Una città - anno III - n. 24 - luglio 1993

le reazioni più appropriate e anche per avere un sostegno, perché anche la famiglia di oggi non è abituata ad avere il tempo della sofferenza. Questi percorsi con le pazienti comportano, credo, un profondo coinvolgimento emotivo vostro. Quali strategie mettete in atto per sostenere queste relazioni? Noi facciamo una formazione permanente e la facciamo con persone che abbiamo scelto insieme. Per esempio io faccio una scuola di analisi dei sistemi e terapia della famiglia, mi piace, lo dico al mio gruppo, il mio gruppo a turno sceglie chi deve andare. Queste poi, se la scuola piace loro, lo dicono ad altre in modo che per tutti i cinque anni del la formazione ci sia eh i fa iI primo anno, chi il teno. Così, piano piano, i formatori stessi si interessano al nostro gruppo perché è molto diversificato, molto omogeneo e anche molto motivato, visto che la scelta resta sempre personale. Quindi, a loro volta, i terapeuti formatori, interessati a questo clima, vengono ali' intemo della struttura e facilmente sono coinvolti in ricerche sul campo. Lavoriamo insieme: lorocon la supervisione della loro tecniche informative e noi con la nostra supervisione delle tecniche oncologiche. per noi l'ascolto ' e come una creazione Attualmente, per esempio, abbiamo tre o quattro formatori. Uno è un francese eccezionale, si chiama Hubert Godrar. Ha fatto analisi del movimento e psicoanalisi del movimento, ha lavorato molto su di sé e ha fatto tutto un percorso non oncologico e da 5 anni lavora con noi. Prima ci ha formato, poi si è interessato al clima, adesso viene ogni due mesi e sta facendo dei bellissimi lavori anche con le persone. Poi abbiamo un'analista americana, Teddy Grossmann che ha lavorato con noi per dieci anni, quando abbiamo fatto gruppi di analisi per capire che tipo di emozioni c'erano fra di noi. All'interno di questo gruppo noi abbiamo avuto anche nostre amiche operate, per cui abbiamo affrontato l'angoscia di lavorare con persone che avevano avuto il cancro, oppure le nostre preoccupazioni proiettive. Poi c'è una formazione individuale che fa ciascuna di noi. Abbiamo fatto lavori di espressione corporea e anche qui la terapeuta che ci aveva formato, ha fatto espressione corporea, danza terapia con i gruppi delle donne. Ma nel raccontare che tipo di lavoro facciamo sembra che noi vogliamo pubblicizzare un metodo o un altro. Quello che io posso consigliare è che quanto è nel contesto più interessante e vivo, quello vale. Un tempo facevamo il tai chi perché c'era una persona molto bella che ce lo aveva insegnato, che era rimasta con noi. E abbiamo espresso molto il tai chi con le nostre pazienti che tra l'altro ne erano rimaste entusiaste. Qualsiasi formula che attenga ad agganciare e creare un clima empatico, va bene come punto di partenza per rielaborare qualcosa d'altro. Lo stesso massaggio terapeutico viene fatto solo da terapisti che abbiano fatto un percorso formativo interiore, per cui usano poi tecniche neurolinguistiche. Poi tutti devono fare un lavoro, sia manuale che interiore che tecnico. Anche i medici stessi che sono diversissimi dai medici del resto del1'Istituto, perché si devono smazzare il fatto che non sono per questo meno coriacei o più coriacei dei colleghi che lavorano con il corpo. Quindi anche su questo, sui ruoli, sulle differenze professionali lavoriamo continuamente. Direi che è un lavoro molto bello e anche di grande scambio, in cui il ruolo tra sani e malati vengono anche un po' ribaltati. Si, per noi l'ascolto è come una creazione. Vedere come la persona che abbiamo davanti riesce a insegnarci come aiutarla a uscirne fuori. Questa è la parte più bella del nostro lavoro. B1 110 eca 1A PRAl'ICA NON BASl'A Qualche anno fa uno degli slogans correnti sulla produzione televisiva era "la nera vale più della bianca" per dire che la cronaca nera, i fatti preoccupanti, anche della politica, richiamavano più delle belle e buone notizie che tranquillizzano le coscienze. Anche nella nostra vita, del resto andiamo più spesso avanti come spintonati dall'ansia, dalla paura, dal dolore che attratti dalla positiva ricerca del piacere e della felicità. Potenza del negativo. E non c'è dubbio che a vedere la tv o a leggere i giornali, le notizie paurose, crimini privati e pubbliche sciagure, imperversano e invadono spazio e coscienze. Non si parlerà più dell'inferno, è vero, ma certo è diventato più vicino, quotidiano e concreto. Può stupire allora di fronte a questa spettacolarizzazione che vien fatta del dolore, quasi scenario della nostra esistenza, sempre piuttosto timida e pudica si mantenga invece la ricerca e il parlare del senso del dolore: la sua familiarità non produce riflessione. Succede un po' quel che awiene per i diritti umani: siam tutti d'accordo, purché non ce ne domandiamo il perché. Forse si tratta di un silenzio che è solo onesta riservatezza dopo gli eccessi della retorica del passato; o forse anche è consapevolezza dell'inutilità del discorrere -miseria della filosofiaper rimuovere efficacemente il dolore. Non sempre però il tacere è così nobile e qualificato. E' legittimo anche il sospetto che spettacolarizzazione dei fatti e silenzio sul senso rientrino piuttosto in quell'orizzonte interpretativo che la tecnica ha introdotto nel mondo occidentale. E' consentito parlare solo di quei problemi che si possono risolvere e l'unica risposta al dolore può essere solo una proposta terapeutica: se non si è pratici si diventa patetici. La tecnica forse non salva, ma almeno aiuta. Sarebbe ingenuo e ingiusto contestare questa tecnica che in definitiva ha prodotto vita. Discutibile è invece che ci affidiamo unicamente ad essa, che ci consegnarne alla sua ideologia dimenticando quelle domande propriamente umane che pure ritornano esigenti per chi si trova nelle prove della vita. Per poco che siamo stati accanto ad un ammalato, ci sarà capitato di sentirci chiedere del perché del male, e del "perché proprio a me?" "Che male ho fatto?". Il dolore individua e rende unici. Sono domande vive che trovano più impreparato e fragile l'uomo "pratico" del nostro tempo e che tuttavia non ci possiamo permettere di eludere, anche se ora risulta più difficile comunicare senza apparire incomprensivi. Certamente il malato domanda sicurezza, stima, affetto; e già così ci ripulisce dall'idea che per vivere bisogna essere felici o che chi soffre perde di dignità. Ma oltre a questo riconoscimento etico, il malato chiede anche una parola che non sia di pura consolazione. Per questo si rivolge anche alle risposte più bizzarre, tra lo psicoanalitico e lo pseudoreligioso, oppure con più dignità e intelligenza si arrende all'ineluttabile riconoscendo con coraggio tragico la casualità dell'esistere e la necessità del morire. Il silenzio di Dio è diventato anche silenzio dell'uomo: tutto è destinato al nulla. Oppure il segno cristiano del Dio crocifisso, voce di uno che ormai grida nel deserto: il dolore non come castigo di un giudice divino, ma al contrario come coinvolgimento completo dell'Amore divino nella finitezza della sua creatura: Dio stesso soffre nell'uomo e l'uomo è la coscienza dolorosa di Dio; del Dio "compassionate" come dicevano una volta. Ad Auschwitz, ha raccontato E. Wiesel, a un prigioniero che davanti alla sofferenza prolungata di un giovane impiccato, chiedeva: "Dov'è dunque Dio?" un altro rispose: "Eccolo: è appeso lì, a quella forca". Il patire dell'uomo può divenire comunione con Dio, una vita per giungere a Dio e salvare misticamente il mondo. Non una spiegazione del dolore, che potrà essere rivelata oltre il tempo, ma certo una parola che comunque h~dato senso al patire umile e grande dell'uomo. Sergio Sala I DIRITTIDELMORENTE Combattere il dolore senza pregiudicare la dignità del morente è lo scopo dell'Ospedale Oncologico Domiciliare di Bologna. Intervista al prof. Franco Pennuti. Il doti. Franco Pennuti dirige una delle divisioni di oncologia a/- l'Ospedale Malpighi-S.Orsola di Bologna, è tra i fondatori dell'Associazione Nazionale per la Cura e lo Studio dei Tumori Solidi. La terapia del dolore in che cosa consiste? Dobbiamo distinguere innanzitutto di quale tipo di dolore si tratta, di quale tipo di pazienti e di quale tipo di terapia: infatti la terapia del dolore in pazienti affetti da cancro costituisce un problema nel problema. Questo perché nei pazienti in fase avanzata (cioè con metastasi) o avanzatissima (aspettativa di vita uguale o inferiore a tre mesi) - per inciso ricordo che preferiamo, per rispetto dei pazienti, non utilizzare l'espressione malato terminale- il dolore è presente nel 60-70% dei casi. Talora il dolore insorge più precocemente, in altri casi si presenta solo nelle ultimissime fasi della malattia, anche in relazione al tipo di neoplasia: il cancro al retto, ad esempio, è più frequentemente responsabile di violenti dolori negli ultimi uno o due mesi di malattia che non il carcinoma mammario. Questo significa che la storia naturale della malattia è sempre da tenere in considerazione, anche quando si affronta il problema della corretta impostazione terapia del dolore. Classicamente distinguiamo una terapia causale, cioè la terapia antitumorale che agisce sulla causa del dolore (la neoplasia) e che quindi in una certa percentuale di casi può consentire il controllo dei sintomi, ed una terapia specifica, la cosiddetta terapia analgesica. La terapia analgesica può essere di tipo chirurgico e parachirurgico (cordotomie, sezione di nervi, in1 n Q Bianco filtrazioni, ecc.) oppure di tipo medico (farmacologico). Ritengo che l'approccio più corretto al problema della terapia del dolore debba tenere conto delle diverse esperienze, ma il principio generale è quello di traumatizzare il paziente il meno possibile: l'idea del rispetto del paziente e della sua dignità di vita è per noi della massima importanza. Ovviamente la scelta di adottare di volta in volta la terapia antalgica meno invasiva non deve andare a scapito dell'obiettivo finale: il controllo del dolore. In oncologia noi utilizziamo in larghissima misura la terapia farmacologica del dolore, sia nell'ambito dell'ospedale tradizionale, che nell'ospedale del I' ANT (che è l'unico ospedale domiciliare oncologico del mondo) e questo consente ai pazienti che trascorrono la fase finale della loro malattia in famiglia la maggiore autonomia e la maggiore dignità di vita. A proposito della terapia causale del dolore, a Bologna, nel 1972 abbiamo individuato un nuovo approccio alla terapia del cancro della mammella: il medrossiprogesterone acetato ad altissimo dosaggio, che consente di ottenere una riduzione del dolore nel 60-70% dei casi, per un periodo medio di circa sei mesi. Oltre all'effetto antalgico, questo ormone "femminile" (derivato del progesterone) determina un miglioramento dell'appetito e conseguentemente un aumento ponderale (effetto anabolizzante, che in campo sportivo viene ricercato con l'impiego di steroidi maschili). Anche la chemioterapia antibla. tica può indurre una riduzione del dolore anche se in misura minore: 20-30% di remissioni, per una durata che in media si aggira sui duetre mesi. Le terapie causali, pertanto, non sono sufficienti a controllare il dolore ed occorre quindi fare ricorso ai farmaci antidolorifici, il cui impiego va, a grandi linee, distinto in tre fasi (o "gradini"). Il primo "gradino" è quello che prevede I' impiego dell'aspirina (acido acetilsalicilico) o dei suoi numerosi derivati. La seconda fase prevede l'impiego di altri FANS, farmaci analgesici non steroidei: oggi esistono nuove molecole appartenenti a questa categoria, in particolare il ketorolac. Il terzo livello della terapia analgesica è rappresentato dall'impiego della morfina e dei suoi derivati. La morfina ci consente di controllare il dolore nei 90-100% dei casi, ma a due precise condizioni: conoscere il metabolismo di questo farmaco e sapere come impiegarlo. Questo implica non solo il know-out farmacologico, ma anche la disponibilità del medico a controllare il paziente ripetutamente: iIsuccesso della terapia analgesica dipende quindi anche dalla presenza del medico e dal colloquio con il paziente. Se un malato di cancro muore con dolore oggi è, nella grande maggioranza dei casi, frutto di un errore "farmacologico" o frutto di una cattiva impostazione dell'approccio organizzativo-sanitario a questo tipo di pazienti. Sia a domicilio (ospedaledomici liare) che nel1' ospedale tradizionale, il monitoraggio continuo, la presenza, il servizio di psicologia, sono tutte condizioni che favoriscono il controllo del dolore, che, ribadisco, è il frutto non solo di un atto medico-farmacologico, ma anche dell'approccio umano ai morenti. I morenti costano, non producono e non votano, e noi dell' ANT (Associazione Nazionale Tumori) ci battiamo sul piano della cultura e del- !' impegno civile. Cultura civile significa promuovere leggi a-favore dell'ospedalizzazione domiciliar~, a favore della dignità della vita, significa cioè promuovere un programma di assistenza domiciliare globale ai Sofferenti di tumore in fase avanzata e avanzatissima. In questa direzione abbiamo avanzato proposte di legge al Parlamento Italiano (Patuelli) ed a quello Regionale (Colozzi) e stiamo per presentare a Strasburgo una petizione per i diritti dei morenti. I nostri risultati sono già indicativi ed importanti: circa diecimila Pazienti assistiti (del tutto gratuitamente) dal dicembre '85 ad oggi e attualmente sono 900 ogni giorno. A Bologna e provincia, Yignola ed Ostiglia la nostra assistenza viene erogata in regime di convenzione, mentre in altre sedi (Taranto, Brindisi, Pesaro, Mantova, Verona) I' ANT può svolgere la propria opera unicamente grazie alla solidarietà dei cittadini. Questo programma è unico al mondo: esistono infatti numerosi esempi di assistenza domiciliare, ma non esistono altri "ospedali a domicilio". Cosa ci ha mosso? Il richiamo della sofferenza: solidarietà e fratellanza altro non sono se non la risposta al richiamo della sofferenza. La nostra è una risposta efficiente, organizzata, impegnativa, non elemosina. I medici dell'ospedale domiciliare (attualmente sono 50) accedono a questo servizio solo dopo un periodo di addestramento della durata di uno-tre anni e nella selezione dei medici viene dato particolare rilievo alle motivazioni nel segno della difesa della vita, senza eccessi (Eubiosia). Questo aiuta nei familiari il recupero di confidenza con il dolore e la morte? Noi stiamo ricreando una cultura centripeta della famiglia: se la famiglia è un gruppo di persone che consuma gioie e dolori insieme, noi li aiutiamo a consumare insieme e a domicilio anche l'ultima tragedia. Noi forniamo gli strumenti alla famiglia che è sola di fronte a questa tragedia. Il 70% dei nostri assistiti muore a domicilio. Oggi abbiamo bisogno di aggregazioni di tipo solidaristico, perché altre forme di aggregazione stanno scomparendo: la stessa tangentopoli è sintomo di una malattia, di un disagio profondo. Qual'è la vostra posizione sull'eutanasia? Posso dirle che esiste l'omicidio, il suicidio ed esiste il medicidio: chi non rispetta la vita ricade in una delle tre categorie. Noi siamo per la difesa della vita senza eccessi terapeutici; il medico opera per la vita e non per abbreviare la vita. Siamo quindi per la vita in dignità e la vita interrotta prima del suo naturale decorso non è una vita in dignità, così come non lo è una vita abbandonata a se stessa, non aiutata, non assistita: il vecchio che vive solo e dimenticato e chiede di morire, si avvicina alla vita se gli stiamo vicino, se lo andiamo a trovare alla mattina e alla sera, se andiamo a fargli gli auguri di Natale. E' dunque un problema affettivo e psicologico, ma anche un problema di organizzazione e quindi un problema economico. La considerazione di questi aspetti nella loro globalità è alla base dell'operato dell • ANT e dell'Ospedale Domiciliare Oncologico (ODO). • UNA CITTA' 1 5

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==