La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 1 - febbraio 1995

MORIR!;DOVE Silvana Quadrino "Non è che non voglia morire, voglio anche morire, però non vorrei morire che sto male, che sto qui in ospedale. Vorrei andarmene al mare, al sole e d'improvviso addormentarmi. La mia preoccupazione è la sofferenza, e la struttura in cui si soffre". Sono le parole di un malato di Aids (citate da Simonelli e Solano, Psicologia e Aids, Nuova Italia Scientifica). Un malato "terminale". Terminale. La parola evoca morte imminente. Morte che è, anche, un traguardo. Fine dell'angoscia, delle sofferenze. Capolinea. Per il malato di Aids, però, la fase terminale può essere lunga, lunghissima. In qualche modo, comincia nel momento stesso della diagnosi di sieropositività. Terminale, cioè senza speranza; terminale, cioè senza futuro; terminale, cioè senza neanche l'illusione dell'operazione miracolosa, dell'olio che guarisce. "La cosa peggiore è quella di sapere che non potrò più torr_i,area essere sieronegativa ... " diceva una ragazza dopo aver avuto il responso del test. Impossibilità di tornare indietro, di restaurare la salute di prima: è così che si comincia a sentirsi terminali. Terminali, ma con di fronte uno spazio di tempo indefinito e indefinibile, segnato dall'inevitabile presentarsi delle mille infezioni "opportuniste", dall'entrare e uscire dall 'ospedale, da illusioni brevi ("ho guadagnato dieci chili, sono stato in montagna e ho camminato due ore, ho rifatto quel sentiero... ti ricordi?" mi dice un amico malato; sembrava che dovesse morire il mese scorso, sarà per il prossimo mese?) e dalla necessità di abituarsi a pensare che davvero è tutto finito. E' questa terminalità protratta, questo succedersi di episodi acuti che potrebbero, ognuno di loro, essere definitivi, a rendere particolq,re, e particolarmente destrutturante, la situazione del malato di Aids. Il "luogo", il centro della vita, non è più la casa, il gruppo degli amici, la scuola, il lavoro. E' l'ospedale, il reparto. Si entra e si esce da lì, ci si riconosce, si chiedono notizie di quelli che c'erano e forse non ci sono più. Nel reparto si ricreano, nel bene e nel male, comportamenti che ricordano quelli della famiglia. Di una famiglia in cui il potere non è diviso alla pari, in cui c'è chi può decidere per te, importi le sue regole. "L'ospedale è l'inferno. Si tratta di farsi rispettare, è estenuante, un rapporto di forze che dura notti e giorni ... Loro vogliono che noi perdiamo, contano sull'usura, sullo sfinimento ... " scrive H ervé Guilbert (Citomegalovirus, Bollati-Boringhieri) e il suo libro è uno sfogo di rabbia impotente e di aggressività, fino al disprezzo, contro l'ospedale con le sue regole insensate, i medici con la loro falsa BibIiotecaGinoBianca competenza, le infermiere che chiacchierano ad alta voce, parlano dello stipendio, dei prezzi che aumentano, incuranti, lente, disattente... Difficili da trattare, polemici, scontrosi e poi improvvisamente espansivi, pieni di richieste affettive e di riconoscenza ... Spesso i malati di Aids coinvolgono chi li cura in relazioni ambivalenti, tormentose e senza uscite. Françoise Baranne (Le couloir, Gallimard), infermiera per tre anni (tre anni e mai più!) in un reparto di cura delle malattie infettive - sinonimo, ormai, di reparto per malati di Aids - ha raccontato in un libro i conflitti quotidiani fra buon senso e realtà (come si fa ad augurare il buon anno a questi malati? Agli altri, a quelli che hanno speranza ... ma a questi? ... Non sarà una presa in giro? Eppure no, se lo aspettano, lo vogliono, già lo spiega Maurice che morirà di lì a poco, "anche voi ci mettereste al bando, dalla società:,dai normali, se evitaste di farlo ... "), fra necessità di curare e desiderio di non far soffrire inutilmente. Finché si trova, una mattina, a desiderare disperatamente che il ragazzo malato che ha lasciato sconvolto dalla sofferenza la sera prima sia morto, finalmente. Conflitto con la propria scelta professionale, con il proprio obbligo, con il patto che sembrava sacro: lavorare per la vita. Invece, si invoca la morte ... I conflitti, in qualche modo, sono amplificati ed esaltati, se non prodotti, dalla struttura ospedaliera. Pesano sui malati e anche su chi li cura, sulle figure di assistenza soprattutto. Infermieri, infermiere, spesso coetanei di malati che non diventeranno adulti. La struttura ha le sue regole, insensate per chi sta per morire. Ha i suoi obblighi, dolorosi per chi sa di praticare cure che non serviranno. "Non voglio più farlo", diceva un'infermiera ragazzina, qualche giorno fa, uscendo dalla stanza di un malato. Non voglio più farlo: cercare una vena che non si trova, bucare tre, quattro, cinque volte mentre il ragazzo si lamenta fino al pianto, per cosa, un antibiotico che non servirà a nulla, e la prossima volta, fra due o tre ore, quanti buchi dovrò fare?, e stasera, e domani? ... A che serve? Regole, protocolli. Gli antidolorifici dati con parsimonia inconcepibile. Gli orari... L 'istituzione può rendere la morte ancora più difficile. Essere svegliati quando si è appena preso sonno, non avere uno spazio, una protezione fra le manifestazioni degradanti del proprio corpo e gli altri ... La malattia si esprime in sintomi umilianti, scariche diarroiche, macchie e sfaghi della pelle, perdita di controllo, delirio, incubi, allucinazioni. A questo punto, il problema della qualità della vita è superato. Bisogna parlare di qualità della morte. Praticabile, raggiungibile, possibile, in ospedale? Meglio a casa, in famiglia, allora? Il problema dell'assistenza domiciliare in fase terminale - nelle fasi terminali, perché per un malato di Aids ogni nuova infezione può essere quella definitiva - non può essere affrontato in termini ideologici, o teorici. E' bene, è male, è meglio ... Intanto, a casa: in quale casa? in quale famiglia? L 'Aids, con il suo potere distruttivo, non demolisce solo il corpo del malato; ne demolisce l'immagine, la rispettabilità, e con la sua quella della sua fa-

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