Terza Generazione - anno I - n. 2 - novembre 1953

miniU, affrontati con nientali– tà di categoria: cosa questa che allontana ogni possibilità di sostanziali passi in avanti, dal momento che non esiste iZ problema della donna come problema di categoria, ma con– nesso a,d itn più vasto proble– ma di vocazione umana. Il fatto che questa connes– sione non si renda palese e non operi è probabilmente la causa della incapacità delle ragazze a sviluppare collega– menti fra loro per rendersi conto del valore e del signifi– cato dei dubbi e delle speran– ze elle sentono in cuore. Tutto pare congiuri a che la ragazza si prepari egoisti– camente, da sola, all'incontro con il giovane, costruendo co– si un rapporto decisivo in ter– mini fortemente parziali: l'e– ducazione sentimetltale ne ri– s1ulta immiserita e resa super~ ficiale: nel migliore dei casi l'incontro prima, la famiglia poi, si sviluppano come una cerchia chiusa a difesa verso l'esterno e non conie 'Una base eil un potenziamento dei rap- porti con il tnondo, la società, l'urna n ità tutta. I giovani dal canto loro non richiedono più di questo alle ragazze: la vecchia e superata concezione della donna inferio– re si è trasformata in una ma– niera di concepire la donna a– vu lsa dai problemi di tu,tti. So– no essi i primi a contribuire all'errata educazione delle ra– gazze, perchè non sanno chie– dere a esse un contributo e 'Un aiuto. (T'utti sanno, ad esem– pio, che ogni q11,alvolta si ve– rifica 11n incontro fra 1,n grup– po di giovani e un gruppo di ragazze, il rapporto si sbricio– la con il formarsi delle « cop– pie» e i due gruppi si sfalda– no e si distruggono in una ga– ra di gelosie, ripicche e astio– sitii). Crediamo che spetti ai gio– vani rompere l'isolamento in- . divi dualistico delle ragazze, facendo ad esse comprendere i problemi dei giovani nel no– stro tempo ed aiutandole nel– la loro spontanea, autonoma e partico la-ris sima ma tu razione, pretendendo da esse una vera compartecipazione al comune destino. 811,questo sarà importante che ohiunq1,1,eabbia un contri– buto da dare, ci scriva. Pen– siamo che la partecipazione delle ragazze, liberate dall'e– goistico sentire l'incontro, alla soluzione dei comuni problemi è essenziale e insostituibile. La misericordia non basta ... E' con vera gioia che ho letto la vostra « Presentazione >> ed il primo numero di << T.G. ». Non vi nascondo che non è una rivista tanto facile da comprendere, anzi direi che è difficile e che fa pensare molto. Particolarmente mi ha inte– ressato l'articolo di Natalia Ginzburg sui « Rapporti uma– ni >>. I pensieri, le idee, le impres– sioni di coloro che hanno stu– diato interessano molto noi operai, ed è ora con piacere che desidero seri vere per voi (cosa che credo non sia an– cora successa) i pensieri di un gio-,ane che appartiene alla clasRe operaia. Comincerò dal 1940. - Tre– dici anni di età, lavoravo in una grande officina torinese e non ero ancora in possesso dei libretti di lavoro - L. 1,07 al– l'ora di salario. Un po' poco, forse, per vi",ere; comunque ()rano <]uattrini che portavo a ea:a e che serYiYano per vh-e– re. ~lio padre (che ora non è più) era allora richiamato sotto le armi e prestava servi– zio a Lubiana. Passarono, in questo modo, 12 mesi. Un anno di miserie, in un paese a quaranta km. da To– rino dove non c'erano in ab– bondanza che casttt.gne e pa– tate. Poi, finalmente: età anni 14 e libretti regolari di lavoro. Cambiare officina fu questione di qualche giorno. Passo in un'altra fabbrica e mi assumono. L. 1,40 all'ora, più assegni fa miliari, ecc. Andava bene. Posso permet– termi il lusso di imparare a fumare e fumo sul treno con le ragazze che viaggiano con me, per darmi delle arie (dap– prima), e poi in seguito per– chè ne ho il vizio. Così, passa un certo periodo di tempo. In officina resto sempre fra i giovani perchè gli anziani ci temono. Dicono che siamo fascisti e hanno paura di par– lare con noi giovani. Invece non è vero che siamo fascisti, per il semplice fatto che del fascismo non ne sappiamo nulla. Senza forse volerlo siamo in,ece antifascisti perchè de– finiamo il fascismo « la colpa d<'lla guerra». Di politica non comprendia– mo ancora nulla. Siamo anco– ra troppo giovani e siamo in molti. Su 200 operai circa 40 sono giovani al disotto dei 18 an– ni, e restiamo sempre fra noi. Nello spogliatoio, in sala pranzo, presso le fresatrici ed i torni noi giovani non ci se– pariamo mai. Ogni ricerca di contatto con gli anziani, risul– ta vana. Tutt'al più ci rac– contano le ultime barzellette sconce sulle prime notti di matrimonio ed altre buffonate del genere. Talvolta ci fanno ridere. Questo stato di cose dura per molti mesi ma poi final– mente gli anziani cominciano a parlarci di altre cose. Ci dicono che la guerra << serve per fare i soldi ai ric– chi e per uccidere i poveri». Ci parlano di economia capi– talistica e di economia socia– lista. Di due sistemi. Ci spie– gano come le potenze capitali– stiche si facciano la guerra tra di loro per la conquista di mercati, per vendere i loro prodotti. Ci raccontano di un'econo– mia socialista pianificata, re– golatrice del commercio e di- truggitrice delle guerre, e noi giovani ci appassioniamo a tutto ciò e diventiamo senza forse rendercene bene conto, « dei socialisti e dei comuni– sti». Siamo ormai dei giova– nissimi uomini politici e ce ne sentiamo orgogliosi. E' nostro grande desiderio lottare per una nuova società cli benessere e di pace e amore. Queste, sono le· nostre aspi– razioni! Riamo intanto giunti al 19-!3, epoca in cui le fortezze Yolant.i americane bombardano le officine torinesi. La R.I.V. è distrutta, e noi lì vicini, rimaniamo semise– l)0lti dalle macerie. I morti si e-ontano a decine. Tanti cari amici giovani ed anziani muoiono dilaniati dal– le esplosioni e tanti altri ri– mangono rovina ti per sempre. BibliotecaGino Bianco Sono momenti di paura folle. Paura di morire. Nei rifugi tutti tremano e pregano Dio, anche coloro che prima dicevano di non credere in Esso. Anch'io tremo e prego. Vo– gliÒ salvarmi, non voglio asso– lutamente morire rinchiuso in una rantina come un topo. ì\Ia tutto termina e ritor– niamo sopra a tentare di aiu- tare coloro che non erano ve– nuti in cantina. Alcuni non li troviamo più. Sono sepolti e vi è tra di loro il padre di una nostra amica operaia. Scene rhe ci fanno nuova– mente tremare, ma non più di paura: di misericordia, di pietà. Nei giorni che seg\lono si ri– mette in sesto l'officina e si ricomincia il lavoro, ma poi io mi ammalo e mi licenzio per tornare al paese a vivere Yendendo legna d3; costruzione che rubo (come del resto tan– ti altri) dalle pinete del mu– nicipio. Non sono più malato perchè non ho più paura dei bombar– damenti. :\Ii sento forte, tanto forte, ma penso ai compagni che sono rimasti esposti alle bombe per poter continuare a vivere. A Torino piante da ru– bare non ve ne sono e per continuare a mangiare i miei amici debbono per forza rima– nere in officina. Io mi sento Yi1e. Ho l'impressione di avere abbandonato gli amici nel mo– mento del pericolo. Un desi– derio irresistibile di ritornare tra loro mi assale ma poi vin– ce l'egoismo, lo spirito di con– servazione e rimango dove so– no a lasciar finire la guerra. Imboscato! nel ,ero senso della parola. rei boschi, come le lepri che fuggono al più lie– Ye rumore. Termina così la guerra. 19-16- Ritorno in officina. Riprende la vita operaia. Le macchine lavorano, stridono, gli operai, anziani e giovani, parlano ora apertamente di poli tic a, di religione, di econo– mia, qualcuno di filosofia (nes– Huno però li ascolta, perchè nessuno li capi ce), di com-

RkJQdWJsaXNoZXIy NjIwNTM=