Gaetano Salvemini - Scritti vari (1900-1957)

Maestri e compagni La redazione del Popolo era una bolgia infernale: gente che gridava, consigliava, sconsigliava, chi gli diceva di presentare al Senato la denuncia, chi gli diceva di smentirne l'autenticità. Quanti fra quegli energumeni fossero agenti fascisti, nessuno avrebbe potuto dire. Donati taceva. Ma nei suoi occhi si leggeva lo smarrimento. Era ora di colazione. Gli dissi: "Vieni con me." E me lo presi sotto il braccio portandolo via quasi per forza. Mentre facevamo colazione, mi spiegò che il testo della denuncia non aveva ancora raggiunto la forma definitiva; ma qualcuno lo aveva sottratto al cassetto, in cui era chiuso a chiave, e Mussolini lo aveva fatto pubblicare dai suoi giornali. Da quanto risultò in seguito, l'accusa di complicità nell'assassinio era infondata. Ma certamente De Bono aveva consigliato a Dumini, il condottiero della banda, di negare, negare, negare. Mussolini, avendo visto. che la denuncia conteneva contro De Bono l'accusa indimostrabile di complicità nell'assassinio, fece pubblicare il documento per mettere Donati con le spalle al muro: se insisteva in quell'accusa, De Bono sarebbe stato clamorosamente assolto; se Donati si rimangiava l'accusa, sarebbe caduto nel ridicolo, e avrebbe fatto cadere nel ridicolo tutta la campagna antifascista nell'affare Matteotti. In quel momento, né Donati, e meno che mai 10, potevamo comprendere il segreto di quella manovra. Io dissi a Donati: "Al punto a cui sei arrivato, non puoi tornare indietro, salvo che ti manchino basi per l'accusa. Se hai quelle basi, devi dare forma definitiva alla denuncia, e presentarla." Se ne andò via rasserenato, e presentò la denuncia. La commissione inquirente del Senato assolvette De Bono dalla complicità nell'assassinio, ma dal favoreggiamento lo assolvette solo per insufficienza di prove. E la relazione del procuratore generale Santoro, pur proponendo l'assoluzione, traboccava di documenti gravissimi contro gli uomini che circondavano il duce. Per un uomo che, come Donati, aveva proceduto a mosca cieca, quel risultato non fu cosa da niente. La denuncia fu detta giustamente il solo atto di coraggio personale (temerario quanto si vuole, ma coraggio) che sia stato fatto nella campagna per l'affare Matteotti, mentre i deputati antifascisti si tenevano "imboscati sull' Aventino. " Ma il sistema nervoso di Donati non resse alla tensione di una lotta, che nella direzione del Popolo era durata per due anni e mezzo, e alle minacce di morte che erano diventate continue. Nel luglio del 1925 emigrò in Francia. Qui cadde a pie' pari in un nido di vipere: un gruppo di antichi fascisti, che nel 1924, dopo l'assassinio Matteotti, si erano rifugiati in Francia. Avevano temuto, a quel che pare, che Mussolini, per deviare l'attenzione dai veri colpevoli, li facesse giustiziare sommariamente perché su di essi si concentravano le ostilità del pubblico. I piu, fra quegli ex fascisti, finirono col rientrare in Italia. Uno fra essi, Massimo Rocca, nel 1946 vide il 98 BiblotecaGino Bianco

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