in crisi l'idea adolescenziale per cui ognuno è libero di fare tutto ciò che vuole, perché lo scopo fondamentale della vita è stare bene e questo non si arresta neanche di fronte al male che posso fare ad un altro o a me stesso. C'è un punto di vista filosofico, quello che rende possibile la solidarietà, la compassione, l'amore, ed è la consapevolezza che non si può capire l'altro perché quello che uno vive dentro di sé solo lui lo conosce ma, semplicemente, quando l'altro ti chiama perché ha bisogno di qualcosa, tu sei responsabile. Se non fai niente sei colpevole anche se non hai provocato le sue sofferenze. Quando entro in contatto con un' altra persona o sono convinto che quella persona io la rispetto così com'è, anche se non la capisco, allora il contatto rimane, oppure cerco di strumentalizzarla e lei cerca di strumentalizzare me. Se penso che le cose debbano stare in questo secondo modo, quando incontro l'altro non è un problema di rispetto. Se invece il rispetto viene prima, tutti i rapporti si stabiliscono in un altro modo. lo so che per quanto l'altro si avvicini non si può mai avvicinare più di tanto, perché è sempre lui. Per quanto io lo capiun posto visibile, non assoluto, significa perderne, forse gradualmente, coscienza. Vederlo incatenato allo svelamento, o al Karma, o a qualcos'altro, ossia non lasciarlo sfuggire ad uno sguardo, lo fa già scomparire come assoluto. Questo incatenamento del male non è politico: è per essenza impolitico, è una defenestrazione impolitica. luto che le sta di fronte, è quasi un Dire che anche il dolore di Auomaggio. Quelli che corrono ai mi- schwitz, anche la Bosnia, non sono crofoni delle televisioni in piazza assoluti, ma hanno il loro "posto" (e per denunciare gridando, stanno proprio dire qual è il lavoro del penomaggiando, grazie ai compiacenti siero, o della testimonianza religiogiornalisti in funzione di sacerdote, sa, ad esempio) è troppo scandaloil male, la sua assoluta mancanza so, è un'altra forma svergognata, di ragione, il suo tentare di nascon- del cinismo occidentale? Credo che dersi in una dimora da cui nessuno sia più cinico soggiacere al grido possa svelarlo. Purtroppo per i gior- che impietrisce, o lasciarlo risuonanalisti, lo svelamento è necessario re liberamente. Per il buddhismo nello stesso senso in cui è neces- questo stesso "cinismo" è, al consaria, destinata, l'esistenza. Mi ha trario, la compassione. li dolore non sempre colpito una frase di Kafka è assoluto nemmeno fisiologica- (che sul male ha detto più di intere mente, poiché ad un certo punto la schiere di teologi): solo il male ha morte, "pietosa", lo misura. La sua et.Ti OtèCàvaG ìn°0.,; 08 r a neo· sca,posso fare solo dei tentativi per capirlo. Per quanto lo aiuti, posso fare solo dei tentativi per aiutarlo. Per quanto lo domini, posso dominarlo fino ad un certo punto perché può mandarmi a quel paese. Ma si può condividere una sofferenza senza aver provato quella stessa sofferenza? La sofferenza è sempre propria. Il compatire consiste nell'aiutare chi chiede aiuto. E aiutando soffro un po' anch'io, perché l'altro mi fa soffrire. Per capire l'altro in qualche modo lo porto dentro, ma deve esserci qualcosa di più. Non basta capire, altrimenti mi potrei interessare solo di coloro che sono più simili a me. La questione sta nel sentirsi responsabili di fronte alla sofferenza di un altro. Per aprirsi a questa sofferenza, affinché ci sia vera compassione, ci vuole il dialogo, un dialogo che porti al di là del patire. Altrimenti è un patire egoistico, ognuno patisce il suo e alla fine, se la sofferenza cresce, il patire insieme non porta molto lontano. Quando tu patisci mi lanci un appello, io mi sento responsabile e daquel momento iniziamo unastoria diversa. Non basta che io senta la tua sofferenza dentro di me, perché nel momento in cui rispondo al tuo appello non è detto che sappia come aiutarti. Non è il fallo di sentire dentro la sofferenza dell'altro che mi avvicina. Quello che mi avvicina è il distinguere fra la mia sofferenza e la sua. Lui mi fa soffrire, ma il malato è lui e io soffro perché, essendoaperto a lui, quello che c'è in lui mi arriva come un appello che chiama. E se mi sento responsabile rispondo a quell'appello, ma non è dello che sappia cosa fare. Quanta gente c'è che risponde agli appelli e quando agisce fa più male che bene? lasciare che chi soffre esprima la sua sofferenza Questo soprattutto perché si suppone che basti rispondere all'appello per aiutare. E non è vero. E' da quel momento che deve cominciare qualcos'altro. Se io ti rispetto, sedistinguo fra la tua sofferenza e la mia, allora comincia il dialogo. Cosa posso fare per te? Se non mi dici niente, se non capisco, decido io, ma non sosefaccio beneo male. Provo, ed è dalla tua risposta che capisco. Mi assumo la responsabilità di farti una carezza o di darti uno schiaffo, ma solo dopo che reagisci scopro seho fatto la scelta giusta. In definitiva io ci sto solo provando. E in questo dialogo diventa poco importante quello che riesco a fare, è una costruzione continua. Costruiamo qualcosa che va al di là della sofferenza tua e mia, perché costruiamo uno stare insieme, un vivere insieme che è oltre noi stessi. Non necessariamente vuol dire soffrire meno, ma quello stesso dolore può esseretutta un'altra cosa da vivere. Nelle situazioni tragiche, essere insieme ad altri e sentirsi insieme ad altri diventa più importante del dolore di ciascuno. Il dolore permane,maciascuno non è più prigioniero del suo dolore e morte (che la morte sia vista, in Occidente, come l'estremo dolore, è forse un'ulteriore conferma dell'ipotesi). Ho riletto, mentre pensavo queste cose, Claros del bosque di Maria Zambrano, un libro che luccica ancora nelle librerie come una pietra preziosa fra tonnellate di carta già quasi macerata. Dice la Zambrano, con una lucidità di cui l'ho ringraziata, in queste parole che propongo come un possibile pensiero del dolore: "Il cuore è il vaso del dolore, può custodirlo per un certo tempo ma poi, inesorabilmente, in un attimo lo offre. Ed è allora calice che tutto l'essere della persona è tenuto a sorbirsi. E se lo fa lentamente con il dovuto coraggio, via via che esso si diffonde per le diverse zone dell'essere comincia a circolare con il dolore, mescolata ad esso, inesso, la ragione. Il rischio tante volte concretatosi dell'"impassibilità" che, da così lontano e da tanto in alto, si lasciò stabilito essere indispensadel suodestino, è già oltre sestesso. Sta costruendo qualcosa con altri, allraverso un appello di aiuto e la risposta rispellosa dell'altro a questo appello. In questo senso i gruppi di autoaiuto cosa indicano'? I gruppi di autoaiuto di solito nascono per impulso di altri e si chiamano di autoaiuto in modo impreciso, perché non sono mai solo di persone malate. C'è sempre qualcun altro ali orno. Tullo questomette in mostra una situazione di crisi molto diffusa, che ha a che fare coi rapporti umani, coi rapporti con se stessi, che ha a che fare con la comunicazione con gli altri e con se stessi. la società tende a difendere solo i sani Poi ci sono situazioni in cui è possibile esprimere tulio questo. E se insieme si riescono a dare delle risposte, si può costruire unsuperamento della crisi. Ci può essere sollievo nel fallo stessodi esprimere una sofferenza. Il primo livello di aiuto per una persona che soffre consiste proprio nel lasciargli esprimere quello che sente, fossero anche le cose più turpi del mondo. Il pianto, la disperazione, la rabbia. Invece c'è di solito una diffusa ostilità rispetto all'espressione dei sentimenti negativi della sofferenza, perché la maggior parte delle personereagiscecome fanno i bambini. Non distinguono tra la sofferenza dell'altro e quella secondaria, propria. E se non sa distinguere, allora pensa che la sofferenza vera sia la propria e non quella dell'altro. Molte reazioni, il più delle volte, equivalgono ad una ostilità repressiva nei confronti della personasofferente. Spessochi assisteil malato gli dice "Non piangere, non ti disperare, fallo per me". Spessissimo, negli ambienti assistenziali, c'è l'alibi che in fondo tutto ciò che facciamo per una persona consiste in quello che facciamo materialmente, tecnicamente, per lui. Ma c'è tutta un'altra dimensione che acquista sempre più importanza mano a mano che l'intervento tecnico diventa inefficace. Un'altra dimensione che è molto più importante. In fondo dietro tutte queste tematiche c'è una battaglia culturale e bisogna essere coscienti che se riusciamo a far procedere in un certo modo i rapporti tra le persone, allora certe cose hanno senso, altrimenti ogni discorso è inutile. La società risponde ali' Aids come ad una peste e difende i sani. Si scorda dei malati. Non so se avete mai visto un reparto di malattie infettive: lì non si tiene conto che prima o poi la morte arriva, la sofferenza inevitabile arriverà. E' un reparto di ospedale come gli altri, tutto teso alle esigenze tecniche, perché la cosa più importante è prevenire e sconfiggere la peste, mettere tutte le energie per difenderci dal contagio. Ma se ci mettiamo cinquantanni? Seper fare questo, nei prossimi 50 anni, tutti diffidano di tutti, che prezzo abbiamo pagato? • bile all'esercizio della conoscenza razionale, è che essa impedisca che la ragione sia awertita primariamente nel dolore, unita a esso e come generata o almeno rivelata da esso. Che il dolore sia un fatto quasi accidentale. Che il dolore non abbia essenza, che sia stato ineludibile senza avere però né essenza né sostanza. Che non possa che star lì senza circolare. E che non circolando non possa dawero, invero, essere assimilato. In questa offerta del cuore, vaso, calice del dolore, si attualizza, si traduce in atto il soffrire che si continua, e che si trascina per tempi indefiniti senza unità, come una liana che awolge la ragione negandole la libertà. La ragione funzionando si sbarazza di questa passività serpeggiante, di questo gemere, e la volontà finisce per conseguire l'assordamento dello stesso cuore, centro per eccellenza dell'ascolto. Quella sordità del cuore che, proteggendolo, lo tradisce". Ivan Zattini • • staz1on1 CREARE DAL NULLA Del diario redatto da Pier Paolo Pasolini in oècasione del suo primo viaggio in India, in compagnia di Alberto Moravia ed Elsa Morante, apparso con il titolo "L'odore dell'India" (una raccolta di cronache, a mio parere, assai modesta, in cui la precipitazione dei giudizi tradisce la volontà dell'autore di dare subito un quadro dell'India prima ancora di averne osservato la complessità), nonmi resta che un unico episodio alla mente: l'incontro con Madre Teresa di Calcutta. Pasolini racconta che Suor Teresa, nel corso della conversazione, avrebbe detto che "solo iniziative del suo tipo possono servire, perché nascono dal nulla". La frase, per quanto marginale in quel contesto, direi rappresenti una preziosa indicazione in vista di una riscoperta del significato de/l'impegno. Di fronte a problemi come quello della povertà, molti di noi che vivono in società abbienti sperimentano una tormentata impotenza. Impotenza che, tra l'altro, si acuisce ogni giorno di più con l'aumentare delle informazioni. La quantità di dolore, infatti, che si presenta ai nostri occhi sembra tale da rendere superflua ogni nostra iniziativa. Ci sentiamo, cioè, oscillare tra la necessità di un impegno politico che miri a risolvere la questione nella sua globalità e l'urgenza di un impegno personale che rechi, nella misura che ci è concessa, un immediato sollievo alle persone afflitte. Di entrambe le posizioni, però, nutriamo una inguaribile diffidenza. Il volontariato, ad esempio, sembra correre il rischio di diventare funzionale al sistema di oppressione; l'impegno politico, di giustificare atrocità e compromessi per il raggiungimento e la salvaguardia dei propri ideali. Le radici di questa comune diffidenza, impotenza, esitazione, credo vadano ricercate in tutto un atteggiamento "critico" che la nostra civiltà è andata assumendo ed esaltando nel corso dei secoli. Ritenendo le nostre azioni sempre più prive di unsignificato in se stesse, a cui ciascuno liberamente può decidere di rapportarsi, ma in relazione a ciò che negli altri vengono a significare o potrebbero determinare, esse si prestano ad essere analizzate all'infinito e a diventare un vero oggetto di consumo. La coscienza dei pericoli a cui ogni azione per sua natura si espone rischia, allora, di divorare la possibilità stessa dell'agire, lasciando il campo ad avventure irrazionalistiche e ad interessi egoistici e particolari. In realtà, come non è possibile parlare del proprio corpo senza continuare ad alimentarlo e curarlo; allo stesso modo, noi agiamo anche quando pensiamo di non agire. Malgrado ciascuno di noi si possa illudere di essere in attesa delle condizioni che gli permetteranno di mostrare le proprie qualità, e alla conquista di queste condizioni sacrifichi una buona parte dell'esistenza, noi siamo in ogni istante ciò che facciamo. Convincersi dell'opposto sarebbe come ritenere di poter vivere in modo indegno per tutta una vita nella speranza di redimersi all'ultimo istante. Viceversa, capita in alcuni momenti della nostra vita e della storia di avvertire all'improvviso di essere di fronte alla nostra occasione, ma di rimpiangere di non poterla afferrare perché protesi verso un'ambizione lontana, forse gratificante ma più spesso meschina, abbiamo trascurato ciò che sin dall'inizio possedevamo: la semplicità di corrispondere ad un'azione la cui autorità -mi verrebbe da dire: la cui verità, bontà e bellezza- riluce continuamente in se stessa. "Solo iniziative come le sue possono servire", allora, perché non sorgendo all'interno di un progetto, quanto meno umano, di salvezza e senza inaugurarne uno nuovo, "dal nulla", in primo luogo di se stessi, si riconoscono in ciò che è. La povertà, la malattia, le sofferenze psichiche e morali cessano in tal modo di essere davanti a noi, ma trovano posto dentro di noi. D'altra parte, come si potrebbe mai portare la pace se non si è pacifici, come accogliere unpovero se non si è poveri e disponibili a privarci di ciò che inutilmente ci appartiene? Forse la maggiore violenza procurata agli afflitti non sta nella sottrazione dei beni, ma nel presentarci a loro privi della nostra povertà. Suor Teresa non è esemplare per la sua oblazione, ma perché sa essere più libera di noi, le sue iniziative non guardano al futuro, piuttosto vengono dal futuro. Gianluca Manzi quindicinale di cultura e attualità una lettura dei punti chiave del cambiamento nella società, negli equilibri internazionali, nella Chiesa dal sommarlo n. 20 - 15 ottobre 1993 Raniero La Valle Quando un Parlamento brucia Maurizio Salvi Russia: Dal massacro un monito all'Occidente Alberto Poggi Le guerre dell'acqua Giancarlo Zlzola Verltatls Splendor: Una sana ambiguità Filippo Gentllonl Polltlca italiana: Il sogno svanito Romolo Menlghettl Ladri sl, ma rispettosi delle signore Sabino Acquaviva Il fine ultimo della politica Fiorella Farlneill Lavorare meno, lavorare tutti? Maurizio Uchtner Dizionario politico: Contratto sociale Alberto Leoni Alienazione: Buona notta al nonno ... dolcemente Marcello Bulattl Fino a che punto slamo geneticamente determinati? Amedeo Santoauouo Vaccinazioni obbligatorie: Il conflitto tra libertà Individuali e Interessi collettivi Paolo Gallne La scienza della fantascienza ManuelTeJera de Meer/MarlnaNenna Psicologia: Cosa è meglio per I piccoli Under 18 A che serve Il tema scolastico? Stefano Cazzato Dussel: Il progetto trans-moderno carto Molari Libertà e comunità, etica e politica Adriana Z.rrl Anticlericalismo di ritorno Arturo Paoli Educare alla sobrietà Giullano Della Pergola Letteratura: La variante di LOneburg Giacomo Gambetti Cinema: Samba Traorè Stefano Cazzato La cultura In televisione Rubriche: Cl scrivono i lettori • Primi Plani Attualità • Scienza, Tecnologia e Società- Cinema - Teatro• Tv • Arte - Fotografia - Letteratura - Musica - Riviste - Libri - Rocca/schede 64 pagine una copia L. 3.000 abbonamento annuale L. 60.000 Cittadella - 06081 Assisi richiedere copie saggio UNA CITTA' 1 5

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