La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 8 - ottobre 1995

CINEMA ESISTE UN GIOVANE CINEMA ITALIANO FUORI DALLA "GRANDE FAMIGLIA"? Luca Mosso Luca Mosso di occupa di cinema e video. Collabora a "Linea d'ombra". ♦ La domanda è: esiste un un cinema giovane italiano sommerso ma vitale, che non arriva nelle sale, che non ha accesso alle tv? La risposta è positiva, anche se i critici sembrano non accorgersene. Tornando da Bellaria, da Torino-Giovani, dalla sezione Corti di Venezia, stilano ogni anno il loro referto, piatto come le condizioni di un malato cronico, non rinunciando dentro di loro, e purtroppo spesso anche sulla pagina, a confrontare il programma con una qualche mitica edizione del passato ..A Bellaria da un paio d'anni ci si sono messi pure gli organizzatori - imitati dai locarnesi ossessionati dall'evento speciale - che hanno inserito nel programma la proiezione di esordi eccellenti di trent'anni fa (e qui li voglio: dopo Bertolucci e Bellocchio chi ci piazzeranno?), rendendo automatica, anche da parte di chi non è un veterano del f estivai, la litania dell'erano meglio una volta. Più f roblematico è, invece, tentare di articolare i ritratto e capire quale direzione questo cinema stia prendendo. Più dell'indicazione sicura di una rotta, troveremo una geografia articolata di autori e gruppi, distinti per provenienza ed estetiche. Non ci sono manifesti poetici né scuole forti, e sono pochi i maestri riconosciuti: l'arcipela&o, come suggerisce il titolo della manifestazione romana, è la sua immagine più calzante. Non che non esistano alcune tendenze prevalenti: ci sono e andrebbero analizzate, con gli strumenti dell'economia oltre che con quelli dell'estetica, ma è significativo che le esperienze più interessanti raramente vi rientrino. La novità degli ultimi anni è il 35 mm. Anche in passato c'era chi usava il formato professionale, ma si trattava di eccezioni rispetto alla massa dei sedicisti e dei videomakers. Quest'anno a Bellaria i trentacinque in corcorso erano cinque e a Locarno, che raccoglieva molti dei migliori lavori di fiction degli ultimi tre-quattro anni, addirittura ventidue (su quarantuno). Anche considerata la segreta predilezione dei selezionatori per questo formato (fiù prestigio, miglior qualità di produzione), i dato rimane impressionante: significa, tanto per dare un'idea, che almeno la metà di questi autori ha avuto a disposizione budget paragonabili a quelli dei ragazzi di Clerks. Non intendiamo cadere nel confronto un po' snobistico con quel film fortunato e colto (quanti SUOLEDI VENTO Clerks arrivano dall'America in dieci anni?), ma non possiamo fare a meno di notare che i criteri di spesa dei filmakers italiani siano molto diversi da quelli dei colleghi americani. Dove questi hanno scommesso tutto sull'equilibrio tra precisione sociologica e debordante verità esistenziale, poggiando su un solido script una messa in scena aperta all'improvvisazione e facendo dell'obbligata povertà formale un punto di forza, i nostri preferiscono realizzare piccoli film ben fatti, a cui tecnicamente "non manca niente". Quindi: attori professionisti (Rifiessi sulla pietra di Nunzio Liuzzo, Lo scooter di Roberto Palmerini, Il sorvegliante di Francesca Fran~ipane), montaggio e fotografia tradizionali (se possibile con palco luci abbondante, ignorando la lezione del migliore dei nostri direttori della fotografia, Luca Bigazzi, capace - si ricordi Paesaggio con figure di Soldini o Manila Paloma Bianca di Segre - di creare grande suggestione praticamente senza mezzi) e soprattutto copioni rifiniti fino in fondo. Per trovare i soldi - che, avverte Dario Formisano ("L'unità",19 agosto 1995), almeno finché non verrà· perfezionato l'accordo fra Anac, Upc e Ministero, non ci sono - occorre presentare una sceneggiatura che funzioni e rassicurare il finanziatore. E allora niente sperimentazione o azzardate ricerche formali, ma storie solide e controllata medietà linguistica. Molti film sembrano risentire di questa concentrazione un po' ossessiva sul copione. È Silvio Soldini che, parlando dei propri film, puntualizza lucidamente il problema chiedendosi se "l'enorme importanza attribuita alla sceneggiatura nella fase progettuale-finanziaria del film possa giocare contro una "sensibilità"; possa offuscare e in parte anche cancellare quell'insieme di fragili intuizioni che costituiscono l'anima di un film" (Mario Sesti, Nuovo cinema italiano, Theoria 1994, p.101). Autoingabbiati in un canone che rifiuta ogni protagonismo della macchina da presa, i giovani filmmakers che vogliono espnmere la propria cifra d'autore sono come costretti a farlo attraverso i personaggi, ma spesso cadono nella trappola d1 mettere al centro della loro storia degli smorti alter-ego di se stessi, e di costruire sulle loro gracili spalle l'intera impalcatura del film (esemplari La regola del sonno di Michele Fasano e Quasi una storia di Vittorio Moroni). Partire da sé è operazione corretta, ovviamente, ma si rivela disastrosa sul piano espressivo se quello che viene messo in scena non è che il riflesso della propria miseria esperienziale. Per rendere interessanti figure di scrittori, registi e altri osservatori d'occasione o di professione, occorre associare a essi una radicalità di messa in scena, che faccia della scelta della _posizione per la macchina da presa una questione etica. Senza parzialità nella scelta del punto di vista, gli occhi di chi ci presenta la storia risultano inevitabilmente incapaci di sguardo, impossibilitati a produrre una visione (del mondo, dell'autore o almeno del cinema). Me~li'o allora saltare il fosso: costruire personaggi distanti da sé aiuta gli autori a liberarsi da quell'atteggiamento di complice indulgenza che spesso manifestano nei confronti dei propri protagonisti e a incamminarsi in un processo di oggettivazione e distanziamento che agevoli la messa a fuoco delle idee. È quello che fa Francesca Frangipane, la migliore rappresentante della tendenza del

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