Una città - anno III - n. 21 - aprile 1993

AVA LTE La morte preferita di oggi: il colpo. , 'inutilità dei rituali: il "consolo", il pianto collettivo, il parlare col morfo. La paura dell'annientamento nella morie individuale. La serialità anonima dei nostri cimiteri. Intervista a Francesco Campione. Francesco Campione è docente di Psicologia Medica alla Facoltà di medicina dell'Università di Bologna ed è direttore della rivista di Tanatologia "Zeta". Come è cambiato nel tempo il rapporto con la morte? Ci sono due grandi fasi di transizione. Una va dalla società e dalla cultura contadina alla società e alla cultura industriale e ha significato che, dal prevalere di una cultura contadina valida anche nella città, si è passati al prevalere di una cultura industriale che vale anche nelle campagne.L'altra fasedi transizione èquella che stiamo vivendo adessoe non sappiamo quali saranno gli esiti. Rispetto a queste fasi di passaggio ci sono, dal punto di vista tanatologico, due grandi impostazioni storiografiche: una dice che è più importante la mentalità piuttosto che i fatti esterni, ed è legata alle tesi di Philippe Aries, l'altra sostiene che sono più importanti i fatti esterni della mentalità, ed è la tendenza che fa capo a Miche! Yovelle. lo penso che siano due punti di vista abbastanza parziali; il problema è seci sia un'altra impostazione che in qual'chemodo possacomprenderle entrambe, trascenderle e andare oltre. per baffere il "male", fanti mali Io credo di sì, perché nelle tesi di Aries e di Yovelle c'è la separazione indebita di due dimensioni che di solito nel- !' esistenza non sono separate. Non ècosì semplice distinguere quanto la mentalità influenzi il modo di assumere le cose e quanto quello che succede fuori dalla testa di ognuno influenzi la mentalità. Se oggi, per esempio, chiedessimo alle persone come vorrebbero morire, la risposta che tutti, giovani e vecchi, di qualsiasi classe sociale, ci darebbero èche vorrebbero morire in modo indo- • !ore e senzaaccorgersene. Ma non è sempre stato così. La spiegazione che Aries dà di questo cambiamento è che la nostra cultura non èpiù capace di giustificare la morte emette questo fatto in relazione con la scomparsa del "male". Secondo lui è successoche noi, per combattere meglio il "male", l'abbiamo distinto in tanti mali: la povertà, l'emarginazione e così via, ed in questo modo siamo riusciti a combatterli. Alla fine, però, ci siamo ritrovati che il "male", quello con la maiuscola, non esiste più ed era proprio quello che giustificava la morte. "Perché si muore?", "Perché esiste il male"; oggi chi sa rispondere al "perché si muore"? La nostra cultura non fornisce più nessuna risposta, per cui la morte diventa assurda, non sappiamo più che farcene.Questami sembra una spiegazione abbastanza plausibile, però Aries in questa spiegazione si tradisce, deve superare il suo metodo, perché nonèsoltanto sulla base di una mentalità, ovviamente, che que~to cambiamento è avvenuto. C'è stato il cambiamento della medicina, del livello di vita ... Certamente, ma se si volesse dire che è solo per quei fattori oggettivi immediatamente apparirebbe il limite dell'altra prospettiva, quella di Yovelle. Perché, senza tener presente che oggi l'individuo non può sopportare il dolore e la morte e può solo cercare di non sentirli, senza questo rifiuto del dolore e della sofferenza anche quando è impossibile sottrarvisi, che è uno degli aspetti dominanti della mentalità moderna e contemporanea, non si capisce perché oggi si pensa che siameglio morire di colpo. In definitiva c'è un corto circuito tra i fatti e la mentalità per cui, alla fine, abbiamo un modo globale di vivere la morte che si esprime oggi attraverso il desiderio di morire in modo indolore, senza accorgersene. Ma il desiderio di morire evitando la sofferenza non è sempre stato il desiderio di ogni individuo? Non è la stessacosa. Pensare che la sofferenza sia male ègià dentro una scelta, implica che io consideri il malenon lamorte stessa,ma il come si muore. Se immaginiamo che non si muoia più, immediatamente possiamo pensare che qualsiasi dolore prima o poi si risolva e quindi diventa più sopportabile. Tutto dipende da come si differenzia la prospettiva. Se il problema del morire non è che muori del tutto, ma è che in quel momento si decide se la tua anima si salverào si dannerà, allora la morte preferita non può essere la subitanea. Questa, per secoli, è stata infatti considerata la peggiore, perché se non ti accorgi di morire non puoi pentirti all'ultimo momento. Anche in un'altra ottica, quella dell' 800, la morte peggiore non è la morte mia, ma è quella della famiglia. Ed era una cattiva morte il morire ali' improvviso perchéuno non poteva dettare le sue volontà e questonongli consentiva quelle che considerava le sue uniche capacità di vita, cioè il fatto che, lasciando agli altri un po' di sé,gli altri pensavano un po' a lui e così via. Forse oggi non solo uno si augura di morire di colpo, ma anche che una persona cara muoia all'improvviso ... No, no, questo non succede. Una delle morti più esemplificative da questo punto di vista è quella di chi va a letto e la mattina non si sveglia; in fondo è l'ideale realizzazione di quel desiderio. Ma sapete come restano gli altri? Per gli altri è difficilissimo superarequella morte, cioè tanto più è repentina, non annunciata, più difficile è superarla, più difficile elaborare il lutto. "andiamo a vedere citi è morfo" La morte improvvisa è uno degli ostacoli fondamentali all'elaborazione del lutto, perché il primo passo nell'elaborazione è la presa d'atto della realtà e se una realtà brutta ti arriva addosso senza nessun avvertimento è chiaro che sei sotto shock, traumatizzato. Dal punto di vista dell'elaborazionedel lutto ci sonodei processi psicologici e sociali sempre uguali, in tutte leepoche. L'uomo, cioè, può elaborare il lutto in quattro o cinque modi, però quello che in unacerta epocaè più normale è quello più coerente con l'impostazione generale del mondo in quel momento. Nella transizione dalla società contadina a quella industriale sono entrati in crisi tutti i rituali funebri. anche se ci sono dei residui. Per esempio. quando ero bambino, in un paese contadino della Sicilia, ricordo che quando moriva qualcuno la società era preparata, faceva sempre la stessa cosa, c'era un comportamento sociale ritualizzato. Quando uno moriva la casa era aperta per chiunque volesse andare a vederlo, compresi i bambini; ho visto tanti di quei cadaveri da bambino! Era un'occupazione di noi bambini: "E' morto il tale, andiamo a vederlo!". Questo oggi corrisponde ali' impedire al bambino il contattocon la morte; figurarsi col cadavere, non lo devono nemmeno sapere! Quella società sapevarispondere al cosa succede dopo, noi mica ci inquietavamo. Si moriva, succedevano delle cose, il cammino era già tracciato. Si andava al corteo, a piedi, i parenti più stretti seguivano fino alla fine, poi c'era la veglia, dopo di che i parenti stavanochiusi in casa: nove giorni le donne. tre giorni gli uomini. senza farsi la barba. Mentre erano lì, con tutti i parenti lontani e gli amici che venivano in visita si parlava ciel morto. Non si poteva neanche preparare da mangiare e c'era una ritualizzazione anche di questo. C'era il '·consolo". che in alcune parti del meridione si chiamava ·'riconsolo": qualcuno non direttamente interessato alla perdita preparava e portava il cibo, tutto era portato dall'esterno, non si potevano accendere i fornelli. A Napoli facevano il pranzo col morto, c'è un film con Mastroianni, "Maccheroni", la cui scena finale illustra proprio quello che succedeva: a uncerto punto si preparava la tavola, si cucinava normalmente, si lasciava il posto per il morto, pensando che il morto arrivasse, e tutti mangiavano come seci fosse. Ma la tipologia delle ritualizzazioni è infinita: Lombardi Satriani, per esempio, hascoperto del le differenze abissali tra un paesee l'altro della Calabria, magari con significa ti molto simili, ma che mostrano tutta la variabilità sociale delle abitudini. E' tutto questo che è entrato in crisi; tutto questo apparato rituale che aveva la funzione di aiutare le persone a superare una perdita, cli non lasciarle sole. La morte era un fatto sociale: la morte di mio nonno non ha riguardato solo la mia famiglia o solo noi che eravamo addolorati per lui, ha riguardato tutto i I paeseequesto era realizzato attraverso la ritualizzazione dei comportamenti prima, durante e dopo la morte; cosa che poi si prolungava con la visita al cimitero il 2 Novembre, che era ritualizzata anche quella. La funzione del rito era quindi quella di consolare, di aiutare a superare la perdita ... Certo, ma non era solo una consolazione. deve morire anche • per no, C'è un libro molto bello di Ernesto De Martino, "Morte e pianto rituale", in cui viene analizzata la crisi, che non è una crisi cli questo ultimo periodo, di un aspetto specifico di questa ritualizzazione: il pianto rituale, cioè quella situazione che si verificava quando. morto uno, si chiamavano le donne a pagamento, le Prefiche. Di questo c·è forse qualche residuo in Calabria, ma nessuno lo capisce, sono cose da vecchi, sono residui. De Martino analizza la crisi di questo pianto rituale edice che esso, ma la stessacosa si può dire anche dei rituali funebri, serviva ad aiutare le perc,onea superare la crisi specifica della morte che è il chiedersi "A che cosaservevi vere, lottare, acm,a servono le cose che co~truiamo, la storia, se poi si va a finirecosì?". Secondo De Martino quello che la morte determina non è qualcosa che attiene soltanto al singolo, ma tende a far sì che l'individuo torni indietro, da essere culturale e storico ad essere naturale, un essereche non crede più nella storia, la quale non servirebbe a niente perché tanto si muore. Il pianto rituale serviva a far sì che il morto morisse due volte: una volta perché morto fisicamente, fatto che metteva in una crisi da cui non ci si sarebbe potuti più risollevare, e una seconda volta, cioè quando si dava senso a quella morte. Il pianto rituale serviva a dare questo senso, inteso anche come ·'direzione". Cioè lui è morto fuori, ma dobbiamo farlo morire anche in noi per poter continuare, il che vuol dire che occorre tutta una serie di rituali per fare in modo che lui stia al suoposto, nel mondo dei morti, e che non torni, che non ci disturbi, così che noi possiamo continuare a vivere. Dal punto di vista emotivo quello che in genere succede è che io rischio di seguire il morto, ma c'è un meccanismo rituale che mi permette di lasciarlo e di tornare a vivere. In fondo è simile all'accompagnare il morto al cimitero, dove poi mica ci si ferma. Un rituale collettivo molto importante è quello di parlare del morto, inserendolo in una storia comune, per cui, in definitiva, dipende da noi se il morto sarà morto del tutto. Il senso della sua vita e della sua morte dipendono nuovamente da noi: possiamo assolverlo, condannarlo, riparlarne. portarlo in campo, possiamo fino in fonUN FArro DI DIGNIFA' Anche il rapporto medico-paziente è bioetica; soprattutto se consideriamo questa più come unmovimento culturale, uncostume di valori e di rapporti umani vissuti, che una pura disciplina specialistica. In fondo ogni giudizio parte sempre segnato dalle personali esperienze esistenziali: il modo in cui affrontiamo la malattia, il significato del dolore, il valore della corporeità fisica e lo stesso enigma della morte si imparano anche nel concreto del rapporto personale con il proprio medico. Chi cura -chi ha cura- non prescrive soltanto delle medicine; stabilisce un rapporto carico di umanità. E per l'ammalato riveste sempre un ruolo quasi sacrale. E' razionale riconoscere questa irrazionalità. Se la malattia è sempre stata vissuta come una metafora, perché stupirsi se anche la figura del medico è còlta nell'alone potente della salvezza? Le alternative diffuse a questo modello umano di medico, quelle di un puro rapporto commerciale o legale, competenza e prestazioni, oltre che essere povere ed insufficienti comportano alla fine dei costumi sociali che pesano anche economicamente perché inducono a usare il medico come un impiegato della salute a cui chiedere tutto. Proprio in un periodo in cui la parsimonia burocratica sta diventando, persino in America, il criterio ultimo della salute. La recente riforma (si fa per dire) sanitaria ha inteso affrontare solo gli aspetti economici e strutturali; gli impliciti politici trascurano le fondamentali istanze etiche, così che se a chi è sano potevano anche apparire necessarie, erano invece certamente folli per l'ammalato che sente la salute come il problema supremo e prioritario. Un'autentica riforma non può sorvolare bellamente sugli aspetti morali della questione. E tuttavia l'umano del rapporto tra medico e paziente nasce dalle coscienze e si forma nel costume sociale. A volte si chiede anche poco: riservatezza, comprensione, disponibilità; non certamente l'eroismo del dr. Rieux de "La peste" di Camus. Qualcuno si chiede se la professione stessa, come oggi si svolge, così come predilige l'esame clinico al colloquio, l'occhio all'orecchio e all'ascolto, non favorisca l'attenzione ai sintomi, più che al soggetto personale, all'ammalato. Il tempo disponibile per il medico è breve e l'esperienza pratica è invece lunga e ormai scontata: le conseguenze sono evidenti. Eppure questa carenza di colloquio non è solo un'insufficienza tecnica, perché viene poi a toccare anche le decisioni da prendere; decisioni che possono maturare soltanto nel reciproco confronto tra medico e paziente. Se è passato il tempo della decisione paternalistica e professionale, sta ora anche tramontando il criterio dell'assoluta autonomia del paziente: la decisione risulta dalla reciproca comunicazione. Su questo, Jung ha visto meglio di Freud. E qui, proprio qui, si misura l"'humanitas" del medico, il suo essere più che il suo sapere. Non basta che elenchi alternative e poi abbandoni il paziente alle sue libere scelte; anch'egli dovrebbe imparare a coinvolgersi nel bene del paziente, magari arrischiando nell'insicurezza. Talvolta il distacco più che professionalità è una forma sottile di autodifesa, mentre invece il coraggio del medico lo fa stare accanto al malato. Tanto più che il vero senso delle decisioni e delle sue conseguenze sfugge al malato che si sente confortato solo nella sua fiducia verso il medico. Insomma, quale figura di medico desideriamo? Dell'esperto o quella di chi in fondo condivide pur sempre la nostra povera condizione umana? Perché è appunto qui che forse si cela la motivazione più alta di questa professione: laconsapevolezza della dignità dell'uomo anche se malato; la coscienza della comune condizione del male di vivere. E poiché si è sempre tentati dai modelli sociali correnti di dimenticare questi primi, assoluti valori, non è forse opportuno ricordarli al principio di ogni riforma sanitaria e di ogni discussione bioetica? r' CO Sergio Sala.

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