Una città - anno III - n. 23 - giugno 1993

Se vengono ammazzati per caso è diverso, succede anche altrove -se qui si fa una dimostrazione con la forza la polizia li mette sotto, è già successo, magari in altri anni, ne ha fatte di tutti i colori- non capisco perché solo io devo stare buono. Ma non sono d'accordo neanche con una mentalità, molto diffusa in Israele, che noi dobbiamo fare gli affari nostri, e gli altri i loro e nessuno deve ficcare il naso. Non sono d'accordo che non si ficchi il naso se noi non facciamo le cose giuste, se facciamo cose contro l'umanità, eccetera. dobbiamo dare, dare, ma datemi qualcosa in cambio Quando ho visto quel famoso filmato dove un soldato ha spaccato la scapola di un palestinese, io ero arrabbiatissimo, ho telefonato subito ai miei, da soldato non ci penserei mai a fare una cosa del genere. Ma il filmato è uscito da Israele. In Italia fate così? Comunque, va bene, siamo anche stronzi, ma cercate anche di capire. E' guerra quella che fanno loro? Loro vanno secondo le regole? Quando sono stati catturati quelli dell'autobus 300, avrebbero dovuto essere arrestati, processati, e invece uno è morto. Ma pensate anche a cosa avevano fatto! Avevano preso in ostaggio e ucciso dei civili! E malgrado ciò, i servizi segreti, responsabili dell'azione, sono andati sotto inchiesta. Voi fate così coi vostri servizi segreti? Ecco, quando qui sento questo pregiudizio nei nostri confronti, per cui alla fine valgono solo i loro morti, e i nostri non fanno neanche notizia, io mi offendo. Sara. I primissimi giorni che eravamo qui siamo incappati in via Indipendenza in un'enorme manifestazione a favore dei palestinesi. Striscioni e slogan erano tutti sugli "israeliani assassini di bambini" e invitavano al boicottaggio dei prodotti israeliani. Io sono rimasta molto impressionata, ho avuto proprio paura e da allora dico che sono brasiliana. Per questo lui si arrabbia molto, ma io non ho più voglia di stare a discutere, soprattutto con chi ha un pregiudizio così forte verso Israele. David. Torniamo al discorso di prima. Insomma, sembra che noi dobbiamo stare buoni, dobbiamo dare, dare e basta. Ma io ho la volontà di dare, però datemi qualcosa indietro, la parola pace non basta, è bella sulla carta, è bella la firma sui contratti, ma non vale. Io Gaza la regalerei anche domani mattina, tutti gli israeliani pagherebbero perché Gaza andasse via, perché è solo un problema che costa solo soldi tempo e vite, anche da parte loro. Ma i territori sono un altro problema, ci vogliono garanzie. Non è un problema di spazio, -non so se conosci la carta israeliana- Israele è piccolo, ma non manca lo spazio: a Tel Aviv ci sono 400000 abitanti però ce ne potranno stare anche 3 milioni, c'è spazio per tutti gli ebrei da tutto il mondo, non è questione di spazio. Ma sempre guardando la carta vedrai che, dando i territori, da Tel Aviv al confine, nel punto più largo di Israele, resteranno 32 Km. Va bene, glieli darò lo stesso, ma poi cosa fanno? In Giudea e Samaria non si può fare niente, non ci sono minerali, l'unica cosa che puoi coltivare è uva e olivo. Son tutti sassi. Allora non siamo dei bimbi, bisogna cercare di risolverlo il problema. Se io gli dò dei territori in cui non potranno vivere sarà la guerra di nuovo. E allora? Io penso che dovremo aiutarli noi ... Poi questi territori ci sarà il problema di collegarli. Tempo fa di frontè alla proposta di dare un territorio e portarli tutti lì, si sono levate le grida: deportazione! Nazisti! Ma allora? Ora nei negoziati loro hanno chiesto 20000 poliziotti armati palestinesi. Non ci sono adesso tanti soldati israeliani nei territori! Sono tanti i problemi. si potrà discutere tutto, all'infuori di Gerusalemme Ma se c'è volontà di pace si può discutere tutto. All'infuori di Gerusalemme: quando loro avevano Gerusalemme nessuno di noi poteva andare al muro del pianto. Loro oggi hanno la moschea sopra il muro del pianto, e ci possono andare quando vogliono. Come vivono i ragazzi in Israele il ricordo della Shoah? David. Ci sono due tipi di sopravvissuti: quelli che non parlano per tutta la vita, e quelli che invece continuano a parlarne per tutta la vita. C'è chi li considera dei paranoici, chi li ammira e impara, chi è indifferente e dice "dimentichiamo" e basta. Io credo che sia gente che è passata dall' inferno, vivendo cose inimmaginabili, e se è paranoica ha tutte le ragioni di esserlo. Ma lo fanno anche per avvertire noi -l'ultima generazione che vede i testimoni ancora vivi- che la storia può sempre tornare. Non so se tornerà un nuovo Hitler, ma altre disgrazie sì. Certo che per un bambino che sta crescendo e che sente tutto il giorno parlare sul1'Olocausto alla fine non ne può più. E c'è da dire che i sopravvissuti hanno un'idea del sionismo quasi fanatica, perché li ha fatti andare in Israele. E lo stesso è anche per quelli che sono rimasti fuori: loro amano Israele, amano gli israeliani, se vedono un israeliano per la strada lo accolgono in casa, gli danno da mangiare, gli danno il lavoro, tutto quello di cui ha bisogno. Un ragazzo però questo fa fatica a capirlo. E allora ci può essere una reazione di insofferenza ... Sara. Dipende da quello di cui si parla a casa. In mia mamma, che è la figlia maggiore di mia nonna, un po' si sente, perché quando è nata in casa si parlava, si parlava tutte le notti. Quando è nata mia zia, invece, non si parlava più, c'erano altri problemi, c'era da guadagnarsi da vivere, andare avanti con la vita, e, infatti, mia zia è più positiva verso la vita. Mia mamma è più ... pessimista. C'è anche un Kibbutz dei sopravvissuti... Sara. Sì. Ci si va da liceali per una settimana. E per una settimana, dalle 8 di mattina alle 8 di sera, si vedono film, si sta a sentire le storie dei campi. Ci sono i campi ricostruiti in miniatura e ci sono gli stessi che ci hanno vissuto che ti spiegano cosa succedeva ... è pesante, pesante, noi ragazze la sera attaccammo i letti Dopo il primo giorno non dormi più la notte, ricordo che noi ragazze attaccammo tutti i letti. E' pesante, è molto pesante. E' gente che lo racconta da più di 30 anni e ancora piangono, li vedi agitarsi nel racconto ... Ma nessuno li obbliga, il Kibbutz l'hanno creato loro ... Io non sono una paranoica, ma sono dell'idea che uno deve avere una mente aperta per capire che tutto può succedere e se oggi è assurdo pensare che si possa ripetere, però è successo. Non pensarci sempre, perché poi uno diventa malato, ma tenere presente la possibilità. Lo vorrei insegnare ai miei figli questo spirito di ribellione e di sopravvivenza. David. Tanti mi dicono "ah, gli ebrei sono tutti ricchi", "ah, gli ebrei fanno tutti strada". Intanto c'è da discutere fra dentro e fuori, perché in Israele siamo messi male. Però fuori ... Sara. E' mia nonna! E' lo spirito di sopravvivenza! Mia nonna ce l'ha fatta tre volte nella vita e sempre ripartendo da zero. Finita la guerra aveva solo il pigiama del campo ed è diventata benestante in Germania, poi per sionismo è andata in Israele e lì nella crisi dopo il '50 ha perso tutto, sono emigrati in Brasile e lì sono diventati ricchi di nuovo. C'è da imparare da loro ... Lei non accetta i deboli, si arrabbia di fronte a una persona debole, perché dice che è colpa sua, che bisogna essere diversi, che il mondo è così e se uno è debole non ce la fa; può vivere, ma come uno straccio. Equesto lei non può accettarlo. David. E' questa reazione di difesa, di . sopravvivenza, appunto. Che ti fa stare ad un punto di partenza, come uno shock adrenalinico, già molto alto e quando entri in out, salti molto più in alto di tutti gli altri, che al massimo arriveranno a quello che IL RACCONTO DELLA NONNA Nel racconto di Sara il racconto di Hadass Secemski, la nonna settantasettenne, la sopravvissuta che non ha stima per i deboli, per coloro che si fanno trovare impreparati o si lasciano andare. Ali' inizio hanno chiuso il ghetto ebraico di Cracovia, e lì, mia nonna, che aveva un figlio di due anni, ha perso il marito. Non c'era da mangiare e morì di dissenteria. E per lei è morto subito perché era un debole, uno studente viziato, che la notte andava nelle osterie a parlare di politica, un donnaiolo anche. Per quello è "andato" subito. Continua a prenderlo in giro ancora oggi, ma credo che sia perché la tradiva. Comunque la filosofia di vita di mia nonna è che bisogna essere forti. Dopo alcuni mesi che nel ghetto non c'era più da mangiare, i tedeschi lasciarono un volantino in cui dicevano che chi avesse portato i bambini un certo giorno alla stazione avrebbe ricevuto del pane e una scatola di marmellata. E che i bambini sarebbero stati mandati in una colonia dove sarebbero stati bene. Mia nonna aveva la quasi certezza che avrebbe per~o il figlio, ma, da una parte non voleva crederci, e, dall'altra, comunque, quella era l'ultima speranza per il bambino che stava già male. Così, dopo averlo rifocillato, mandò il bambino con il treno. E l'ha perso. Dopo seppe quel lo che era successo, perché dove sostavano i treni la gente raccontava e le voci tornavano all'indietro. Fu a Bergen Belsen che mia nonna andò molto vicina a morire. Era addetta a raccogliere la spazzatura e c'era un cuoco, tedesco o polacco, che nella cucina tagliava il pane a cubetti e buttava nella spazzatura il pane che veniva tagliato male. Allora lei poteva raccogliere il pane gettato via. E il cuoco, che se n'era accorto, rompeva apposta dei cubetti di pane per gettarli nella spazzatura per mia nonna. Un giorno il capo di Bergen Belsen l'ha vista raccogliere iI pane, l'ha presa e l'ha tenuta così forte che nel braccio non restava più sangue. Lei dice che sapeva che stava per sparargli e che quella volta "s'è arresa". Però poi l'ha lasciata. "Forse non era molto concentrato in quel momento". E sempre a Bergen Beben conobbe mio nonno, che, a sua volta, aveva già perso moglie e figlio. Lavorava nelle stalle, perché, essendo stato nella cavalleria polacca, era lì come prigioniero di guerra e non come ebreo. Badava i cavalli dei tedeschi e siccome i tede~chi tenevano molto alle cose di cuoio, lui lavorava il cuoio per loro. E un giorno mia nonna, non essendo vestita a sufficienza, svenne nella neve. Lui la raccolse, la portò nella stalla e la nascose. E appena si riprese, lui cominciò a insegnarle come doveva lavorare lì. Ma una donna non doveva essere lì a lavorare, poteva facilmente essere scoperta. Per due volte riuscì a sfuggire ai tedeschi. La prima volta riuscì a uscire dalla finestra e rimanere attaccata alla grondaia il tempo che non la vedessero e non se ne fossero andati. Un'altra volta che l'avevano scoperta -e quella volta mio nonno, insieme agli altri che lavoravano con lui, prese molte bollel'avevano già caricata sul treno per Auschwitz, quando lei, in un momento in cui la porta era aperta senza che ci fosse nessuno a controllare, scese giù e scappò una seconda volta. La terza volta non c'è stato nulla da fare, dovette partire. Nel frallempo lei e mio nonno si erano innamorati. Non era un amore di tipo carnale, nessuno in quella situazione aveva delle fantasie. L'amore si manifestava nel dare un pezzettino di pane in più, o nel trovare del filo per cucire il vestito. Lui le dichiarò il suo amore facendole un paio di tacchi di cuoio per le sue scarpe di legno e lei, con quei due tacchi, si faceva bella con le compagne ... Quando arrivò ad Auschwitz era di notte, il viaggio era durato una settimana in un treno pieno di gente, senza acqua né niente. E i tedeschi aprirono i vagoni e ordinarono loro di scendere, ma bisognava aspettare l'alba. Tutti erano molto apatici, scendevano e si sedevano a terra. Era inverno e nevicava. Lei, invece di stare con gli altri, entrò in una baracca della stazione dove c'era un rubinetto. Si tolse i vestiti, li lavò, e riuscì anche a riposare per un po' su della paglia. Così al mallino, avendo un aspetto più sano degli altri, passò facilmente la selezione. Disse che sapeva fare l' infermiera, così è vissuta un anno e mezzo ad Auschwitz come infermiera. Nei primissimi giorni, subito dopo la selezione, lei, che sapeva che le sue quallro sorelle potevano essere ad Auschwitz, sentì per caso due detenute parlare della sua somiglianza con la tale detenuta e chiedersi "sarà sua sorella?" Ma lei non andò a chiedere notizie perché, in quel momento, ad Auschwitz, non poteva permettersi di per te era la soglia normale ... Tutto qui. David, tu sei nato in Israele, da parte di un nonno siete lì da 150 anni, tu Sara sei arrivata dal Brasile da piccola. Verso Israele avete un atteggiamento diverso? Sara. Certo, per lui che è sempre vissuto in Israele è diverso. Sono cresciuta in Brasile, i miei genitori ci tenevano molto alla loro identità e mi hanno mandato alla scuola religiosa dove si prega prima di mangiare e dopo, le feste le conosci molto meglio. Mia mamma da giovane ha frequentato dei ragazzi che non erano ebrei, solo che a mio nonno non stava bene questa cosa, le ha fatto sposare un ebreo. E' un atteggiamento tutto diverso. lo amo Israele, sto male fuori di Israele mentre lui no, io sto bene solo quando sto lì. David. In Israele si sta bene, è un paese molto aperto, il clima è migliore, nessuno ti tratta da minoranza, conosci tutto, e poi casa è sempre casa. Per me l'unico problema è lo stress. E' un po' come in America, devi fare tullo il giorno per guadagnare poco ... Fuori c'è più calma, non corri tutta la giornata, la vita è più facile e guadagni di più. E poi viaggiare, poter vedere i posti ... Sara. Io sto bene lì, ma lo capisco, perché anch'io stavo male quando lui andava a fare i 60 giorni tutti gli anni di servizio militare. David . ... qui avete i confini aperti, tu puoi andare dove vuoi, da noi non esiste. Per uscire devi fare i visti, non puoi prendere la maccbina e via. Allora io è tutta una vita che volevo uscire dalla "gabbia". Penso che sia un senso di libertà per me. Lei non ce l'ha, perché lei ha sempre viaggiato. Ma ci può essere il rischio di un esodo dei giovani? Sara. Da dieci anni a questa parte molti dei ragazzi che finiscono il servizio militare vanno via, inGiappone, in Australia ... Della nostra compagnia ci sono tre che sono partiti per un viaggio, sono via già da cinque anni e non hanno intenzione di tornare ... David. Ma questo è da vedere, perché dopo ogni guerra, in questo caso dopo la guerra del Libano, c'è un'ondata di nascite per compensare e anche un'ondata di emigrazione, perché la gente è stufa. è tutta la vita che volevo uscire dalla "gabbia" E dopo la guerra del Libano, molta gente, anche amici nostri, sono scappati' via. Nessuno vuole combattere, a tutti rompe di fare l'esercito per tre anni a 18 anni, gli anni più belli della vita, poi fare uno o due mesi ali' anno di servizio militare fino a 53 anni, credi che non è un gran piacere. E lo stesso è per le donne, che lo devono fare fino a 24 anni. A nessuno fa piacere fare la guerra. E poi questi mesi cadono sempre durante il periodo in cui potresti fare le vacanze, perché durante l'anno lavori o studi. Poi la vita è difficile in senso economico. Da noi è tutto in credito ed è difficile da noi trovare qualcuno che ha soldi in banca. Quando apri un conto corrente la prima cosa che chiedi è quanto ti danno di credito. E' difficile comprare una casa ... Anche in questo senso tanti giovani israeliani escono fuori, da noi si dice che vanno a: cercare se stessi, perché non capiscono cosa vogliono. E si divertono un sacco, ma poi, dopo qualche anno, tornano, non ce la fanno a restare fuori. • indebolirsi. Se sua sorella era ancora viva l'avrebbe trovata dopo, se era morta non poteva più farci niente e non poteva permettersi di "diventare nostalgica". Dopo la guerra è rimasta ad Auschwitz a fare l'infermiera per sei mesi, anche per aspettare mio nonno. Prima di partire, quando era già sul treno, lui era riuscito a gettarle un bigliettino in cui le scriveva che alla fine della guerra doveva aspettarlo lì dov'era. Sarebbe stato lui a trovarla. E così è stato. Prima di riuscirci, mio nonno, con un motorino tedesco, girò l'Europa per sei mesi, da un campo ali' altro. Addosso teneva ancora il pigiama da ebreo, perché così tutti lo avrebbero aiutato, gli avrebbero dato la benzina e da mangiare. Ritrovò prima i genitori di lei, che già sapevano -le voci uscivano dai campi- che la figlia era viva e s'era innamorata di un prigioniero. Anche a loro disse di aspettare perché l'avrebbe trovata lui e insieme li avrebbero raggiunti. Alla fine ci riuscì. Le aveva portato un vestito per poter smettere il pigiama e per rientrare a Cracovia con quel motorino, fecero sette settimane di luna di miele: "le più belle settimane della vita" di mia nonna. Ma quel pigiama l'hanno conservato. lo l'ho visto. E' uno strano tessuto, spesso quasi un centimetro, fatto di stoffa tessuta insieme a fibre di legno e carta. Sembra il rivestimento di una poltrona, e ora, dove la carta si sta poi verizzando, si sta riempiendo di buchi. - BibliotecaGino Bianco UNA CITTA' 9

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