Una città - anno II - n. 18 - dicembre 1992

I intervista a don Piero Morigi, da 29 anni affeffo da sclerosi multipla Parliamo della malattia. E' luogo comune pensare che chi ha fede alla fine riesca a cavarsela abbastanza bene. Ci puoi raccontare la tua esperienza? Allora occorre che faccia un po' di storia della malattia, perché la fede non é che vada per conto suo, e così la malattia. La malattia é la sclerosi multipla, e sono malato da 29 anni. Il primo sintomo che ho avvertito é stato il 23 luglio 1963. Un inizio quindi molto precoce, cui ha fatto seguito uno sviluppo fortunato della malattia perché molto lento: a ricadute rovinose, durante le quali non camminavo più, succedevano periodi abbastanza lunghi di remissione. E' chiaro che, diventando sempre più anzianotto, questi periodi di remissione sono diventati sempre più corti e più lunghi i periodi di ricaduta, ma alla fine devo dire che la mia esperienza di malattia è cresciuta piano, tanto piano che ho avuto modo di correrle dietro. In fondo non ero "un malato", ma avevo anche la malattia. Sono riuscito a vivere la malattia come una dimensione fra le altre: che so, "mi piace dipingere e ho anche la malattia"'. La malattia non ha invaso tutta la mia esperienza di fede né quella di prete. Pur zoppicando, pur faticando, sono riuscito a fare tutto ciò che la vita mi richiedeva. E anche quando la malattia era molto forte, quando la ricaduta durava due o tre mesi, anche a livello di fede riuscivo a darle un senso, proprio nella linea della pazienza: riuscire, cioè, a non considerare tempo perso il tempo che stai fermo a casa, che sei bloccato con le gambe. Anzi, si può riuscire a farlo diventare forse il momento più produttivo perché spesso iI fare rischia di farti dimenticare il tuo essere profondo. se dopo 29 • • ann, cammino ancora ••• Un'altra cosa molto importante nella mia vita è stata quella di poter vivere in questa comunità. Un'esperienza bellissima. Se cammino ancora, e non succede molto spesso dopo 29 anni, è perché in questi diciassette anni ho avuto gente che mi portava a camminare due volte la settimana. Calcolando un po' i chilometri fatti a piedi, sono arrivato alla cifra di circa 7 .000 km. Se mi muovo ancora è per questo: ho avuto accanto gente che è cresciuta insieme a me senza ridurre don Piero al la malattia. Non c'è mai stato "l'uffa" di fronte alla richiesta di aiuto, ma quest'ultima era accolta come una cosa del tutto normale. Uno che ha fame lo dice, così io devo camminare e quindi chiedo di avere una mano. Ma su un piano di pari- ' ' ~ _.,~~) /✓ t•:,,-, ..,., tà. E per me il fatto che la comunità ti motivi alla parità con gli altri è una cosa di una bellezza unica: se da una parte gli altri danno testimonianza del loro essere profondamente inseriti in un discorso solidaristico, di fede, e ti danno una mano in maniera delicata, gentile, dall'altra parte tu devi rispondere con l'impegno a portare la tua croce, devi dare testimonianza a loro che la malattia va affrontata con dignità. C'é un dare e un avere. fa risposta I' lto capita a 50 anni E' grazie anche a questo che in tutto questo tempo ho potuto fare anche il mio lavoro, il mio servizio di prete. Nelle fabbriche poi, dove, fra l'altro, non ci si può certo aspettare che la gente vada verso il prete. Mi dovevo muovere io, e quando andavo ancora bene giravo moltissimo, di sera andavo negli ospedali, si andava a fare gli incontri nelle case, c'era una grande attività. E se anche adesso, pur camminando molto male, posso continuare ad andare è perché ali' interno delle aziende c'è qualcuno che mi dà una mano. Per esempio, proprio ieri, in una fabbrica di Cesena, essendosi persa lachiave di una porta e dovendo andare su per una scala, tre operai mi hanno portato la carrozzina. In fondo devo dire che non ho mai vissuto il dramma della paura di presentarmi agli altri, dell'umiliazione di dire "adesso come faccio?". Rispetto, infine, al problema della fede, è evidente che in certi momenti abbastanza pesanti, la fede è consolazione, ma anche, contemporaneamente, tragedia. Alla considerazione "beh, Dio mi vuole bene lo stesso", si accompagna la domanda: "se mi vuol bene perché mi tratta così?". Ma anche qui devo dire grazie al buon Dio di non aver avuto mai grosse crisi, tranne, una volta da giovane, quando sembrò che avessi non la sclerosi multipla, ma un tumore alla testa. Ero riuscito a scollare la busta che mi avevano dato per il mio medico ed avevo letto che c'era un focolaio espanso che, dagli studi fatti, voleva dire tumore. E a 21 anni pensare di avere solo altri sei mesi, o al massimo due anni, da vivere è una cosa che fa una certa impressione. Quella volta ebbi una crisi ... Poi la risposta alla domanda: "se mi ami perché ...?" l'ho capita più avanti: se ti ama Lui e la vita è eterna, trenta, quaranta o cinquanta anni qui non cambiano nulla ... Ma l'ho capita a 50 anni. Ora più della mia mi preoccupa la situazione degli altri, perché dò per scontato che la mia è una situazione comunque ben LAMELA VIATORELLI,3 TEL. 30411 FORLI' PROMOZIONE VINILE PRENDI 3 PAGHI 2 - MELDOLA - VIACAVOUR,180 TEL. 491753 riuscita. Dovessi lamentarmi io sarei veramente ingrato, perché io sono aiutatissimo, dentro la malattia ho potuto eposso ancora fare tutti i miei lavori. Così una grossa fetta del mio impegno riguarda la condivisione con gli altri. Noi abbiamo fatto un'associazione per gli ammalati, un'associazione volontaria che ha come scopo proprio quello di aiutare noi stessi malati ad aiutare chi è malato. Ma senza fare il discorso che, dato che siamo poveri handicappati, stiamocene in disparte e aiutiamoci fra di noi, ma quello di aiutarsi ad uscire di casa, a stare in mezzo agli altri, di aiutarsi con tutti i mezzi, dalla macchina attrezzata, alla carrozzina a motore, al montascale. Perché l'handicap non ci deve separare dagli altri. Se alla sera devo andare ad una conferenza e per andarci devo fare una gran fatica. é evidente che la pago un po' più di qualcun altro, però il fatto di riuscire a esserci è segno che non devo mettermi in disparte. E domando anche che mi sia fatto un po' di giustizia, che un ambiente che deve essere per tutti, debba essere anche per me. Che la scala non debba pesarmi più di tanto e quindi che sia fatta nei termini di legge. Ma che non si venga attorno a me con l'idea di farmi la carità, che non mi si porti in un posto quando andare in quel posto senza fatica deve essere un mio diritto. Non si deve scambiare la carità con il diritto. Va benissimo la carità, ma che sia un abbellimento del diritto e non una sostituzione. pesante, cronica, clte mai finisce La situazione che più fa male, e io lo riscontro quando devo ricoverarmi in ospedale, è I' abbandono in cui spesso si preferisce lasciare gli ammalati di questa malattia: una malattia cronica, pesante, una malattia che non finisce mai. E del gruppo di sette, otto, che eravamo il primo anno, dopo due o tre anni già metà era abbandonata. L'anno scorso uno di questi amici mi ha detto che la vigilia del suo ritorno a casa, la moglie ed i figli erano andati via, che era dovuto tornare a casa solo come un cane. Situazioni che mi danno una tristezza, un'amarezza estrema, che non ho mai provato per me. Preoccuparsi un po' degli altri ti serve moltissimo a toglierti ogni spinta alla lamentela. Per questo poi non sopporto vedere come oggi si sciupi la vita in maniera oscena. Vedere uno non far conto della sua salute perché ha 20 anni e che si permette il lusso di andare in macchina a 170 km all'ora. Questo disprezzo della vita mi dà una grande umiliazione, avverto un malessere fisico, la sento come un'ingiustizia. Ma come? Per vivere io devo fare una fatica enorme e non arrivo a fare tutto quello che vorrei e uno di 20 anni si permette di buttare via la vita correndo in macchina? Ma chi si crede di essere? E' come se di fronte ad un assetato io buttassi via l' acqua. Certo la malattia ha i suoi alti e bassi, alla volte hai i tuoi scoraggiamenti, a me piaceva molto scalare le montagne, camminare, correre, ma forse è anche vero che adesso enfatizzo tutte le cose che non posso fare. Quando sogno, sogno di camminare, di correre e quando corro con altri sono 1no 1anco sempre il primo, il mio sogno ricorrente è quello di scalare una montagna e di arrivare in vetta da solo, con gli altri sempre di sotto. Nostalgie? Diventando vecchio non mi pesano più. Ormai mi sono abituato adire "beh queste cose che mi tocca fare sono talmente belle nel loro piccolo" ... Perché sembrano piccole ed insignificanti ma quando vivi una picco! issima cosa con una fatica notevole, anche con astuzia perché devi saper usare certi accorgimenti, usare i muscoli in un certo modo anziché in un altro, hai l'impressione di aver fatto un piccolo progetto che nel suo piccolo é bello. Se di qui devo andare di là, in biblioteca, il fatto stesso che debba e riesca a pensare, a progettare come muovere i passi, a prevedere gli appigli, le spinte, a prevedere gli ostacoli, dà il senso di una azione compiuta. Nel suo piccolo in fondo è come quando una volta andavo a fare la passeggiata, l'escursione in montagna. qualcosa clte al microscopio è perfeffa Diventando vecchio c'è invece un rischio: quello di rimandare. Se domani devo andare in fabbrica, dirsi, per esempio, che ho male qui, che ho male là. Ma bisogna vincersi ancora di più, perché se decidi di non andare perché hai male ad un muscolo, allora starai chiuso in casa, non ti muoverai più. Bisogna provocarsi a fare una vita normale, perché se badi al corpo, a come reagisce, non ti muovi più. Poi questa malattia non ti permette di programmare il domani. Ad esempio a voi ho detto "venite martedì sera", ma poteva essere che io non fossi qui questa sera, che non fossi disponibile, perché la malattia ha dei ritmi fatti a suo modo. Questo dà un senso di instabilità, ti devi accontentare, ma quando riesci a progettare, a preventivare e a fare una cosa, per quanto piccola, ciò diventa una realizzazione enorme. E come quando guardi qualcosa al microscopio e la trovi perfetta. Forse é questo il bello nella mia vita: il gustare la bellezza delle piccole cose. E che per ogni piccola cosa posso dire: é un dono che Dio mi fa. Hai parlato di doni. Premesso che in certi momenti critici il bisogno di "pregare", di rivolgersi a qualcuno che possa aiutarti, a un qualche padre, sia del tutto umano, però se scegliamo il Dio dell'impotenza mi sembra contraddittorio poi pensare ad un Dio interventista che continuamente può tornare ad usare gli strumenti del padre potente, quello dei premi e castighi. Per quello che riguarda il discorso sul Padre, credo fermamente che è dalla croce che Cristo salva il mondo e quindi me. E se la croce è il momento della tenebra, ho la certezza comunque della resurrezione. E' questo che forse caratterizza la fede: non tanto il fatto di non riuscire a credere al Dio che perde, ma al Dio che vince nella resurrezione. E la resurrezione nella mia vita non vuol dire che goda già adesso della resurrezione in Cristo, per cui il dolore non esiste più. Ho i problemi, soffro come te, per me la fede é vedere e non vedere. Non é tutta limpidezza, luiconvivere con fa malattia ta luce, è anche oscurità. Credere in un Cristo che vince attraverso la sua croce vuol dire credere che un Dio viene a me, non che io vado a Dio. Il che è sostanzialmente diverso. Anche ad Auschwitz, quando Wiesel di fronte al bambino di 14 anni impiccato che non riusciva a morire perché pesava troppo poco, si domanda se "Dio esiste in questo campo", la risposta é che esiste proprio perché esiste gente che soffre. Dio è presente nella sua croce, nella sua sofferenza che non è, però, una sofferenza per sempre, non c'é il "per sempre", quel momento è finalizzato alla resurrezione. E trovarsi anche nell'oscurità, percepire Dio in modo confuso, è condizione normale di ogni credente, che viene messo alla prova nella sua fede attraverso questa realtà di oscurità. fa croce non è fa sofferenza "per sempre" Avere fede significa trovarsi a che fare con la croce, ma se ci si ferma alla croce si soffre per sempre nel buio completo. Credere nella resurrezione dà senso ad una realtà che è comunque croce. Uno che.ha la sclerosi multipla la morte· la ·vede più vicina, come realtà possibile, qualche volta la palpa. Nella mia esperienza di prete, quando vado in fabbrica incontro anche gente che si dice atea, ma siamo carissimi amici e non perché siamo di buon cuore, ma perché avverto che tra di noi c'é questa ricerca: non c' é strafottenza da parte loro, né da parte mia la gioia di un possesso che ti butto addosso. C'è il pensare che siamo due poveracci: io vivo la dimensione del rapporto con il problema in questo modo qua, tu in un certo altro modo, però ci sono dei valori immensi tra me e te che viviamo insieme, coltiviamo insieme. Insieme siamo solidali, insieme vogliamo confrontarci. Quindi il rapporto tra credente e non credente non é di contrapposizione. E' la ricerca che qualifica una persona nel suo valore, nel suo germoglio. Dicevi della difesa, del mantenere la dignità. Penso sia un problema anche molto pratico, molto concreto. Ho letto che nei campi poteva essere addirittura più importante procurarsi il pezzo di sapone che quello di pane... Per noi malati é importantissimo avere il coraggio di non lasciarsi andare, perché un ammalato di sclerosi multipla è facilissimo che si lasci andare. un degrado clte può • • • 1ns1nuars1 Se faccio fatica a fare una certa cosa, sono tendenzialmente portato a non farla: ma ru non la fai oggi, non la fai domani e acquisisci un abito mentale che ti porta a non fare, a non esprimerti, ad aver paura di fare due passi perché se caschi non c'é nessuno che ti prende su. E per questo è decisivo il contesto in cui tu vivi. Esso ti può aiutare a tenerti su o ti può facilitare ad andare giù, perché tu tendenzialmente saresti portato al degrado, a non coltivare interessi, a non fare le cose che ti costano. Non é così semplice decidere, che so, di andare in fabbrica, se non c' é l'ambiente che ti stimola è chiaro che non ci vai, che non lo fai. Ti devi mettere in testa che ogni volta che devi fare qualche cosa, anche la più piccola, deve essere una cosa pensata. Voi adesso uscite e fate mille cose che non pensate, camminate e non ci pensate, salite in macchina, guidate e non ci pensate; invece qui se vuoi far funzionare una vita devi pensare ad ogni singola questione, ad ogni singolo gesto in cui devi mettere in movimento qualcosa. Allora tu le cose che fai nella giornata le devi pensare, devi spezzettare i gesti, e nelle sequenza delle cose che devi pensare per poterle fare devi anche essere abbastanza esatto, perché anche in quella sequenza si può insinuare il degrado di cui parlavo prima: un rallentamento, uno strascicamento che inavvertitamente ti porterà a un decadimento progressivo. Fino al punto di essere un rudere seduto su di una sedia in attesa che venga la morte. Noi, come Aims, diciamo: uscite di casa. Per ogni motivo, una fisioterapia, una mangiata, un divertimento, ma bisogna uscire di casa. E l'amicizia, per questo, è importante. Tutto questo influisce anche sul decorso della malattia? Tra la malattia, la psiche e il fisico c' é un rapporto normale, ma che per noi diventa importantissimo. Un malato di sclerosi multipla non sereno perché mal sopportato o anche solo perché osservato in modo poco benevolo, si muoverà male, non potrà che peggiorare. La serenità è fondamentale per potersi esprimere, per venir fuori, per vivere. E' per questo che tanti malati di sclerosi multipla che potrebbero rendere, non dico cento, ma cinquanta, di fatto, perché abbandonati, rendono due o tre. Infatti negli esami clinici non c'è mai corrispondenza fra tasso di infezione e tasso di inabilità. Se tu mi guardi storto faccio fatica a stare in piedi ... è incredibile ma è così. - ...PeranimareCevostrefeste ... ...Peri compCeannaiei vostri figfi ... ...Perognioccasione"magica.".. DON EPIX il primo prestigiatore a domicilio T el. 0543/ 35357 - 64587 UNA CITTA' 13

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