Una città - anno IV - n. 35 - ottobre 1994

• or,e LOS IO, IL VENTO, LA DIO Il lungo viaggio di una quindicenne dalla Brianza alla Patagonia per conoscere un nonno anarchico che nel lontano '26 per sfuggire ai fascisti, attraversò l'oceano per finire in una terra lontana da tutto e da tutti e interminabile. Intervista a Laura Pariani. Laura Paria11ii11seg11naelle scuole superiori i111111 paesino del 111ila11esDe.i recente è uscito il suoprimo libro di narrativa Di corno o d'oro (ed. Selleria). Mia madre, ad un certo punto, ha avuto l'esigenza di sapere di questo padre. Ed è partita portandosi dietro me bambina. lo avevo quindici anni, ma avevo avuto una vita molto protetta, di quelle che possono fare le ragazzine lombarde in un paese piccolo: Magnago avrà ottomila abitanti e negli anni '60 era un paese che si stava aprendo all'industria. Si stava tutti relativamente bene, credo, c'erano grandi speranze di crescita economica, si vedevano i soldi, la gente si comprava macchine, televisori, le famiglie avevano i loro piccoli risparmi. Siamo partite nel '66, io avevo finito la quarta ginnasio ed ero bambina, con la gonna al ginocchio e le calzette corte. Abbiamo fatto questo viaggio per nave, perché mia madre non sopportava l'aereo, e siamo arrivate a Buenos Aires tre giorni dopo il colpo di stato. E' stato uno shock ... soprattutto arri van do dalla situazione tranquilla di un paesino lombardo, mi sono trovata di fronte una situazione per me assolutamente anomala: ti dicono che non ci sono più i partiti politici, non ci sono più i giornali, non si può uscire a una certa ora di sera per il coprifuoco, le strade sono piene di carri armati, di notte in albergo senti sparare. Sono tutte cose che a quindici anni ti fanno pensare, che ti mandano in crisi più facilmente che ad un'altra età. Poi l'impatto con una grande città come Buenos Aires che, a parte il centro che è bello come qualsiasi città europea, è tremenda. Enorme come non ne ho mai conosciute, con questa periferia sterminata, strade non asfaltate, case che a me ricordavano dei garage. Immaginate questa periferia veramente sterminata, queste vie lunghissime in terra battuta, qualche fico d'india equesti cubi da un lato e datr altro della strada; pozzanghere quando piove e polvere quando il tempo è asciutto e soffia il vento. E poi la povertà, la miseria come dato di fatto costante. Da noi, negli anni ·so, non è che si stesse bene, però in un paese ancora contadino tutti avevano l'orto, più o meno si vestiva tutti uguali, c'era una condizione comune un po' in tutte le case. Certo si faceva il bagno in cucina nella mastella perché non c'era l'acqua calda, non c'erano i termosifoni e il riscaldamento, ma si viveva un po' tutti così. La miseria vera e propria non l'avevo mai vista. L'ho vista lì e ancora prima, nell'impatto con città come Rio de Janeiro o Santos o Montevideo. Quando si arriva a Rio c'è il taxi che ti porta su fino al Corcovado, sotto vedi questa montagna di favelas e pensi: sono tane; il taxi arranca in mezzo alle favelas e pensi: ma dove sono capitata? Oppure, ancora prima, quando la nave si fermò a Tunisi e nelle vie del centro uno si avvicinò a mia madre e le chiese se voleva un bambino: costava una sciocchezza. Insomma è stato tutto un accumulo di cose, di cui l'ultima è stata Buenos Aires con il colpo di stato. Mio nonno, dalle Ande, è venuto ad incontrarci a Buenos Aires. Anche per lui l'impatto con Buenos Aires è stato faticoso, l'aveva vista venti anni prima e ormai era una megalopoli, di cui non ricordava quasi più nulla. Io tengo ancora in cucina una vecchia fotografia di quando i miei nonni si sono sposati: lui è un bel l'uomo, con uno di quei profili duri, decisi, proprio bello, e mia nonna è una stupenda ragazza col sorriso radioso. Era partito nel '26, era un anarchico convinto e mentre costruivano la stazione di Busto, passò una squadra di fascisti che, vedendo questi operai col fazzoletto rosso al collo, scesero per dar loro una lezione. Tra questi fascisti ce n'era uno che aveva fatto la guerra con mio nonno e che forse lo ha salvato, minimizzando con gli altri fascisti, dicendo di lasciar perdere. Quella volta la scampò, ma forse si rese conto che non avrebbe potuto scamparla sempre. Bi Molti del paf e erano già parr. c,I' America. chi nel nord, molti nel sud, e così è partito, pensando, lui ne era convinto, che il fascismo sarebbe crollato, che sarebbe stata questione di qualche anno. Ma il fascismo non crollava, e il tentativo di mio nonno di portare mia nonna in Argentina non riuscì, lei faceva parte di quelle vecchie famiglie contadine ed era molto più legata ai suoi genitori che a questo marito che aveva anche conosciuto poco, perché se ne era andato, di cui non condivideva le idee, anche se le accettava. E poi, a quell'epoca le distanze erano davvero grandi e spaventava molto questa emigrazione verso un altro continente, un altro paese, un'altra lingua, un'altra cultura ... Ci sono sensazioni che io provai allora e che credo provi qualsiasi emigrato in un paese straniero. Una sensazione di spaesamento linguistico per cui pensi in una lingua e parli in un'altra, e quando parli vengono fuori dei pasticci, oppure la sensazione di vastità che ho provato attraversando la Pampa, una vastità che veramente ti mozza il fiato. Quando in Italia devi attraversare la pianura Padana sai che prima di sera sei arrivata alle Alpi, la pianura ad un certo punto finisce, invece lì è qualcosa che oltrepassa il corso del sole, è finita la giornata e c'è ancora pianura. Penso a quale dovesse essere la situazione psicologica degli emigranti del secolo scorso, gente che non era mai uscita dal proprio paese, per la quale Milano era la grande città e ali' improvviso attraversarono I' oceano e questa terra infinita ... Questa sensazione di spazio, di libertà immensa, è una cosa che ti cambia la testa. Una cosa che colpiva una ragazzina come me, dalla vita estremamente regolata. Dopo l'incontro a Buenos Aires mio nonno tornò a casa propria, dove si era rifatto una famiglia. Viveva con una india che si chiamava Rossa, da cui ebbe anche dei figli, che però mia madre non volle incontrare. Decise invece che fossi io ad andare da lui, mi mise su un treno e mi disse "vai". Sola, per un viaggio in treno di due giorni e mezzo! Là si fanno sempre questi viaggi lunghissimi,chenon puoi spiegare,è un'altra dimensione. Il treno parte ... e quando arrivi, arrivi. Quando sono partita da Buenos Aires mi sono venute le lacrime agli occhi e mi sono sentita sola e derelitta. Dopo questi due giorni in treno salii su un vecchio autobus, per un viaggio infinito per strade indescrivibili. C'era il conducente che aveva il fornellino per l'acqua calda e ogni tanto si fermava, lo accendeva, e faceva iImàte per tutti. C'era lo zuccotto per bere che si passava e se non avevi portato il tuo zuccotto partecipavi al rito con tutti gli altri. Siamo arrivati alle cinque del pomeriggio, d'inverno, e la cosa tragica era che mio nonno non c'era ancora. Mi sono sentita ancora più persa di quando ero partita. Sola, in una serata gelida, annottava quasi, in questa stazione vuota, non sapendo come arrivare al paese del nonno, lontano ancora un centinaio di chilometri. Allora ho cercato il consolato e devono essersi impietositi di questa bambina. Il console mi ha portato a casa sua a mangiare e mi ha fatto dormire al consolato. Mi diceva "vedrà che arriva, ci vuole il suo tempo", sdrammatizzava, non si può pretendere che uno arrivi in stazione quando arriva la nipote da Buenos Aires! In effetti mio nonno arrivò il giorno dopo, con mezzi di fortuna. Questo è stato iImio impatto con la Patagonia. Lì mi sono fermata un po· di mesi. in questa casa isolata, in montagna, ma non è come essere nelle Alpi, anche se in alcune zone si somigliano. Per la maggior parte le Ande sono brulle, montagne nude battute dal vento. Uno dei ricordi che non ti lasciano dcli' Argentina è il vento; è terribile. ti piega in due, schiaccia i cespugli a terra. Quando a Milano mi capita di c~~crc investita ali' improvviso da una folata di vento uscendo dal sollopassaggio del la metropolitana, ogni volta ricordo l'Argentina, è quel tipo di vento lì. Su queste montagne non cresce niente, se non in certi versanti più protetti, è un paesaggio vuoto, nudo, che dà una sensazione di isolamento. Sono · · · · · · c~aggio che non ha niente di umano. Mio nonno volle che imparassi subito a sparare perché quando sei fuori non sai se puoi chiedere aiuto a qualcuno. Si incontrava una casa ogni trenta chilometri e non c'era una intimità collettiva come nel paese dove sono nata, in cui tutti sapevano quello che faceva l'altro e c'era una concezione allargata dei rapporti di intimità. Là non c'era niente. Mio nonno, che aveva sellant'anni, si era ritirato dal lavoro dieci anni prima e aveva una piantagione di pere su un versante della montagna abbastanza protetto. Con loro viveva un anarchico russo che il nonno aveva conosciuto molti anni prima. Era andato via dalla Russia che era ancora un ragazzino e la sera si trascorreva a sentirli raccontare. Anche perché non c'era altro, non c'era la televisione ... e loro tutte le sere a parlare e fumare sigari, oppure a sentire la radio in religioso silenzio, la radio che dava le notizie dal mondo. Non c'erano veicoli per i collegamenti e un prete passava in jeep ogni due o tre settimane per i rifornimenti. Io sentivo la mancanza dei libri e chiesi a lui di portarmeli. Mi portò cinque libri con cui ho vissuto parecchi mesi, alla fine credo di averli saputi a memoria! C'era un libro di Dickens, Shakespeare, c'era addirillura una antologia kantiana che non so dove avesse trovato! Ecco, queste cose facevano parte della nostalgia per l'Europa, per la cultura scrilla, la cultura in cui ero cresciuta. Parlavano anche di politica, però, lì, ormai era tutto così lontano, era quasi una situazione di libertà e non è un caso che quando i militari, qualche anno dopo, hanno cominciato a perseguitare tulla una generazione, molti siano scappati in Patagonia. Perché lì veramente puoi far perdere le tracce, il territorio è immenso, c'è Buenos Aires, ma è lontana e tu sei lì, da solo, e non hai più niente a che fare con il resto del mondo. Arrivano le notizie, ma sono più che altro curiosità, strane cose che ancora fanno gli esseri umani da qualche altra parte. Mio nonno non parlava mai dcli' Italia, non parlava nemmeno più l'italiano o il dialetto, anche se lo capiva. Per lui l'Italia era rimasto il paese che aveva lasciato allora. con la fame, la miseria, dove si lavorava tanto, ci si ~raccava la ~chicna facendo il muratore o il contadino e in cui non c'erano prospetti ve; non c'era verso di convincerlo che la situazione era cambiata, per lui non era possibile. Sul camino era ancora issata la bandiera nera anarchica, perché certe cose restano. Quello era il passato, era quello per cui un tempo avevano fallo delle scelte e quelle scelte restavano. lo mi allaccavo alla radio, che arrivava solo in certe sere, e mi perdevo a sentire questi programmi, questa voce umana, bianca ... , perché è difficile per chi viene dall'Europa stare in una zona abitata quasi esclusivamente da indios. A quella età hai anche un rifiuto verso altre culture, non le senti tue, sei stato abituato in un altro modo e non riesci ad accettare certe cose, le ritieni inconcepibili, per te sono superstizioni, a quindici anni sei molto rigida e non hai l'umiltà di accettare esperienze diverse, fai fatica, ti sembra di essere l'unica sana di mente in un mondo di matti. Questi lndios tutti in giro con il cappello di feltro con il segno nero del lutto perché è morto Atahualpa quattrocento anni prima, tu pensi che sono matti. Oppure gli uomini che non lavorano, al massimo fanno un po' di maglia. Lavorano solo le donne e tu dici: ma perché gli uomini non devono lavorare? Poi ci sono le cose che le donne non possono fare, tipo le feste: gli uomini si riuniscono nella valle per il solstizio, vengono anche da villaggi lontanissimi, ballano e bevono per tre giorni e guai se le donne si fanno vedere. Questo è un po' il mondo in cui ero capitata. Con mio nonno, all'inizio non è stato un rapporto semplice, tra noi c·era diffidenza reciproca, però mi è mancato molto quando è morto. A poco a poco, in quei mesi e negli anni successivi, era diventato un mito, questo nonno che aveva condotto una vita irregolare. fatta di scelte vissute fino in fondo, con un comportamento a suo modo coerente. Era l'avventura il mondo di cui parlava e che intravedevo in quel viaggio. Viaggi come quello ti fanno ruotare la testa di ccntollanta gradi, non puoi non tornare cambiato perché sei di fronte a cose troppo diverse da quelle cui sci abituato; l'esperienza di qualcosa che sia altro, diverso, nel bene o nel male, lascia dei segni se non ci passi dentro come un turista. Quando tornai a Buenos Aires, ad esempio, mia madre buttò via il poncho che mi avevano regalato perché puzzava di capra e questa cosa mi fece molto arrabbiare: sapevo che puzzava, ma me lo avevano regalato! Non che avessi adottato un'altra mentalità, però, dopo aver vissuto per un po' insieme a loro, quella sensazione iniziale di essere l'unica persona saggia a poco a poco era cambiata, si era insinuato il dubbio che se fossi stata io la pazza in mezzo ad una comunità di savi avrei avuto la stessa sensazione. Cominciava a scuotermi un dubbio: da che parte stava la ragione? Qual è la vita sbagliata? Sono io che sbaglio o loro? O forse siamo semplicemente diversi? Altre cose mi hanno mandato in crisi al ritorno a Buenos Aires: quando stavamo per partire per l'Europa una domenica ci fu una festa di saluto con una battuta di caccia. Anche da mio nonno si cacciava, ma serviva per mangiare, si cacciava quello che sarebbe servito anche da conservare per l'inverno. Ebbene, mi ricordo, alla fine di quella domenica, l'aia grandissima di questa fattoria completamente coperta di animali uccisi -c'era di tutto, dalle lepri agli uccelli, perfino gli struzzi- e l'odore del sangue. Era una cosa inconcepibile, non era cacciare per mangiare. Era un ammazzamento senza senso e la sera, prima di andare a casa, di tutti quegli animali hanno fallo un gran falò. Una caccia assurda. Mi sono proprio chiesta dove era la parte giusta e se davvero avevo voglia di tornare a casa. Quando sono tornata non riuscivo più a parlare con le mie amiche, loro erano rimaste alla vita di sempre: l'interrogazione, il vestito, la domenica, la hit parade e io, malgrado me ne interessassi, non potevo dimenticare quello che era successo là. Ero già grande mentre loro erano rimaste come eravamo negli anni prima, Per le mie compagne, al massimo, contava il fatto che ero stata a Rio de Janeiro, a Copa Cabana, che andavo a cavallo, cos'altro potevo dire loro? Quello che non riuscivo a spiegare era la situazione di lacerazione che vivevo allora, non sapevo più da che parte dovevo stare, non sapevo più chi ero. Da una parte c'erano cose che mi facevano arrabbiare tantissimo, dall'altra cose per cui provavo una nostalgia intensissima, come, ad esempio, qualcuno con cui parlare, un'amica ... Invece quando sono tornata non riuscivo più a parlare con nessuno. Non riuscivo a comunicare la sofferenza della solitudine, o perché vedi cose che ti disgustano. Il senso di vergogna che ti nasce dentro, di essere bianca o di essere ricca, non lo puoi spiegare, è un tipo di esperienza che fai e che se non hai mai provato non ti tocca. Ricordo di essere stata una ragazza molto chiusa, tutti dicevano che ero molto cambiata. Così ho passato un paio di anni, con i miei moti di ribellione che tutti prendevano per pazzia, o quasi. Poi c'è stato il '68, certe rabbie potevano venire fuori, potevano incanalarsi, e penso sia stata una grande terapia ... E lì il ricordo del nonno è in qualche modo andato al suo posto. •

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