Una città - anno III - n. 25 - settembre 1993

• • un v1a9910 B Le difficoltà incontrate dalla missione non ne mettono in discussione le novità: un pacifismo non di protesta ma progettuale. Loscandalo di una comunità internazionale che minaccia, minaccia e non è capace neanche di far passare un convoglio di cibo. Intervista a don Albino Bizzotto. Ai primi di agosto circa duemila persone, in maggioranza italiani, ma a11chefra11cesi,spagnoli, tedeschi, americani, greci si sono ritrovati a Spalato rispondendo a/l'appello di Mir Sada (pace ora), un 'iniziativa promossa da Beati i costruttori di pace e da Equilibre. li progetto prevedeva di raggiungere con una colonna di awomezzi Sarajevo. Doveva essere, in grande e con uno spessore internazionale, la ripetizione della marcia di dicembre. quando 500 pacifisti erano riusciti ad entrare a Sarajevo. li percorso prevedeva il passaggio attraverso ::.onecontrollate da croati da serbi eda mussulmani. Proprio in quei giorni l'esercito bosniaco (mussulmano) era a/l'offensiva nel tentativo di riconquistare territori persi nei mesi precedemi. Non solo, in quei giorni ~-cadeva l'ultimatum della Nato ai Serbi pér abbandonare il mome Igman e sembravano imminenti raid aerei di bombardamento. La difficoltà di questa si/I/azione ha costretto un primo convoglio di pacifisti che era giu11tojì11oaProzor, pilÌ o meno a metà strada, a rientrare dopo alcuni giorni di tentativi e di tensioni. Sul significato di Mir Sada, sul dibattito che ne è nato e sul suo contraddittorio esito abbiamo intervistato don Albino Bizzotto, animatore dei Beati i costruttori di pace e promotore dell'iniziativa nell'ex Jugoslavia. Don Albino, può provare a fare un bilancio di Mir Sada? Mir Sada, pace ora, è nato come iniziativa allargata, popolare dentro il progetto di presenza continuativa a Sarajevo. Questo progetto è stato però ridimensionato dal , fatto che non c'è stata la possibilità di passare via terra, cosicché la presenza nella città è stata garantita solo da quelli che potevano usufruire dei "pass" per via aerea. Attualmente questo progetto, che abbiamo chiamato "si vive una sola pace", è tenuto in piedi da una decina di persone che risiedono stabilmente a Sarajevo. Pensiamo di restare almeno fino a settembre, ma stiamo lavorando per trovare un luogo autonomo, anche piccolo, che ci consenta di costituire in città un luogo fisso di riferimento sia in rapporto agli aiuti che in rapporto alle altre realtà che si muovono nella città. Un luogo del genere ci aiuterebbe a prolungare la permanenza. Il progetto Mir Sada era stato costruito in contemporanea con Equilibre, un'associazione francese, dalla quale ci differenziavano alcune cose, come ad esempio la preparazione: noi abbiamo lavorato per mesi, con riunioni, training, gruppi di affinità, loro hanno lanciato un appello alla partecipazione dando appuntamento a Sp?lato e che ognuno ci arrivasse coi propri mezzi. Equilibre si aspettava l'adesione di migliaia di persone, si parlava di tremila, cinquemila, settemila! Ne sono arrivate duecentocinquanta, più o meno ... Tuttavia Equilibre aveva ed ha una grossa competenza logistica perché da un anno e mezzo lavora in quella zona portando aiuti in tutta la Bosnia. Ci siamo fidati, anche perché dal punto di vista delle comunicazioni e delle conoscenze Equilibre poteva disporre di strumenti tecnologicamente molto avanzati, a cominciare dalle radio satellitari, che ci avrebbero garantito un'assistenza totale lungo il percorso. li progetto Mir Sada ha molto sofferto per questa doppia fonte organizzativa, Equi libre da una parte e Beati i costruttori di pace datraltra. i coraggiosi e i paurosi. Un'immagine pessima del movimento E quando i giudizi sulle azioni da intraprendere e l'analisi della situazione da parte delle due fonti organizzative non sono più coincisi è successo che, sul piano logistico, siamo rimasti decisamente handicappati, mentre sul piano politico i detrattori del!' iniziativa hanno avuto a disposizione quanto di meglio possa capitare, cioè vedere divisioni e lacerazioni. Da molti è stata così accreditata quest'immagine dei kamikaze da una parte e dei responsabili dall'altra, oppure, altra versione delle divisioni, i coraggiosi e i paurosi. E' un'immagine pessima del movimento e non aiuta nessuno. Devo anche dire che come organizzatori ci siamo trovati di fronte un muro ogni volta che abbiamo affrontato problemi pratici, materiali. Il più grave è stato quello dei trasporti: non ne avevamo a su flcienza per tutti e quind· all'interno ~ ~ . dei rapporti umani son successe due cose, una molto bella, e cioè la generosità di tanti che hanno rinunciato ali' azione verso Sarajevo per lasciare il posto ad altri, ed una molto brutta, cioè l'an-embaggio di alcuni per conquistare il posto nei pullman! Come dentro la guerra si sviluppano azioni di eroismo, ma anche di sciacallaggio, così al nostro interno si sono sviluppati aspetti di tensione e aspetti di generosità. Però è grave, e lo denuncio, che da parte della nostra società, in un momento di emergenza per un'iniziativa di pace, non ci sia stato modo di ottenere nemmeno un pullmino! Ma il giudizio politico è alla fine positivo? Pur in mezzo a queste contraddizioni, il giudizio politico è positivo. E' stato raggiunto l'obbiettivo di esserci mobilitati in tanti e a livello internazionale e probabilmente i rapporti stabiliti fra tante persone saranno fecondi per un cammino che andrà avanti. Metterei fra i risultati il fatto di aver messo allo scoperto la realtà dell'ONU, che ha un concetto di umanitario che si applica alle cose ma non alle persone, nel senso che cerca di garantire il passaggio degli aiuti materiali, ma nei confronti delle persone non garantisce più, si defila o addirittura mette in campo una assistenza dissuasiva. "Avete fatto miracoli, adesso tornate a casa, è troppo pericoloso", questo il concetto base che ci è stato continuamente ripetuto. Quindi chi vuole fare qualcosa è solo. E' grave ma è così. Questo era preventivabile, qual era stata la preparazione della missione? Eravamo arrivati sul campo dopo contatti ed incontri diretti con il presidente croato Tudjiman e quello bosniaco Izetbegovic, con i leader dei serbi e dei croati di Bosnia, Karadzic e Mate Boban, incontrati personalmente a Ginevra e con la loro firma su documenti che costituivano una sorta di approvazione alla nostra iniziativa. Equesti rapporti son stati costanti anche quando eravamo nel campo di Spalato. Certamente una volta a Spalato abbiamo dovuto verificare che mettere duemila persone in un campo di guerra senza che si conoscano, senza che abbiano già svolto attività insieme, non è possibile. Ci sono troppi m~i.diversi. E~to però interessante vedere come i francesi, vista la nostra organizzazione in gruppi di affinità, speaker, eccetera, abbiano anche loro cominciato ad organizzarsi così. Credo che da questa esperienza, anche se sulla maggioranza delle persone ha pesato molto la frustrazione di non aver raggiunto Sarajevo, si svilupperanno un dibattito e un'analisi che ci consentiranno di essere molto più concreti in questo tipo di situazioni. In quei giorni di agosto abbiamo fatto i conti con problemi come l'organizzazione logistica, il rapporto con le istituzioni, una doppia fonte organizzativa (un errore che non ripeteremo più ...). Non arriveremo più alle date fissate "sotto pressione" e in un corri corri finale per partecipare. Dobbiamo fare in modo che il gesto, anche di poche persone, sia però sorretto e condiviso da tutta la società. un pacifismo che non si schiacci più contro i palazzi del potere Di riflessioni per andare avanti dunque ce ne sono, anche se c'è chi, come Baget Bozzo, già scrive di morte del pacifismo e compie con questo due errori: il primo è di non concedere alcuna cultura umanistica al di là dell'Adriatico, ma in realtà lui non è mai stato a Sarajevo e pur essendo totalmente ignorante della situazione parla e scrive ... il secondo errore è di non capire che a morire è un certo tipo di pacifismo, quello della protesta, dell'essere contro per avere un rapporto politico col potere. Sta nascendo invece un pacifismo progettuale, che è ancora senza mezzi, che sta tentando di capire cosa fare e come muoversi, che sta affrontando contraddizioni come quelle della guerra fino in fondo e che quindi non si schiaccia più solo sotto i palazzi del potere, ma si distribuisce sul territorio. Colpisce il contrasto fra la generosità dei partecipanti, che poteva arrivare anche all'eroismo e il fatto che si siano fatte riunioni coi criminali di guerra per poter passare ... Il problema della nonviolenza per me oggi è chiarissimo. Nonviolenza è prima di tutto avere il coraggio di entrare nella situazione così com'è. Perché se noi continuiamo a pensare alla nonviolenza come ad un metodo che rimane sostanzialmente elitario, parallelo, disgiunto dal contesto della crisi, credo che avremo nella società un gruppo di nonviolenti, forse anche un movimento nonviolento, ma sarà alla fine una realtà di pochi. Nonviolenza è per me invece accettare il conflitto, cioè la realtà com'è anche se a me non piace per niente, anche se chiedo che ci sia un tribunale internazionale che giudichi i crimini di guerra. Lo sforzo della nonviolenza deve essere di mettersi di fronte e dentro la realtà. Prendiamo il rapporto istituzionale: se volevo rapportarmi istituzionalmente quelle erano le persone. Mica le accetto! Però un rapporto istituzionale ti tocca averlo con chi c'è, non con chi piace a te. Parlo di cose concrete, perché è un problema che abbiamo avuto a Sarajevo, dove non volevano che noi avessimo parlato con i dirigenti serbi e croati. Ma allora siamo fuori dalla realtà e dalla storia! Questo non significa accettare o giustificare l'esistente. Personalmente non accetto la pulizia etnica, è ovvio, e sono contro questa pace di Ginevra che non fa che sancire la situazione militare sul campo, cioè l'ingiustizia nata dalla violenza e dall'aggressione. Io concordo con Izetbegovic che a Ginevra mi ha detto "io non tratto la pace, tratto la sopravvivenza". Però non posso scavalcare la realtà, e devo rapportarmi con l'ONU devo farlo con quello che c'è, e non con l'idea di ONU che ho io. Allora: o tento di coinvolgere in quello che faccio tutti e tutto per una maggiore efficacia, oppure faccio il testimone, faccio il martire. mi interessano azioni politiche, non di sentirmi diverso da altri Lo sforzo centrale del tentativo di essere dentro la realtà è spingere la gente a riappropriarsi del problema drammatico della guerra. Finché la gente non si riapproprierà di questo problema avremo un'unica risposta: quella della forza, e la diplomazia sarà solo di rincalzo all'uso della forza. La guerra è una specie di tabù, dal quale siamo totalmente esclusi, che ci fa vivere nel I' impotenza e nella frustrazione eci fa invocare i potenti della terra perché siano onesti. Un'invocazione che poi non trova riscontro e ci lascia nel!' impotenza. Allora, cosa facciamo in alternativa? Semplice testimonianza per dire o farci dire che siamo bravi? Io vorrei evitarlo ed è per questo che di fronte ad una doppia verifica negativa a Prozor non ho accettato di forzare la linea del fuoco che passava proprio sulla strada che doveva condurci a Sarajevo. Altrimenti, col solo criterio del sacrificio avremmo dovuto proseguire, fidando in dio o nella fortuna. Ma ho accettato di essere impopolare e ho scelto di tornare. Una scelta che ha sconvolto, che ha frustrato, che ha messo in forse tutta la spedizione. Ma a me interessano azioni politiche, non azioni che mi facciano sentire diverso dagli altri, perché non sono migliore degli altri! Al ritorno da Mir Sada è stato dato appuntamento alle basi Nato di Aviano e Gioia del Colle, per manifestare contro quello che sembrava un imminente attacco aereo. Fatto sta che laminaccia dei bombardamenti ha sbloccato un po' la situazione e forse ha già salvato tante vite umane. Voglio essere chiaro: siamo contro l'intervento militare. Per due motivi: il primo è che la comunità internazionale non ha più regole. Colpisce chi non è responsabile, col risultato che a pagare sono gli innocenti e questo va denunciato sennò non c'è più morale' fermati dal primo giovincello che s'è parato davanti a loro! Si continua a ratificare a livello di massa ciò che non accetteremmo mai nei rapporti interpersonali. Noi non accettiamo che un innocente venga ucciso, non accettiamo nemmeno che venga ucciso il colpevole, visto che siamo contro la pena di morte. Ma di fronte a rapporti più allargati, a rappo11i fra stati o popoli sembra normale che debba vincere l'uso della forza e non ci sia comprensione, tolleranza, uso della ragione. li secondo motivo è che non capisco perché gli stati si arroghino il diritto di impegnare la forza distruttiva, che è altra cosa da quella dissuasiva, di interposizione, di polizia, per fare prevalere il diritto. Ma c'è poi un altro aspetto tipico di questa situazione: l'intervento finora è stato solo un crescendo di minacce non mantenute, POTER i'ORNARE Nel racconto di Franca Morigi, volontaria nella ex Ju! dell'Europa, gli amici di Mostar che si fanno crescere I Franca Morigi ha trascorso l'ultimoa11110 dedicandosi ad intervellfi di vario genere nell'ex Jugoslavia. In particolare è stata una delle animatrici del Ponte sanitario con Mostar. un 'inil.iativa collegata al Consor-;:,ioitaliano di solidarietà. Gra-::,iea questo progello numerosi civili gravemente feriti hanno trovato le cure adeguate, molti profughi son sfuggiti al destino dei campi di concentramento, alcu11efamiglie si sono riunite. Avevo già partecipato ad una carovana per la pace nel '91 e poi mi ero appassionata attraverso i giornali ali' Ambasciata dei bambini, di cui avevo ricercato le tracce ed anche i documenti. E' interessante ripensare a quel settembre del 91, a quella marcia della pace attraverso le capitali dell'ex Yugoslavia: Lubiana, Zagabria, Belgrado, era prevista anche Skopjie, poi ci siamo fermati a Novi Sad, in Yojvodina, e l'incontro finale era a Sarajevo: è interessante perché allora non era tardi, mach i ne aveva consapevolezza? Tutto era organizzato dall'Assemblea dei cittadini di Helsinkj, e tante organizzazioni pacifiste italiane ed europee. Eravamo una delegazione di circa trecento pacifisti europei. Il clima a Sarajevo era straordinario: una folla di persone nella piazza dove c'è la cattedrale ortodossa, e poco lontano anche la sinagoga e la moschea. Si fece una grande catena umana, noi facemmo anche un piccolo corteo dall'albergo in cui stavamo verso il centro e la gente fuori dalle finestre che applaudi va, che partecipava ... Sarajevo era una città veramente interetnica, internazionale e pacifica, pacifista ... Non ne è sortito tanto, da quella manifestazione, purtroppo. Anche perché poi, come dimostra la storia di oggi, chi ha il potere di influire è la comunità internazionale, I' Europa economica, e i mass media e sono questi grandi protagonisti che non sono scesi in campo con tempestività e con determinazione, le forze del pacifismo contavano relativamente. Lo vediamo oggi con i ponti sanitari: la solidarietà viene amplificata adesso, con il caso Irma, dopo un anno che questi problemi esistono. Per la cronaca: l'Ambasciata dei bambini già nel '92, prima che scoppiasse la guerra in Bosnia, aveva lanciato un appello al mondo perché fossero trasferiti via da Sarajevo tutti i bambini. Questa organizzazione umanitaria interetnica e non governativa era evidentemente ben cosciente di quello che si stava preparando. Poi, purtroppo, quando è scoppiata la guerra ne hanno trasferiti molto pochi - circa 300 in Austria, un piccolo gruppo di 56 a Milano e pochi altri. Si sono occupati anche dell'evacuazione dalle zone di guerra in zone più sicure, da Sarajevo a Mostar, che poi più sicura non è stata ... A Mostar ero già stata come turista, perché era una città particolare, con quella sua architettura musulmana, una città d' incrocio, di scambio, come Sarajevo. Allora, con le persone avevo avuto contatti molto

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