Terza Generazione - anno II - n. 10-11 - luglio-agosto 1954

Non è al tavolino forse che i diplomatici dovrebbero tutto risolvere? l\Ia poi la temuta guerra non viene. Forse alcuni grandi politici hanno fatto delle prove, delle manovre psicologiche ed 1 giovani hanno risposto. Forse I Chi lo sa l La politica è così difficile da comprende- re ed j miei amici montanari sono così diffidenti. Ed ecco che i giovani che la sera s1 in– contrano per la partita a scopone non discu– tono più di politica. Parlano ora di lavoro, di cinema, di fu– metti, di ballo, di carte, discutono un po' caldamente per lo spariglio od il pariglio di un sette; e poi per terminare la discus– sione cade quasi sempre sulle belle e brave fanciulle da sposare; e così, le lunghe sera– te passano. Nel caffè dove siamo entra talvolta un boscaiolo lacero ed ubriaco, ma non si av– vicina, neanche se gli chiediamo di venire con noi. Forse per lui, siamo dei « vitelloni », an– che se non può avere la più lontana idea di chi possa esserre Federico Fellini, e sul significato dj quella parola. Dal suo sguardo si vede che ci disprezza un po', ed ha ragione. Allora siamo noi che lo avviciniamo perchè è un uomo come noi, un giovane che ha gli stessi diritti e gli stessi doveri nostri. Noi comprendiamo che soffre, gli offriamo qualche cosa ma non accetta. Non accetta perchè sa, è comple– tamente cosciente di essere un uomo come noi, nato come noi, soltanto, più povero. Ed il suo lavoro fisico è terribile e fati– coso. Lavora più di noi ed è più misero. Che fare? Che cosa dire a costui? Non sappiamo che cosa dire. Egli, se glielo dicessimo, non crederebbe mai che nel mondo vi sono degli intelletuali, dei diplomatici, degli operai che lottano per lui. Non ci può credere: i pochi intellettuali che in vita sua ha visto, si sono sempre gi– rati da un'altra parte, passandogli vicino, ed hanno continuato (in apparenza indif– f eren.ti) la loro strada. Ecco invece dove l'intellettuale, l'uomo di cultura, si deve fermare. Deve fermarsi per cambiare quell'uomo, per farlo pagare, per vestirlo, per farlo ra– gionare diversamente. Quando sarà cambiato significato delle parole: chiederà forse il problemi dì na- tura economica, sociale, spirituale. Ma prima di ciò, bisogna fermarsi con I ui, per lui, e non continuare magari con un senso di pietà nell'anima, la propria strada da soli. Percorrerla al suo fianco. Dante Ferraris BibliotecaGino Bianco • • Mille e mille g1ovan1 come me nel Sud r. - Una delle cose che differenzia l'uo– rno dal ragazzo, dall'adolescente è, credo, la capacità di parlar di sè senza indulgere a sentimentalismi, senza intenerirsi sulle pro– prie " sciagure ,, vere o presunte che siano. Forse, mi dico, sono cresciuto, continuo a crescere: a ventiquattranni non si è più ra– gazzi: dovrei, quindi, esser capace di par– lar di me, così semplicemente come sempli– cemente mi accade di vivere, di respirare. E parlare di me non perchè qualcosa - sentimento o problema vi sia in me di " esemplare ,,: ma è necessario portarli a chiarezza, il più possibile, infine, problemi e sentimenti: ed essi sono tali che non si (·sauriscono nel giro effimero e astratto di una e1nozione personale - mi dico; coin– volgono altre creature umane (l'esistere è impensabile senza l'alterità scrivevo - a me stesso - l'anno scorso) ed avranno quindi un senS-Oun po' per tutti i miei pro– blemi. Uomo del mio tempo, con una co– scienza, delle responsabilità e una serie di relazioni, le mie questioni dovranno avere radici nel mio tempo, nelle persone con cui sono in rapporto - di sangue, d'amicizia, di lavoro o d'amore: mi è necessario dunque guardare in me, « vederci chiaro» , - avran– no così un senso più autentico anche le mie responsabilità di uomo, il mio lavoro, i miei rapporti con gli altri. (Strana questa prete– sa di volersi giustificare a priori: ma penso a Don Chisciotte: l'eroe fallì perchè fu solo nella sua impresa: così l'uomo moderno ~ anch'io quindi - e, nei suoi errori, fi– glio anche della propria solitudine. La so- , litudine che rende ciechi e astratti è il no– stro limite - il mio: cerco perciò di radi– carmi negli altri con la violenza maggiore che mi sia possibile: per non cadere, perchè la mia umanità abbia un significato e non si riduca a corse sugli specchi, a funam– bolismi vari, all'irrisorio gioco di Narciso). 2. - Ho una vocazione - quella di poe– ta - e tutti i problemi, gli impegni, le re– sponsabilità che essa comporta. A vere una vocazione vuol dire realizzare in essa il massimo di umanità possibile: nella mia poesia saggio quindi la mia u1nanità - un verso che traballa è l'uomo che procede malcerto, un contenuto che non riesco ad es primere, è una carenza dell'uonio. Se in– vece di avere uno stile mio nei miei versi suonano Montale o Ungaretti, ebbene tutto ciò vuol dire che sono ragazzo, ancora adolescente, che ho dei falsi contenuti in me, false esigenze. Se non ho voce auten– tica, sono io stesso che non sono autentico. Questa è, comunque in una certa misura almeno, vicenda individuale. Basta forse a– verla accennata. 3. - In un mondo, in una società diversi dovrei vivere dei frutti della mia vocazione. La poesia non è un bene superfluo, un ge– nere voluttuario: la società ha bisogno del poeta come il poeta ha bisogno di pane. La funzione del poeta non è che sia più nobile di un'altra: ma necessaria come tut– te le altre. Nella mia società, la società in cui viviamo, la poesia è respinta ai màrgini, viene " praticamente " considerata piace– oole follia di qualche sciocco, da sopporta– re considerandone in privato e ammiran– dola, senza conoscerla, in jn.tbblico. 1\/ on per questo voglio piangere su Ge- 1 usalem1ne distrutta: accetto il dato di fat– to, disposto a dare la colpa di tutto ai poe– ti. Ciò non toglie che io debba vivere, dor– mire, bere, mangiare, crearmi una famiglia. libbene, in nessuna delle forme oggi esi– •,·tenti io trovo un lavoro che partecipi alla natura della mia vocazione pur non identi– (icandosi con essa. Ho delle « carriere » da– vanti ,questo si: ma nessuna di esse è tale che soddisfi in me l'uomo: tutte sono sif– fatte che mortificano l'uomo e lo riducono a un puro strumento materiale, immagine scempia e niutila, opaca e irrisoria di quel– la creatura che fu creata a somiglianza di Dio. Abbiamo speranze ed esigenze, sostanzial– mente eguali pur nella varietà delle voca– zioni: e tutti, quando sorge il problema di una vita autonoma, quando non si è più « figli di papà >, sia_mo costretti a scegliere tra una vita nostra e una « carnera ». 4. - La scelta non è facile: la « car– riera » offre innegabili vantaggi: vita, in una certa misura, priva di preoccupazioni econoniiche, la pensione, la tranquillità, tut– ti i vantaggi che « il porto dello Stato » do– na in cambio di rinunce che tanto più stona– no quanto più si ha coscienza. Il « poco ma sicuro », figlio di una atavica - almeno per me - incertezza economica, ha le sue seduzioni: ma so anche come le « carrie. 47

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