La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 5/6 - lug.-ago. 1995

quale autoritarismo - l'autoritarismo di oggi, non quello di ieri o dell'altro ieri che s'usa evocare come· spauracchio -- non ha neppure · bisogno di un capo geniale: gli bastano gli apparati esistenti, gli bastano l'enorme complessità, l'enorme inerzia e l'enorme, quasi soprannaturale, autorità della società industriale. Società la quale non è sostenuta tanto dai capitalisti, come vuole il luogo comune imperante, ma piuttosto dalle idee stesse alle quali si appellano i pretesi sovvertitori. Giacchè, insomma, quale altro Dio o ideale ha espresso l'uomo moderno dalla sua esistenza collettiva se non quello del possesso e del godimento di oggetti, quello della soddisfazione illimitata dei bisogni, quello del benessere e del piacere come unica ragione del lavoro, insomma questa "civiltà dei consumi" così facilmente e falsamente ripudiata? In tali condizioni, parlare di "rivoluzione" è diventato romanticismo assai sospetto. Bastano i colpi di stato. I quali sono fatti da pochi, dall'alto e in segreto. Hanno dunque torto, i giovani ammutinati? No. Ma non hanno neppure ragione. Di ragione si può parlare solo quando si parla ragionevolmente, da individuo a individuo. La massa in tumulto non ragiona mai, né può mai aver ragione: è un'esplosione e basta, un fatto che sicuramente ha le sue cause e ragioni sufficienti, e dunque, in buona logica, non si può né approvare o disapprovare altro che in dettaglio, caso per caso, individuo per individuo. Non si approva un terremoto, si cerca di rimediarvi. Ma al terremoto di cui la rivolta dei giovani non è dopotutto che un sintomo, l'attuale classe dirigente italiana (anzi gli attuali padroni del mondo in generale, giacché il fatto è universale) non dà segno di saper portare rimedio alcuno, solo delle aggravanti. Il rimedio, in verità, se c'è è altrove, e a molto lunga scadenza. Consiste nella secessione risoluta da una società (o meglio: da uno stato di cose, giacché "società" implica comunanza e ragione che sono precisamente quello che manca, oggi, nella vita collettiva) la quale non è neppure cattiva per natura, anzi suscettibile di vari miglioramenti. Non è cattiva e non è buona: è indifferente, che è I-a peggior cosa di tutte, la più mortifera. Da questa società - da questo stato di cose - bisogna separarsi, compiere atto pieno di "eresia". E separarsi tranquillamente, senza urla né tumulti, anzi in silenzio e in segreto; non da soli, ma in gruppi, in "società" autentiche le quali si creino una vita il più possibile indipendente e sensata, senza alcuna idea di falansterio o di colonia utopistica, nella quale ognuno apprenda anzitutto a governare se stesso e a concedersi giustamente verso gli altri, e ognuno eserciti il proprio mestiere secondo le norme del mestiere stesso, le quali costituiscono di per sé il più semplice e rigoroso dei principi morali, e sempre per natura escludono la frode, la prevaricazione, la ciarlataneria; la fame di dominio e di possesso. Ciò non significherebbe assentarsi né dalla vita dei propri simili, né dalla politica in senso serio. Sarebbe, comunque, una forma non retorica di "contestazione globale". , ♦ J.f,Zj_Qjyj_ CHIAROMONTE EIL'68 Federica Bellicanta Federica Bellicanta si è laureata in Lettere a Venezia con una tesi su Chiaromonte. Segue un corso di giornalismo a Bologna. ♦ Nicola Chiaromonte, nel corso della sua vita di critico, ha scritto esclusivamente saggi. Brevi articoli, recensioni a opere altrui o lunghe trattazioni, essi avevano tutti un'origine occasionai~, nel ~enso vero ~ella rarola. Erano sempre un occasione, una s1tuaz1one, un momento e un luogo precisi, che fornivano un pretesto, anzi che sollecitavano e necessitavano la scrittura. L'inizio del saggio era anche l'inizio di una ricerca morale e intellettuale, intrapresa per assecondare l'irrequietezza del "tarlo della coscienza". Tutti i suoi scritti sono strettamente legati alla situazione storica in cui sono stati concepiti e sarebbero impensabili al di fuori di "quel" mondo che si era appena lasciato alle .spalle Hitler e Mussolini e si trovò poi alle prese con lo stalinismo, la guerra fredda, la corsa agli armamenti e le illusioni del disgelo. Ma la qualità militante degli interventi non fa sì che lo scrittore si lasci "bruciare" dall'attualità, perché la cronaca è solo il punto di partenza per formulare e affrontare problemi più ampi, per rispondere a interrogativi morali e intellettuali. La critica sociale e il commento politico di Chiaromonte non pongono sotto accusa solo i fatti, le tragedie o i finti progressi del mondo, ma anche i principi, i valori e i disvalori che hanno reso possibile il verificarsi di ciò che è accaduto. Bisogna tener conto di questo se non si vuole congedare Chiaromonte con un elogio funebre, che lo mette senza dubbio dalla parte di coloro che hanno avuto ragione, senza però rendere giustizia all'ancor oggi feconda e sovversiva attualità del suo pensiero. Se si considera Chiaromonte un vincitore, se· si sottolinea che la sua critica ha ricevuto la conferma dai fatti (la fine del regime franchista, quella del gaulllismo, la caduta del muro di Berlino, la disgregazione dell'itnpero sovietico, il crollo (?) del sistema di eotere democristiano), allora' si è costretti a nconoscere che i suoi scritti hanno assolto la loro funzione e ora sono tutt'al più materia per archeologi interessati a ricostruire i non esaltanti avvemmenti di un recente passato. Il suo pensiero potrebbe sembrare, in definitiva, essersi tradotto in realtà; anzi: .Ja realtà avrebbe superato anche il pensiero, rendendo la denuncia e la protesta di allora inutili per il ·presente. Ma per Chiaromonte il pensiero è intraducibile in qualcosa di diverso dal pensiero stesso. Non esistono idee che si realizzano, che si incarnano da capo a piedi nella realtà. Rimane sempre un nucleo, quello dell'esigenza etica e conoscitiva da cui prende avvio il pensare, che nessuna impresa pratica può "usare", concretizzare, piegare ai propri fmi e che ri-

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