Una città - anno III - n. 25 - settembre 1993

• storie La scelta della condivisione e la sofferenza delle divisioni. Andando a Saraievo la sensazione di una guerra tutta politica, dove l'odio etnico è stato aizzato freddamente e artificialmente. Intervista a Fulvio Baldovin. Fulvio Baldovin, 23 anni, di Padova è uno dei 60 pacifisti di Mir Sada che, incuranti dei gravi pericoli che avrebbero corso, hanno raggiunto Sarajevo. Da un isoletta lì vicino c'era una katiuscia che sparava verso la strada che dovevamo prendere. Vedevamo partire le bombe quindi sapevamo tutti che di lì a poco saremmo andati a rischiare la nostra vita. Penso che questo concorresse molto nel creare tensioni tra di noi. In quei giorni ho vissuto molta insofferenza nel costatare il nostro fallimento come forza di pace, perché tra di noi di fatto vi erano atteggiamenti, giustificabilissimi data la situazione, di disgregazione e di violenza. Venivano date informazioni a destra e sinistra e ognuno cercava di dare quelle che servivano a richiamare il maggior numero di persone nella propria posizione. Chi voleva andare avanti diceva: "Guardate che conosco organizzazioni che passano tranquillamente avanti e indietro per Sarajevo senza nessun problema" e altri che volevano tornare indietro davano informazioni terroristiche: "Attenzione, di qui a poco ci sono delle bande di mussulmani irregolari che sono stati scacciati, assassini per la strada che assaltano tutti i convogli. Hanno già deciso come spartire il nostro convoglio; chi si prenderà la corriera numero tot, chi si prenderà questo e quell'altro". Ho sofferto molto a livello personale. Non tanto per l'incertezza della scelta, Sarajevo o Mostar, ma per le relazioni fra le persone. Per questo motivo, per cercare dentro di me un po' di serenità, sono stato a digiuno per una giornata, una giornata e mezza ... Essendogli stato un po' vicino, avevo già intuito che Albino, molto a malincuore, stava scegliendo di andare verso Mostar. E personalmente, fin dal primo momento, ho appoggiato quella scelta, in quanto non eravamo una forza di pace in grado di affrontare la situazione di guerra che ci si presentava davanti. Però dentro di me vivevo anche la necessità di dare un gesto di pace, un gesto di distensione tra gente che in fondo era venuta con lo stesso obiettivo -costruire la pace- e si trovava di fatto in una contraddizione profonda. Per cui, pur appoggiando la scelta di Albino, a livello personale mi sono sentito di non abbandonare il gruppo di quelli che volevano andare avanti ad ogni costo. Anche se non ne condividevo il modo di procedere, perché se tutti insieme non eravamo una forza di pace, questo gruppo lo era ancora meno. Era più una compagnia di ventura che aveva deciso di andare avanti comunque, alla cieca. La maggioranza di loro aveva letto nella carta: l'obiettivo è arrivare a Sarajevo e loro volevano arrivare a Sarajevo per essere testimoni della situazione. E avevano messo in conto che per strada potevano morire. Per cui la loro scelta era: "Arrivare a Sarajevo! So che per strada posso morire". Arrivare a Mostar per loro non sarebbe stato lo stesso. Per alcuni, addirittura, era essere testimoni del principio della terza guerra mondiale. Alcune persone con cui ho parlato, partendo da un'analisi politica di quello che sta succedendo in Europa, sono convinte che quello che succede nella ex Jugoslavia potrebbe succedere nella Russia, nei Paesi Baschi, in Irlanda, tra il nord e il sud dell'Italia e vedevano in questo antagonismo, -fra "tre fascismi che sparavano" e la gente di Sarajevo che resisteva- il primo passo della prossima guerra mondiale. Ricordo in particolare un francese che è uscito piangendo da Sarajevo. Ho parlato con un belga che la pensava nello stesso modo: "Nella carta c'era scritto di arrivare a Sarajevo e non vedo perché ... questo è quello che è scritto. lo capisco le persone che si fermano, però non capisco che don Albino tentenni, che si senta responsabile per me. lo sono re- B phr·1e della mi~ita -dicevano- e se ho deciso di fare questa scelta non ho bisogno di nessuno che mi faccia da papà". Tornando a quel momento della scelta, io, pur sentendomi d'accordo con Albino, vista la situazione, ho scelto però di fare questa strada, per non abbandonare questo gruppo e anche per una seconda motivazione più profonda. Di fede mia personale. In quel momento mi sentivo chiamato, sentivo che il mio cammino personale, era di condividere la vita e i rischi di quelle persone che in Bosnia stavano mòrendo sotto le bombe. Però quello era un cammino mio, specifico, di fede, di conoscenza di qualcosa di trascendente. La mia scelta si basava su questi presupposti. Restava il fatto che secondo me quello non era il modo di procedere di una forza di pace ma di un semplice convoglio che passava rischiando. Nel passaggio non diffondèVamo nessun messaggio di pace o un'occasione di pace. Quando siamo passati da Gornij Vakuf, dove abbiamo rischiato di morire a causa delle bombe, non abbiamo avvisato del nostro passaggio né l'ONU, né i croati né i mussulmani .. Siamo passati alla cieca. Nel senso che nessuno sapeva del nostro passaggio. Al passaggio dell'ultimo check point croato, all'uscita di Prozor, non c'è stato nessun problema, nel senso che ci hanno fermato due minuti, neanche. Dopo c'era una strada di 5-6 chilometri di montagna, tutto silenzio, tranquillo, però già la tensione cominciava a sentirsi, perché generalmente prima si incontrava sempre gente per strada che lavorava. In Bosnia ho sempre trovato la gente molto viva. Anche a Sarajevo, dove comunque andavano avanti le attività, i lavori e ho avuto l'impressione che la guerra non fosse un fatto così grande e così inattaccabile come pare leggendo i giornali. Comunque, avvicinandoci a Gornij Vakuf, vediamo il cartellino della città e la città deserta, con le case distrutte; ci si presenta come una città fantasma, senza nessuno per strada, con le case colpite dai bombardamenti. Lì gli autisti sapevano che era liscia e hanno accelerato. Gornij Vakuf è un rettilineo lungo con una curva a gomito a destra. Arrivati a questo rettilineo, tre grosse bombe o granate, io non me ne intendo ... Non sappiamo se siamo capitati nel mezzo di un bombardamento o se hanno tirato a noi che stavamo passando in quel momento. Comunque gli unici dati oggettivi sono queste tre grosse granate, non sappiamo quanto vicino e nemmeno da che parte, perché sentivamo solo il rumore. Una è stata tanto vicina che lo spostamento d'aria ha rotto il vetro della macchina dov'ero io... E dopo queste tre grosse bombe hanno cominciato a mitragliare. Anche lì abbiamo sentito solo le mitraglie, non sappiamo se erano dirette a noi, se sparavano alto, se sparavano da tutt'altra direzione. Nessuna delle nostre vetture è stata scalfita. Siamo arrivati in fondo e abbiamo girato a destra. Gli autisti hanno dato prova di grande sangue freddo. Nessuno ha perso la testa. Siamo andati avanti, dopodiché c'era una pista molto lunga. Avevamo tutti paura. Prima la paura era nella testa, adesso invece la paura era reale. Perché era vissuta nella pelle. Da quel momento in poi, io personalmente ho avuto sempre paura. Avevo paura anche prima perché mi rendevo conto che stavamo andando avanti in maniera sconsiderata, nel senso comunque di rischiare. Per me era comunque valido il cammino che si stava facendo ma perché spinto da mie motivazioni personali, però la paura era ormai palpabile. E parlando la sera si vedeva che c'era tensione. Dopo c'era una strada, una pista e avevamo paura perché quella era la zona in cui hanno ucciso i tre italiani, Guido e gli altri, dove erano stati segnalati dei banditi; paura non più della guerra ma che ci prendesse una banda di irregolari e ci sequestrasse. Non è successo niente. Dopo abbiamo incontrato una serie di villaggi, uno a controllo croato, uno a controllo bosniaco, una chiesa e una moschea, in cui non c'era guerra. La gente passava tranquillamente tra un villaggio e l'altro senza tensione. Ho avuto la netta impressione lì e altrove che in realtà la divisione etnica non sia così palpabile tra la gente comune ma che ci fosse dove c'era una volontà di controllo territoriale, come se la questione etnica fosse solo il pretesto per fare la guerra, per creare artificialmente questa tensione . Quando siamo arrivati a Szenica, abbiamo dormito lì, accolti molto bene dalla popolazione. Abbiamo parlato con dei croati - Szenica è una città a maggioranza mussulmana- che si sentivano molto vicini ai mussulmani concittadini e all'esercito bosniaco ... e al fronte ci sono croati e serbi che combattono insieme ai mussulmani contro i croati. Szenica è accerchiata molto alla lontana, mi spiegavano, così la gente può vivere ancora quasi normalmente, possono andare a coltivare i campi. Tra Szenica e Kiseljak, il mattino dopo, addirittura la gente ha preso da mangiare, avevamo dei comportamenti un po' turistici, nel senso che distribuivano le sigarette gratis fuori dal pullman. lo sentivo che il primo gesto doveva essere la nostra presenza; noi venivamo con le nostre contraddizioni a condividere la loro esperienza di guerra. Quello era il primo messaggio che si doveva portare. Dopo, una volta portato quello, si doveva dare aiuto, condividere tutto quello che avevamo. Ma il fatto di presentarsi mettendosi fuori dal finestrino a dare sigarette ... non mi sembrava di essere una forza di pace. Alla fine ci hanno accompagnato fino al check point, l'ultimo prima di Sarajevo. Entrando a Sarajevo ricordo la grande esaltazione del fotografo americano che era con noi. E' salito sul tetto del pullman e ha fotografato l'ingresso a Sarajevo. Poco prima si era seduto vicino a me nel pullman e gli avevo chiesto: "Ma che cosa significa per te questo progetto, di arrivare a Sarajevo?" e mi ha guardato con gli occhi che brillavano rispondendomi: "A big story", un grande colpo giornalistico. Lì siamo stati accolti dalla polizia bosniaca, abbiamo fatto i controlli. E anche qui c'è stato un motivo di sofferenza per me: la maggioranza del gruppo dei sessanta che sono entrati a Sarajevo ha vissuto momenti di tensione con "i permanenti" dei "Beati i costruttori di pace", quelli che stanno sempre a Sarajevo e che avevano preparato tutta l'accoglienza. E oltre a vedere tutto il loro lavoro rovinato -e ne avevano fatto tanto- si sono trovati anche a ricevere le notizie sulle scelte di don Albino, sulle rotture dell'organizzazione, eccetera eccetera. lo ero insofferente. Avevo però una serenità di fondo nel senso che queste cose, se si devono vivere si vivono. Comunque mi dispiaceva. A Sarajevo c'è stata prima un'accoglienza ufficiale del sindaco e dopo abbiamo trovato posto nelle famiglie. Poi hanno organizzato una giornata ufficiale dalla quale mi sono un po' defilato perché trovavo più interessante l'esperienza di stare con la famiglia che mi ospitava. Una persona che parlava italiano, di un'ospitalità grandissima, era una casa mussulmana, non so se sia nella mentalità ma me lo ripetevano più volte: come se fossi mio figlio e in quella casa ci si sentiva proprio a casa propria. Anche con questa persona non ho trovato nessuna traccia di fondamentalismo, di divisione tra le etnie. Aveva avuto anche lui notizia di croati nella zona intorno a Kiseljac che avevano ucciso un grande numero di mussulmani anche disarmati. E la viveva con grande sofferenza, dicendo: "Non posso credere a una guerra tra la croce e la mezzaluna. Perché sono mille anni che stiamo bene insieme e non posso credere che possa essere una guerra tra etnie". Questo mi è rimasto impresso. E di nuovo ho avuto la sensazione di una guerra tutta politica che creava e sfruttava il fatto della divisione etnica per avere dominio territoriale. Una cosa molto bella che mi è rimasta delle manifestazioni ufficiali, è stato il concerto, che avevano organizzato sempre i "permanenti" dei "Beati", con gli artisti locali, che è stato un messaggio molto forte. Ma anche qui, purtroppo, e non so se per disguidi tecnici o per incomprensioni, molti dei 60 non si sono presentati con grande sorpresa e disappunto di quelli di Sarajevo. C'erano tutti i migliori artisti di Sarajevo, dei cantanti di musica leggera come sarebbero i nostri grandi, è una cosa molto d'orgoglio per loro, hanno suonato al lume delle candele, una cosa molto commovente ... E purtroppo ... Un'ospitalità straordinaria che forse alcuni dei partecipanti non avevano valutato ... Siamo partiti il mattino dopo da Sarajevo e abbiamo trovato la strada tranquilla fino a Kiseljak, fino a Szenica. Lì siamo stati accolti di nuovo bene dalla popolazione e avevamo il problema che eravamo senza benzina. Abbiamo aspettato fino alle tre del pomeriggio, c'era un senatore belga che ha tentato le vie diplomatiche e alla fine ha preso 9 litri di benzina da un'altra macchina, andava così, uno che sapeva il bosniaco -chiamiamolo così, è sempre la stessa lingua però di zona in zona lo vogliono chiamare con nomi diversi- ha parlato con la popolazione locale che si è mobilitata moltissimo. E nel frattempo lì c'era un campo profughi e noi abbiamo passato delle giornate a stare con i bambini, è stata un'esperienza molto bella. Abbiamo avuto altri I O litri di benzina e I9 litri potevano bastare per arrivare fino a Spalato. Siamo partiti alle tre nonostante che gli osservatori ci avessero informato che, sulla strada che dovevamo fare noi, era stato ucciso un osservatore dell'UNHCR. Vicino a Vitez abbiamo sentito un colpo di fucile, non sappiamo dove era diretto, e siamo arri vati a Gornij Vaku f. In quel punto, non so chi stessero aspettando, c'erano due carri armati, uno proprio sull'angolo della via che dovevamo fare e l'altro un po' più avanti. Quando il primo camion è arrivato sull'angolo dove c'era il primo carro armato, sono cadute alcune bombe di mortaio. A quel punto il carro armato ha cominciato a far girare la torretta verso di noi e lì abbiamo vissuto dei momenti di grande tensione ... ma non ha sparato, siamo passati a massima velocità e la notte stessa eravamo a Spalato ... Un bilancio? Non è di delusione, di sofferenza sì, ma una sofferenza anche serena. E' stata un'esperienza di cui prendere atto e su cui riflettere, che potrà servire per il futuro nel caso si tenti un nuova azione di interposizione o comunque di azione non violenta in territori di guerra. Che conosca io, assieme a quello di dicembre in cui siamo andati a Sarajevo, è stato il primo tentativo: ·senza dubbio è un dato su cui lavorare, Personalmente l'ho vissuto con serenità perché da un certo punto in poi ho sentito che ... ma c'entra il discorso del mio cammino di fede ... nella notte in cui a Kiseljac avevamo paura che ci venissero a portare via, proprio in quel momento, ho sentito dentro di me, nel paesaggio della Bosnia che è meraviglioso, un senso di trascendenza, di appartenenza a qualcosa di superiore che era più grosso anche della guerra e di quello che mi sarebbe potuto capitare. Lì ho sentito dentro di me una forza di pace, di amore, una forza più forte della paura. E anche una dignità. A volte, prima, mi ero sentito un po' a disagio, come fossi un intruso, mi veniva da chiedermi "cosa ci sto a fare qui, loro hanno la guerra, sono di un altra nazionalità". In quel momento invece ho sentito una grande dignità del mio essere lì in quel momento, cittadino del mondo con gli stessi diritti, con un profondo rispetto ma anche con gli stessi diritti della popolazione bosniaca locale che avrebbe potuto prendermi con la forza e anche uccidermi. Il fatto reale non è successo per cui non si può sapere, ma in quei momenti sentivo che se anche mi avessero preso, di fronte all'immagine che ti rappresenti che è quella di una fucilazione, ho pensato che la forza che provavo dentro mi ... avrebbe potuto anche far sorridere e provare amore per la stessa persona che, di fronte a me, teneva il fucile. Ma sono cose un po' intime, difficili da dire. -

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