Una città - anno IV - n. 33 - giugno 1994

problemi di confine B I La lotta contro il dolore e le nuove tecniche per rendere autonomo il malato terminale e non ospedalizzarlo. li rapporto difficile coi parenti. La diffidenza verso l'analgesico da parte dei teologi, per i quali il dolore avvicina a Dio. I dolori che allontanano da tutto. Il disinteresse per le cure domiciliari, costose e poco redditizie. Intervista a Giuseppe Fattori. Giuseppe Fattori, primario dianestesia.fa parte del gruppo di lavoro della regione Emilia Romagna sulle cure palliative e l'assistenza domiciliare. Cosa si intende esattamente con "cure palliative"? In Italia l'argomento "cure pali iative" non è ancora diffuso, in campo medico non esiste ancora una bral)- ca specialistica, mentre in Inghilterra e in Canada ci sono già delle · scuole apposite. Le cure palliative non sono legate alla patologia: possono essere rivolte ai pazienti oncologici, ai malati di Aids, ai distrofici. La tecnologia sta facendo grossi passi avanti, la farrnacologia anche, ma è l'aspetto organizzativo che continua a rimanere indietro. In Italia c'è un po' di organizzazione indirizzata sul settore del dolore dell'apparato locomotore, ma non c'è ancora sul paziente oncologico perché è un campo molto più difficile. Un punto chiave di questa assistenza sono gli "hospice", cioè strutture sanitarie a costi più bassi del- (' ospedale, fatte a dimensione della persona, dove i familiari hanno libero accesso, dove non si è vestiti da ammalati e non si subiscono tutte le angherie dell'ospedale. Con l'hospice si media tra domicilio, attività ambulatoriale e posto di ricovero. La tecnologia dell'ospedale lì non serve più, sono zone a bassa tecnologia e ad alto contenuto assistenziale, luoghi dove il paziente porta tutto quello che vuole da casa -i suoi fiori, il suo gatto- e può avere un angolo cottura per prepararsi le cose che gli piacciono. Nella lingua italiana "palliativo" viene inteso in senso negativo, significa che non c'è più niente da fare, mentre, ali' opposto, è quando non si può fare più niente per guarire una malattia che si comincia a lavorare per curare, e questo coinvolge moltissime patologie. Dal1'arteriosclerosi non si guarisce, neanche dal diabete o dall'insufficienza respiratoria, però si curano, si curano per parecchi anni e l' ospedale non è il luogo più adatto per queste persone, perché la finalità dell'ospedale è la guarigione, non la cura. Se l'obiettivo è la guarigione, qualsiasi prezzo è pagabile: uno si rompe la gamba, c'è un intervento, ci sonodellesofferenzeda affrontare, però si sa che poi ci sarà la guarigione, ma quando non c'è più questo obiettivo finale cambia tutto, qualsiasi terapia va mediata col paziente. Quindi non è un'assistenza facile, non ci sono dosaggi giusti, niente è scontato: bisogna chiedere al paziente, perché magari anche un disturbo piccolissimo per lui è insopportabile. Bisogna riuscire a dare s·ollievo dal dolore oppure dare un supporto nutrizionale, e fare queste cose fuori dalla struttura tradizionale dell'ospedale abbisogna di un'organizzazione, bisogna riuscire a portare fuori gli specialisti. In questo momento il 30% dei pazienti muore a casa e il 70% in ospedale: l'obiettivo è invertire questa percentuale. Nella malattia, inoltre, c'è spesso una fase intermedia in cui, per mille motivi, la famiglia ha bisogno di respirare un attimo, oppure c'è bisogno di un' assistenza un po' più intensa, e allora si utilizza l'hospice. Un punto importante, però, è non concentrare troppo nel territorio i posti-letto di hospice, al fine di evitare che questi vengano individuati come il posto dove si va a morire. Bisogna distribuirli nel territorio equesto potrebbe anche avere il senso di una vicinanza alla famiglia. Non è necessario che siano tantissimi, in primo luogo perché, purtroppo, il tum-over è enorme e poi perché non sono luoghi per i lungo degenti: servono a dare un sostegno alla famiglia in un momento particolare. un ago piccolissimo sempre attaccato Ricerche dell'Organizzazione Mondiale della Sanità sui fondi e sulla destinazione delle risorse, hanno rivelato che in questo momento le risorse sono investite soprattutto nella ricerca e nella prevenzione e pochissimo nelle cure palliative, ma ora, tenendo conto dei risultati che si hanno, dei numeri, della quantità di pazienti che stanno morendo, che si trovano in situazioni disperate, è la stessa Oms che sta proponendo di spostare più fondi verso il sollievo dal dolore, verso le cure palliative, e meno verso la terapiacausale,verso la ricerca. Soprattutto la tendenza è quella di lasciare la ricerca ai paesi avanzati, che hanno già strumenti per farla, mentre in altri paesi, soprattutto in quelli in via di sviluppo, si deve potenziare l'assistenza. Ci sono già cure palliative sperimentate? Ci sono, in ogni regione nascono spontaneamente. Quella del dolore è un'emergenza reale, non un bisogno indotto dalla struttura, dai medici, dalle categorie; la persona che sta male, che ha un dolore insopportabile, in qualche modo una risposta la stimola. lmportantissima è la Fondazione Floriani di Milano; in Romagna c'è l'Istituto Oncologico Romagnolo e a Bologna I' Associazione Nazionale Tumori. Poi ci sono altre piccole associazioni che si coagulano intorno a questo settore, medici di medicina generale, volontari ... Tecnicamente i problemi sono semplici, ma sono mille i problemi formali e burocratrici, ecco perché è ancora molto efficace il volontariato. E' il volontariato che spesso sopperisce a queste difficoltà. lo faccio da rete, nel senso che a volte posso coglierne uno stimolo, oppure riuscire a trovare delle soluzioni, mescolando assistenza pubblica e volontariato. Per questi motivi il taglio che sarà dato in futuro alla sanità è fondamentale. Come orientamento, un'impostazione pubblica dell'assistenza dovrebbe garantire un livello di qualità omogeneo per tutto il territorio. Cioè fare in modo che ci sia una rete che lavora con parametri almeno "sufficienti" e con uno standard che permetta ovunque al cittadino di avere lo stesso livello di assistenza. Il fatto è che sono spese aggiuntive: non costa meno fare assistenza domiciliare, perché è una cosa in più. E dovrebbe essere il settore pubblico a dare un apporto importante, perché, anche dal punto di vista culturale e tecnologico, il volontariato non può, non deve, dare questa risposta. Decidere se spendere in questo o in altro dipende dal livello di civiltà della società. Anche se in realtà io sono convinto che non costino così tanto. Con un buon modello organizzativo e valorizzando le figure professionali giuste non è estremamente costoso. Questi sono un po' i modelli in cui io credo e peri quali stocollaborandoaprogettichepro- -------------------------stazion i LA VOCE DEI SOPRAVVISSUTI Per caso un giornale di un anno fa con le foto di morte dell'attentato di Firenze . Un lutto non solo di corpi, ma di spazi, la fine di quel "senso di accettazione profonda dell'esistenza" di cui parla Longhi pensando a Giotto e Masaccio, alla serena architettura dei loro volumi di tempera. Questa distruzione, queste case sventrate, questi oggetti colpiti e trascinati altrove, questi luoghi feriti feriscono così profondamente da frantumare ogni senso dello spazio, da rendere impossibile perché offuscati da paura e vergogna, contemplazione e rifugio e sosta. Forse esistono nuche pesanti come il mare, non la civiltà dell'architettura, ma il buio dell'acqua, un diluvio invisibile che sommerge così velocemente da non lasciare il tempo di costruire un'arca. In questo fine millennio noi vaghiamo non troppo diversi dall'umanità descritta da Rodolfo il Glabro: per città insicure, fra roghi accesi da esseri spenti e confusi. Bruciano le biblioteche e insieme ai libri le stanze, gli oggetti e i pensieri d'intere famiglie. Quando bruciò la biblioteca popolare della Bosnia-Erzegovina D'Elia e Roversi dissero sul Manifesto che gli intellettuali non dovevano più tacere; è vero ma occorrerà usare la parola dei sopravvissuti e degli inseguiti: coraggiosa e spezzata, veloce, senza compiacimenti. Una parola che racconti dawero, chi ha visto il dolore non perde tempo a cantare "l'impoetico" dei suoi piedi sporchi, tutto è nella essenzialità della sua stanchezza, nel suo linguaggio senza steccati, prosa e poesia una nell'altra, una sull'altra pelliccia sul corpo della bestia. Penso a L 'Angel di Franco Loi: un intero mondo nel corto-circuito del verso: vomito, sangue, il fruscio della neve che cade e il tossicomane che batte la testa sulla porta. Per dire dawero la pena occorre una voce atterrita eperfetta, in bilico su ciò che s'incrina. Solo l'altezza conosce dawero la profondità: solo il soprano più puro può cantare nel Flauto Magico, il buio della Regina della notte. Antonella Anedda o muovano questa branca della medicina, in modo che il settore pubblico se ne faccia carico. Esiste già un volontariato che lavora in questa direzione? Sì, ma è un settore particolare, che richiede dei professionisti, non è come fare un turno di volontariato alla Croce Rossa, con un' ambulanza due volte al mese. Il paziente vuol vedere sempre le stesse persone, ha un rapporto diretto e non vuole persone che vadano a rotazione. Queste devono essere persone qualificate perché devono anche gestire situazioni difficili, sia per quanto riguarda l'aspetto infermieristico che quello, altrettanto importante, di un sostegno spirituale. E ancora, è essenziale saper valutare la specificità del luogo in cui si opera, perché a seconda di dove ci troviamo c'è una visione diversa della morte, del morire, e questa cambia anche da persona a persona, a seconda dell'età per esempio: una persona che ha finito il suo ciclo esistenziale è molto più serena rispetto a un giovane, ha meno rabbia. conta sapere che il dolore può essere vinto A Milano, ad esempio, il volontario "comune" si integra benissimo nell'equipe assistenziale perché lì solitudine e disperazione sono problemi enormi. lo faccio assistenza in un paesino della montagna modenese ed è già diverso: è più difficile utilizzare questo tipo di volontari perché c'è l'amico del bar, ci sono i parenti, la famiglia, e il volontario non è accettato, sembra un'intrusione. Bisogna saper inventare modelli diversi. Mi parla di questa esperienza di assistenza in montagna? Questa esperienza è stata stimolata dai pazienti. A un certo punto le infermiere dell'ospedale locale e i familiari hanno proposto di attivare qualcosa di locale nell'Usi 18, nella comunità montana di Frignano, perché sembrava difficile avere l'assistenza di associazioni prestigiose ma lontane. In montagna i problemi sono enormi, quando c'è neve, per esempio, diventa difficile raggiungere persone che vivono incasesperdute. Allora abbiamo cercato nelle risorse locali, anche nella scuola infermieri, cercando di individuare persone adatte e abbiamo fondato un'associazione di volontariato - sicuramente sbagliando perché ce ne sono già troppe- e proprio per la particolarità della situazione abbiamo dovuto attuare delle tecniche particolari. Una di queste, proprio per superare il problema di raggiungere il malato, è l'utilizzo del computer per l'infusione sottocutanea della morfina, in modo che il paziente diventi autonomo per una settimana; si fa viaggiare soltanto un contenitore e non il paziente. Quando un paziente esce da un reparto prestigioso, torna a casa con un foglietto con l'impegnativa con cui va dal medico di base che prescrive delle cose, poi va al distretto di medicina di base del suo ospedale per avere degli ausilii, dopo si sposta in farmacia, che in genere fa fatica ad avere le cose che servono a questi pazienti e le deve ordinare apposta, e quindi bisogna ritornare ancora: in questa partita a tennis la pallina è il paziente. Allora abbiamo pensato di far girare la burocrazia dentro la struttura e lasciare il paziente a casa, con un centro di riferimento attraverso il quale chiunque -i familiari, il paziente, la medicina di base o lo specialista ospedali ero- può atti vare l'assistenza con una telefonata: siamo noi a far girare la famosa impegnativa, cioè l'infermiere o il medico va a casa e porta tutto quello che serve per l'assistenza e non porta una ricetta, porta i farmaci. In questo modo riso Iviamo completamente i problemi gestionali, inoltre i pazienti hanno bisogno di un referente ed è questo referente che va dall'altro specialista, media con le istituzioni. Vorrei spiegare meglio la questione delle risorse tecnologiche che ci consentono di seguire un malato nel nostro Appennino. I farmaci, ad esempio, possono essere assunti per bocca, sottocute o per via midollare; quelli sottocute sono i meno cruenti e stiamo proponendo questa come via di somministrazione continua del farmaco, così si evita l'altalena fra analgesia-dolore-analgesia e si dà la possibilità al paziente di somministrarsi dei boli di analgesico quando ha bisogno. Con un computer impostato da noi, tramite un tasto che rimane esterno, quando il paziente ha male può avere il controllo della situazione, naturalmente seguendo una prescrizione già data da noi. In questo modo il paziente è autonomo; già dipende dagli altri per tutto e questa piccola autonomia diventa importante: se alle 2 di notte ha bisogno non deve umiliarsi con nessuno, non ha bisogno di chiamare aiuto. In condizioni normali quando arriva il dolore si chiama l'infermiere, c'è la risposta, si va a vedere cosa è stato prescritto, si prepara la somministrazione, si somministra l'analgesico, ma a questo punto la situazione è di versa da quella iniziale, è già alterata, in più c'è la memoria del dolore e i primi sintomi sono il terrore del dolore che arriverà, che il paziente conosce già benissimo, mentre nel modo che proponiamo noi il paziente, subito, da solo, si somministra l'analgesico e mentre le altre vie di somministrazione sparano molto alto, per questa via i dosaggi di farmaco nella giornata sono bassissimi, c'è un'infusione continua più un piccolo bolo quando c'è bisogno. Come funziona tecnicamente? C'è un ago piccolissimo sempre attaccato. Ce ne sono anche completamente sottocute, fuori non si vede assolutamente nulla: è un impianto dove il computer viene miniaturizzato, messo sottocute e libera gradualmente il farmaco e, dato che le quantità sono molto basse, non c'è più una riserva enorme, ma un piccolissimo contenitore. Tutto questo è gestibile molto facilmente anche dai familiari, che imparano subito a sostituire il contenitore che è molto maneggevole. E, oltre al fatto che per il paziente la possibilità di controllare il dolore da solo è molto importante, con i dosaggi di farmaco più bassi anche gli effetti collaterali sono più bassi. Con queste tecnologie così sofisticatenon si corre il rischiodi sconfinare dalla terapia del dolore all'accanimento terapeutico? Le cure palliative non sono né eutanasia né accanimento terapeutico, cioè non accorciano la vita né l'allungano. Non c'è nessun rapporto fra lunghezza della vita e terapia del dolore, si lavora sulla qualità della vita della persona, si aiuta una persona a morire. Fino a poco tempo fa la nutrizione artificiale sfiorava l'accanimento terapeutico, mentre in questo momento in America c'è un signore che da 17 anni vive di nutrizione artificiale. Questa frontiera si sposta continuamente, magari alcune cose che noi facciamo adesso possono avere questa caratteristica, però per il prossimo paziente è terapia, non più accanimento terapeutico. In termini di nutrizione artificiale vi sono dei pazienti che hanno escluso l'apparato digerente e quindi si nutrono con un'infusione, con un catetere centrale dove c'è un accesso venoso sottocutaneo -all'esterno non c'è nulla e può andare al mare, può lavorare, ha una vita di relazione normale- da cui di notte, con un aghino piccolissimo si nutre. Quindi bisogna fare in modo che questa persona abbia a casa sua le miscele per nutrirsi e, mano a mano che l'industria riesce a produrre queste soluzioni in maniera stabile, la qualità della vita di queste persone cambia. Nella terapia del dolore non si tratta mai di staccare o meno dei tubi per la sopravvivenza. Certi teologi sostengono che la sedazione del dolore può compromettere le facoltà del paziente, impedendogli di prepararsi alla morte, o anche accelerare la morte stessa, ma questo è un falso perché non c'è alcun rapporto fra analgesici, morfina, e tempo di vita. Nella nostra formazione cattolica, così forte, il dolore, e soprattutto la coscienza di questo dolore, è considerato un momento di riscatto e di avvicinamento al Signore, per cui, se viene messa in dubbio questa coscienza, con gli oppioidi ad esempio, da parte cattolica c'è un irrigidimento. E' ovvio che se si prendono antidepressivi e analgesici centrali la coscienza cambia, ma cambia anche normalmente. Hai mal di testa, ti faccio passare il problema: prendi l'analgesico o no? è il sedativo o il dolore a comprometterti? Un altro problema di fondo è che, soprattutto in Italia, non c'è la chiarezza nella diagnosi e nel trattamento con il paziente. Il rapporto con il paziente è mediato con i familiari, non è diretto e spesso sono i familiari a decidere, o provano ad imporre il livello di comunicazione. Non vogliono che il familiare sappia cosa ha esattamente, la gravità della malattia, che aspettativa di vita può avere, perché pensano che non sia in grado di sostenere la situazione. E' una complicanza in più nel rapporto col malato, perché il paziente vede un'escalation nella attività assistenziale, però se non sa il perché l'accetta più difficilmente, il mio rapporto con lui è più su piani simbolici. Quindi questa impostazione cattolica, questo falso nella comunicazione, ricade anche nella terapia del dolore. Se non può essere il paziente a decidere il suo livello di coscienza, di soddisfazione della terapia, il rapporto è tutto falsato. C'è un dolore che distrugge completamente la coscienza? Certo. Se c'è una radice nervosa compressa oppure coinvolta dal tumore, questo è un dolore terribile e va assolutamente bloccato. Ti isola completamente dal mondo e perdi il controllo di te stesso e delle tue emozioni. Ma è comunque il paziente che deve decidere? lo posso agire solo nel rispetto della volontà del paziente, è lui che deve chiedere di essere curato. Non ci sono dubbi su questo. Quello che conta è la scelta personale. Ma la scelta è veramente una scelta se si ha coscienza della situazione e si hanno delle opzioni. L' informazione è molto importante,a volte è anche rassicurante, nel senso che se una persona sa che c'è sempre qualcosa da fare è anche un po' più serena, meno disperata; è l'ignoto che mette paura, il non sapere cosa può ancora succedere, ma nella quasi totalità dei casi il dolore si riesce a combattere, a controllare, e sapere questo aiuta molto. L'importanza della terapia del dolore, di questa nuova branca della medicina, è questa possibilità di una risposta: quando riusciamo a togliere i disturbi principali, dolore, nausea e depressione, anche gli ultimi momenti sono irrinunciabili. Questo presuppone un rapporto subito franco con il malato ... L· intenzione c'è sicuramente, però c'è anche il malato che non vuole sentire, che non vuole ammettere con se stesso di essere malato. Oppure c'è una recita: quando rimaniamo da soli, mi dice "Guardi. io so benissimo, ma non lo dica ai miei figli'' e tutti sanno, ma lui non vuol perdere il suo ruolo di capofamiglia. o non vuol dare un dolore.

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