Una città - anno III - n. 26 - ottobre 1993

proble111i di confine La vergogna e la rabbia che accompagnano l'Aids. Il ritorno in campo della morte. L'importanza, in una situazione tragica, di sentirsi con gli altri. Intervista a Francesco Campione. Francesco Campione è tanatologo e di rettore di ""Zeta", rivista che si occupa della morte e del morire. Nel morire dei malati di Aids c'è un qualcosa che è dovuto alla particolarità della malattia? Direi che ci sono alcune specificità, ma in un quadro di immutabilità. Morire è sempre qualcosa di relativo al modo di essere di ciascuno. Ciascuno muore amodo suo, per qualunque ragione muoia. Questo è riferito alla morte. Altra cosa è il morire, cioè quel periodo della vita che uno sasfocerà nella morte. Qui le cose possono cambiare a seconda della situazione esistenziale propria di questo morire. Evidentemente chi muore di Aids ha una situazione esistenziale particolare; il suo morire è particolare. Innanzitutto è un morire sotterraneo, senza pubblicità, pieno di vergogna, un morire che bisogna nascondere. In un certo senso è I' ultima emergenza della morte impudica, un'emergenza moderna. Ormai non c'erano più morti di questo tipo, nessuno si vergognava per il fatto di essere in una condizione di morente. Magari si arrabbiava, magari cercava di incolpare qualcuno o si sentiva in colpa, ma uno che moriva, in generale, di qualunque cosa m9risse, non si vergognava di questo. la sottocultura nascosta dei gruppi di malati Però bisogna stare attenti, perché c'è interferenza tra la sottocultura dei gruppi di malati di Aids e le sottoculture dei gruppi da cui questi malati già provengono, adesempio la sottocultura dei tossicodipendenti, del l'omosessualità. Intendo naturalmente sottocultura nel senso di "under": nascosta, ai margini. E questa è una complicazione che può ostacolare il costituirsi di un gruppo. Un morente di Aids extossicodipendente e un morente omosessuale difficilmente si capiscono e questo può creare complicazioni. Non solo, ma c'è unacomplicazi.on~ più grossa che deriva dall'esperienza. Abbiamo visto nel1'esperieriza dei gruppi di autoaiuto, dei gruppi di psicoterapia, che spessissimo ci sono vicende di abbandoni, di riprese, per cui non si possono considerare veri e propri gruppi. La ragione fondamentale di questo, a mio modo di vedere, è che quando uno vive una condizione esistenziale così specifica, così unica, così individuale, come quella del soffrire e del morire, è difficilissimo stabilire rapporti con altri, perché è difficilissimo trovare punti di contatto. Certo possono esserci, però ci sono grossi ostacoli. Per questo io direi che queste cose sono un po' mitizzate, nella realtà non è così. Sono gruppi veramente precari, la realtà è spesso una realtà di angosce. Dove il gruppo può servire, e spesso serve, è nell'aiutare una persona a rendersi conto che le risposte che si dà sono risposte parziali e che ce ne sono altre, che altri danno. Che possono essereun motivo per andare al di là da sé. Come sempre, il dialogo, l'incontrare altri diversi da sé, seci si apre, può aiutare. Per esempio sul modo di vivere la morte. Capire che ci sono altre modalità di elaborazione o anche, ad esempio, sul curarsi. Ci sono certi farmaci che, dando effetti collaterali notevoli, incontrano grosse resistenze perché si sta male, ci si sfascia lo stomaco, vengono le piaghe alla pelle. 11 10 dico solo a quelli che capiscono" elaborazione è quella di prendere atto, accettare e dopo dare significati a questo. In fondo bene non muore nessuno, perché morire è negativo comunque. Però può essere una morte assurda o una morte sensata; è sempre tragica, ma può essere sensata. Tu puoi dare la tua impronta a quel morire, senza subirlo del tutto. Così facendo ci si proietta al di là di sé. Per esempio la madre malata di Aids che nell'ultima fase della sua vita pensa ai suoi figli. Cioè subordina il suo morire a qualcosa d'altro, come se dicesse che a seconda di come lei muore, questo significherà una cosa diversa nei confronti dei suoi figli. Lei morirà proiettandosi oltre la sua morte e quello che lascerà agli altri è significativo anche per se stessa. Non attenua la tragedia, ma la rende più vivibile, più umana. E il nascondersi crea altrettante difficoltà? Di solito il nascondersi indica una carenza in uno dei fattori che aiutano nell'elaborazione del proprio morire, cioè buoni rapporti con gli altri. Quando uno si nasconde è perché sa di non avere buoni rapporti con gli altri, di non poter utilizzare il rapporto con gli altri come un aiuto per questa elaborazione della propria morte e allora non gli resta che nascondersi. Ricordo che parlavo con i parenti di un giovane malato di Aids in fase terminale e loro avevano il problema di cosa dire agli amici eai parenti, "Di cosa stamorendo? Possiamo nasconderlo? Raccontiamo una balla, ma poi morirà e a quel punto cosa dire?". Nel rapporto con questo malato i parenti erano più sensibili a ciò che avrebbero detto gli altri che non al fatto che lui stava morendo. La cosa più importante era cosa avrebbero detto gli altri di quella morte, quanto questa si sarebbe ripercossa sulla loro immagine sociale. Allora lì non resta che nascondersi. D'altra parte èsempre un po' così. Come nascondere la verità sulla sieropositività, per esempio. Quasi tutti i sieropositivi dicono "lo lo dico solo a quelli che capiscono". Questo può voler dire molte cose: a quelli che mi capiscono, che mi possono capire, che non mi giudicano, che Nel caso dell' Aids c'è una complicazione, una specificità. La specificità fondamentale deriva dal fatto che il malato di Aids è circondato da un atteggiamento particolare nella nostra società, in fondo è un appestato. Un appestato moderno. Ci sono anche quelli che muoiono di Aids per avere fatto una trasfusione e le cose si compi icano ancora di più perché entrando in un circuito in cui la maggior parte delle persone muore di Aids per altre ragioni -per un contagio sessuale, per tossicodipendenza, per omosessualità- questi si sentono ancora più emarginati. E questo ci conduce a parlare di un'altra specificità, che è il modo di elaborazione del proprio morire. In fondo il morire può essere interpretato come quella fase della vita in cui una persona riesce a vi vere seelabora il lutto per la propria morte, altrimenti va in una crisi profonda. " Rispetto a questo, a seconda di che morte si tratta, ci sono delle specificità proprie del l'elaborazione del lutto per la propria morte. Nel caso dell' Aids è molto frequente che ci sia un ostacolo a questa elaborazione, un particolare ostacolo che è la rabbia. Si riesce ad accettare meno di morire di Aids, non solo perché si può morire giovani, ma soprattutto perché si può esserearrabbiati. Io metterei l'accento su queste due specificità: il carattere di vergognosità, che deriva in qualche modo dalla cultura, dal modo in cui il malato di Aids viene interpretato nella nostra cultura, cioè come un appestato e la prevalenza di uno degli ostacoli classici all'elaborazione del lutto, cioè la rabbia. Discutere in gruppo di queste cose può far sì che ciascuno si confronti con l'esperienza di altri e questo può attenuare le angosce, può far sì che si trovino modalità diverse di somministrazione chemagari qualcuno suggerisce. E, come sempre accade, la sofferenza un po' si diluisce. SPODESTARE 11 DOLORE Ma sia la vergogna che la rabbia non hanno anche prodotto una riappropriazione della malattia, della condizione di morente, assieme agli altri, come difesa, come motivo per ritrovarsi? B In u certo fenso questo è Questa rabbia aiuta l'elaborazione del proprio lutto? No, la ostacola molto, perché in qualche modo ne impedisce l'accettazione. Una elaborazione corretta di una perdita, quindi anche della perdita della propria vita, implica una accettazione di questa perdita, ma se sei arrabbiato resti legato alla situazione di prima. E continui a recriminare, senon fosse successo questo ... , se me lo avesse detto ... Ricordo il caso di una ragazza che per dimostrare al suo ragazzo che si può uscire dalla tossicodipendenza si era abbandonata totalmente al rapporto con lui, senza precauzioni. Lui era sieropositivo e lei, quando si è contagiata, si è arrabbiata tantissimo con lui. Non ha superato la rabbia ed è rimasta bloccata alla situazione di rapporto che aveva provocato. Mentre inv e la modalità giusta di "0 In questo Kali Yuga, in quest'epoca della terrificante dea Kali, dicono i Purana indù, l'illusione del jagath, del mondo, si mostra rovesciata. Si mostra e si dimostra rovesciata. L'illusione è, nel suo stato "naturale", in-lusione, un gioco. Ma il gioco di Maya, nel Kali Yuga, è velare la stessa Maya, come in uno specchio che capovolge l'immagine. E' questo che succede dopo Narciso, e che fa sì che il suo gioco diventi tragico: la sua immagine riflessa viene capovolta, come per un divenire estremo dello stesso gioco del rispecchiamento. Accade così che tutto congiuri a mostrare, con logica ferrea ma "rovesciata", il dolore come un assoluto. li dolore, con la sua solidità e concretezza, con la sua indiscutibilità, diviene il muro insormontabile per lo sguardo, deve trattenere le parole all'interno della cittadella dei filosofi. La televisione non fa altro che mostrare, in nome della cosiddetta libertà e completezza dell'informazione, il dolore nella sua universalità: nelle immagini delle guerre in diretta, nel sangue, nelle interviste ai parenti delle vittime, agli amici, ai congiunti. Prima di tutto, sembrano dire le immagini, il dolore è: e deve essere mostrato, e dimostrato, nella sua cruda assolutezza e universalità. La cultura, nella sua dimensione pubblica, trova i suoi bastioni, le sue torri più alte, nella denuncia della propria impotenza, del proprio inevitabile risucchio nel silenzio di fronte al dolore: la poesia non è più possibile dopo Auschwitz. E il dolore prende il posto, in negativo, dell'assoluto. Un assoluto negativo. Tutto ciò che tenta anche solo di spiegare il dolore, il suo svolgersi storico, attraverso ad esempio le povere armi della ragione critica, è visto e giudicato come una dichiarazione di impotenza, di indicibilità. Lo sguardo meditante incorre ancora prima nella scomunica: parlami pure della tua visione del mondo, della poesia, del valore della parola, dell'essere e dell'identità, o di ciò che vuoi, ma ti prego, è anche una questione di buon gusto, taci di fronte all'Olocausto, di fronte alla Bosnia. li pensiero, per la logica del rovesciamento, diviene sconveniente, quando non attira il disprezzo, il compatimento. li disprezzo è rivolto a chi non si è ancora "accorto" di che cosa il pensiero è in realtà: chiacchiere, impotenti, inutili chiacchiere di fronte all'assoluto insormontabile del dolore, che non può trovare "ragioni", e tantomeno può sopportare ancora una parola poetica. L'appello delle grida di dolore amplificate dal sistema informativo, dalla rete di altoparlanti nelle cucine e nelle camere da letto, è una continuano a rispettarmi. Oppure può voler dire: a quelli che so che non gioiranno per il fatto che sono malato. Cioè non lo dico a quelli che vorrei fossero inalati al mio posto. In entrambi i casi si capisce il tipo di rapporto che uno hacon gli altri. Nel primo caso uno non si sente capito, nel secondo caso ha un rapporto per cui si confronta continuamente con gli altri e vorrebbe sempre essere meglio, avere di più. La stessa cosa si verifica se c'è un bambino sieropositivo in una scuola. Se lo diciamo può darsi che gli altri lo rifiutino, se non lo diciamo nessuno lo rifiuta. Non sarebbe bello che lo dicessimo e nessuno lo rifiutasse? Nel momento in cui lo diciamo si vede se è accettato o no, perché si fa poca fatica ad accettare qualcosa che non si conosce. Ha sempre a che fare col tipo di relazione che abbiamo con gli altri. Se io con l'altro ho un rapporto basato sulla istintualità, mi curerò di sapere soltanto se l'altro può servire alla soddisfazione dei miei bisogni oppure no. In questo senso si capisce come mai certe campagne di prevenzione non hanno nessun senso se si fanno con gli adolescenti.L'adolescente è dominato dalla sua istintualità e, qualunque cosa gli si dica, non conta nienspecie di sguardo di Medusa che impietrisce. E' impietrito, immobilizzato, chi invoca il silenzio come indignazione sdegnosa, come rinuncia. Spesso anche l'uso politico in questo senso della non-violenza non è che una volontà di vendetta più diabolica e sottile, una variante dell'errore "storico" del pacifismo cieco, in mano alla politica più machiavellica. Il grido di dolore dell'umanità dovrebbe pietrificare il mondo, assordare, ossia togliere di mezzo l'ascolto. Non siamo forse sordi (non possiamo non esserlo) quando condiamo la minestra col telegiornale, o con Blob? Ma questa è l'essenza della violenza: non ascoltare il dolore, perdere la capacità di ascoltare i dolori, soprattutto quelli più vicini e che gridano troppo flebilmente, perché siamo assordati dal clamore del dolore come assoluto. Ascoltare il dolore può voler dire riportarlo nel suo "luogo abituale", nella sua dimora: il cuore. Forse: il ■

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==