Una città - anno III - n. 25 - settembre 1993

di viaggi IL PROBLE DEL POZZO cità di confrontarsi con il diverso. E' chiaro dunque che le popolazioni delle città hanno delle potenzialità maggiori rispetto a chi resta in campagna. Fino a pochi decenni fa in Italia c'erano delle migrazioni dal sud al nord e c'erano degli scontri fra culture diverse, determinati appunto all'inadcguatcna del sud a confrontan,i con la città del nord. Que<,todeterminò degli eccessi, che da un lato sono diventati emblematici e dall'altro oggetto d'ironia. La diceria secondo cui i primi meridionali giunti al nord piantavano il basilico nella va!,ca da bagno o nel bidé non va vista solo come prodotto di una cultura cattiva o di una volontà discriminante, ma va riletta anche sociologicamente ed interpretatacome uno scontro fra culture, come sintomo dell'inadeguatezza di una cultura. Da noi il cambiamento è stato comunque rapidissimo, e nel giro di meno di una generazione il problema si è risolto. In Africa è molto patto che inducono. Pensiamo alla co'>truzioncdi grandi dighe per la crca1.ioncdi bacini che permcuano d'irrigare vaste aree e quindi anche cli sperimentare nuove colture: come può una cultura della lavorazione della terra basata c<,senzialmente sull'autocon<,umo essere pronta a ricevere un <,i<,tcmacosì evoluto? Pensiamo che in gran parte ciel Mozambico le prime 1.appc le ha diwibuitc il Frelimo dopo l'indipendenza! li salto che tutti si aspettano dall'Africa è che si creino dall'interno le condizioni per lo sviluppo di un'economia di mercato, ma credo che questo sia diverso dall'affermare che la speranza è che diventino come noi, perché il mercato lo hanno usato tutte le culture, dall'est all'ovest, da sempre, pur mantenendo un'identità culturale molto forte. L'Africa è fuori dal mercato perché è sempre vissuta sull'auto-consumo, non è una società che storicamente ha sentito Una cultura dell'autoconsumo può sopportare le conseguenze di una diga? Il rifiuto dell'occidente di capire l'importanza del "non prioritario". Intervista a Alfredo Cometti, cooperatore. Alfredo Cornetti, genovese, architetlo, ha scelto da tempo di lavorare in Africa come cooperatore. Dal 1988 al 1992 dirige il Programma di Formazione per Tecnici in Pianificazione Fisica a Maputo, Mozambico. Lavorando in Africa si ha l'impressione che quello sia un mondo irrimediabilmente destinato all'estinzione, per cui ogni intervento dall'esterno, anche il meglio intenzionato, non può che accelerare questo processo ... Certo l'omologazioneculturaleche sta avanzando e che pare inarrestabile è un processo che fa paura. Fa paura perché elimina le diversità e queste sono fondamentali, per lo scambio, per la conoscenza, per lo stimolo allaconoscenzastessa. Però è anche vera la critica, che è stata fatta alla cultura africana quando si poneva in contraddizione con i desideri di modificabilità della storia, che sostiene che non è con ervando la tradizione che si può pensare ad una crescita dell'Africa. Questo non fa una piega, perché ogni cultura ha subito traumi, trasformazioni, ha lasciato il proprio patrimonio storico. Per esempio, quando, verso la seconda metà degli anni '70, in Italia il processo di industralizzazione è diventato talmente generalizzato da fare sparire tutta una serie di oggetti e di cose materiali, sono stati inventati i musej della cultura contadina che trattano di un patrimonio storico ormai perso. Questo processo è qualcosa che fa parte della storia dell'umanità, il problema è della modificabilità dall'interno di determinati processi. Viceversa ciò che è avvenuto in un confronto fra culture così diverse è stata una modificazione forzosa indotta dall'esterno, non generata da bisogni di trasformazione interni alla società. La società africana, poi, è una società statica, per storia e cultura, e questa staticità organica del pensiero africano ha generato dei traumi maggiori che non in altri luoghi, dove ciò che apparteneva ad altre culture veniva assorbito attraverso una manipolazione ed un'integrazione all'interno della propria cultura. Probabilmente la difficoltà della cultura africana sta nella incapacità di manipolare gli input che arrivano dall'esterno e di riciclarli dopo una propria interpretazione. Ciò che a me sembra fortissimo nella cultura africana è questa forma di schizofrenia: da un lato il sentirsi occidentale perché si è ·'cittadini", si è abbandonato il villaggio, dall'altro il conservare tutta una serie di ritualità collegabili alla tradizione africana che non si è in grado di comunicare ali' occidentale perché si tratta di qualcosa su cui sono state espresse dellecondanne. Tutta ladimensione spirituale del la cultura africana, per esempio, è qualcosa che difficilmente si riesce a portare alla luce perché è qualcosa che loro, giustamente, pensano essere vistacome negativa dai bianchi. Questo non solo perché i bianchi si sono sempre scagliati contro l'aspetto magico della cultura africana, ma anche perché i nuovi capi rivoluzionariafricani aprironocampagne violentissime contro questo aspetto della loro cultura, vedendolo come qualcosa di negativo, da cancellare. Invano. perché in Mozambico, dopo 18anni di governo "socialista", si stanno recuperando i medici ed i capi tradizionali. Questo, tuttavia, non muta il fatto che per loro non ci sia né la possibilità di liberarsi dai meccanismi di sviluppo imposti dall'Occidente, né la possibilità di recepirli appieno ... La questione di fondo credo sia che la cultura africana non ha in sé la cultura del mercato perché la loro concezione del mercato si inserisce ali' interno di una concezione del tempo che è assolutamente diversa da quella occidentale. tempi impossibili, per loro non praticabili Allora quello che un progetto di cooperazione internazionale può portare è sempre un qualcosa che è dentro alla nostra concezione del vivere e del fare, un fare comunque finalizzato alla riduzione dei tempi necessari a svolgere una certa operazione.Tutto questo è lontanoanni luce da quella che è la cultura africana al di fuori dell'Africa islamizzata. Quello che, di fatto, l'Occidente ha preteso, attraverso meccanismi che sono anche quelli della cooperazione internazionale, è stata una scommessa completamente sbagliata perché basata su una previsione di tempi impossibili, non praticabili. C'è stata la speranza di trasformare, in un tempo assolutamente improbabile, in società mercantili delle società che hanno un rifiuto organico di certi meccanismi economici e sociali, che non li accettano. Sulla costruzione dei pozzi da parte della cooperazione, per esempio, sono state scritte una serie di cose che, analizzando gli effetti disastrosi determinati incerti villaggi dalla costruzione dei pozzi, colgono nel segno. Questi pozzi, evitando alle donne di farsi vari chilometri a piedi per andare a prendere l'acqua, hanno messo in crisi uno spazio di tempo fondamentale della loro socialità, perché in Africa il tempo-lavoro è anche tempo di comunicazione sociale. Per la coscienza sociale del luogo nonè importanteche si perda un'ora di cammino per prendere acqua e riportarla al villaggio; non è un problema che ledonne portino I'acqua, non c'è un problema di fatica, non c'è un problema di divisione del lavoro ali' internodi una società in cui le donne hanno un ruolo e gli uomini un altro. In questo sistema chiuso, che vive con delle regole che sono sempre le stesse. I' introduzione da un giorno all'altro di meccanismi che rompono i ritmi tradizionali e che creano delle interazioni completamente diverse genera un rifiuto proprio perché quei nuovi meccanismi sono dirompcnti anche a livelli minimi. La capacità di assorbimento del nuovo da parte di chi riceve presuppone la capacità di manipolazione di ciò che viene dato, ma questo è possibile solo attraverso la sua interpretazione sulla base degli interessi della comunità beneficiaria. Invece tutto questo non avviene a causa della parte più conservatrice della cultura africana. Certo le dinamiche di trasformazione all'interno della città sono una cosa completamente diversa. La città è per sua natura un qualcosa di strano e, a parte i casi più drammatici come le guerre e le calamità naturali, andare a vivere in città è una libera scelta, quindi c'è una maggiore disponibilità ed una maggiore capadiverso. Innanzitutto perché siamo noi che andiamo a casa loro, non sono loro che vanno a cercarsi il nuovo, poi perché il meccanismo di accettazione dentro alla città è molto più semplice. le prime zappe le distribuì il Frelimo!!! Chi va incittà è già pronto a ricevere, mentre chi sta in campagna si aspetta che la sua vitacontinui esattamente nella maniera di sempre. Accennavo prima a interventi semplici come i pozzi, ma se pensiamo a cose su una scala molto vasta possiamo immaginare il tipo d'imr esigenza di costruire un' economia di mercato. Parliamo ovviamente dell'Africa Banthu, quindi con grandi generalizzazioni, perché l'Africa della costa ha un' allra storiaavendo avutodiverse influenze. Quesli paesi sono veramente dentro ad una dimensione irreale perché da un lato hanno gran parte della popolazione dentro alla dimensione culturale che dicevamo, mentre dall'altro utilizzano la tecnologia più avanzata. Penso che la difficoltà grossa per loro sarà proprio quella di riuscire ad entrare all'interno di un'economia di mercato restando africani. Quando parliamo di mercato intendiamo ovviamente anche il principio del1'accumulazione, che per le culture Dopo i mesi passati in Nuova Zelanda, stupefatto da un senso di leggerezza come un palloncino trattenuto dalla mano distratta di un bimbo, non riuscivo a pensare di fermarmi a Los Angeles. Di dover trovare nella città immensa un posto a buon mercato, un po' di compagnia e il modo migliore di non farsi accoppare andando di notte per bar. Ho aggiustato il biglietto per tirare dritto fino all'Europa. Una quarantina di ore nette di volo, dodici ore di fuso. DI PASSAGGIO A LOS ANGELES Arrivare in una città col treno mi ha sempre dato l'impressione di volere conoscere qualcuno cominciando dal buco del culo; invece un aereoporto è il sorriso nuovo dai denti appena rifatti, bianchi, puliti e finti. Ci hanno espulso liberando l'aereo dall'indesiderato pendo umano, e poi per i corridoi serpeggianti di alluminio: antirumore, antincendio, antitutto. Mi sono lasciato trasportare dai tappeti mobili con la testa rovesciata indietro per allentare la tensione dei muscoli del collo; impegnati da troppo tempo a tener dritta una coscienza che non ne vuol più sapere. Alla fine sono rimasto solo io in questa scatola di plastica per chi aspetta le coincidenze internazionali. Le immagini dell'atterraggio, e quello che si vede dalla parete di vetro, ciò che mi rimarrà di Los r-. Angeles. Questa vetrata sulla sala d'imbarco. Dove ognuno interpreta se stesso forte di un documento che lo prova, dei bagagli che testimoniano che qualcosa nella vita si è pur conquistato e vale la fatica di tirarselo appresso. Ho una valigia e un passaporto. Dunque sono. Mi sposto viaggio vedo cose. Dunque sono. Allora vorrei che vedessi con i tuoi occhi una vecchietta vestita di tulle dorato e trasparente, carica di gioielli e truccata come la moglie di un faraone; con dietro un filippino che trascina al guinzaglio un corteo di valigie e finge di affrettarsi per stare dietro a quelle gambette su un paio di trampoli che azzopperebbero una quindicenne. E vorrei che tu mi dicessi in che senso lei "è". E se non sai rispondermi almeno che tu mi dicessi di chi è la caricatura, chi sta interpretando. O quel grassone, il campione degli obesi, con la carne che esplode in rigurgiti ricciuti oltre il collo della camicia, sopra la cintura dei pantaloni, attorno agli occhi umidi e nascosti. A forza di fissarlo mi fanno male le mascelle, come per un ignoto pericolo. Qui è un assurdo carnevale, ed io devo aver perso il controllo dell'immaginazione. D'un tratto mi pare che questo gigante coi suoi barboncini rasati a sangue possa dilatarsi fino a occupare tutto l'aereoporto. E tu capiresti, se fossi qui. C'è qualcosa che non va, c'è qualcosa di innaturale, lo sento. Come un travestitismo, un'ipocrisia, un errore di fondo. Forse sono solo stanco. Vorrei dormire ma la rete metallica di questa panca mi spacca la schiena. C'è un USA Today di oggi e butto l'occhio su un articolo di spalla sulla violenza negli Stati Uniti. La guerra al crimine è solo una barzelletta quando i nostri nemici ci uccidono e noi non li uccidiamo-. Gli assassini hanno ucciso più di ventiquattromila persone lo scorso anno mentre noi abbiamo giustiziato solo ventuno di loro. Ci stanno uccidendo in un rapporto di più di mille a uno. Non è possibile. Forse sto sognando. Solo un sistema di giustizia che decreti la rapida esecuzione degli assassini potrà invertire la intollerabile tendenza ... Un sistema di giustizia. Eppure c'è scritto proprio così, te lo giuro. Testuali parole. A pagina 13A. Voglio che ti appunti questo nome. Jefferson Chase. Nel caso lo incontrassimo in Italia a comprarsi il Colosseo. Giusto per dirgli due parole di circostanza. Metto la faccia dentro le palme delle mani calde coi gomiti puntati sulle ginocchia. Mi pesano lecaviglie come secchi di sabbia. E perchè dovrebbero giustiziarli? Perchè accoppano il grassone complici i suoi cani scalpati? O la vecchietta luccicante come una moneta di cioccolata? O questo qui che se parte con una sacca di mazze da golf? O Jefferson Chase il giustiziere? Non lo so. Non fare caso a quello che scrivo. Mi vengono strani pensieri. L'immaginazione fa brutti scherzi, e alla fine è una fortuna se non andrà mai al potere. Ormai ho solo voglia di tornare. Sono abbastanza stravolto per mandarti una lettera come questa, senza capo né coda. In questa specie di sala di rianimazione io voglio aspettare il mio volo e nient'altro. Resterò tutto il mio tempo a Los Angeles sospeso qui, tra l'inferno di chi ancora deve essere giudicato e chi ha già avuto il permesso di salire in cielo. Non lo so cos'è Los Angeles, non me lo chiedere. Ma se gli angeli sono quelli qui sotto, hanno le ali ripiegate vicine ai fianchi. Piero Rina/di

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