La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 9 - novembre 1995

nelle sue 'dimensioni filosofiche, storiche, etiche - ma conta per come mi coinvolge nel presente, di continuo e praticamente in ogni cosa che faccio, con le mie responsabilità di adulta, nella mia vita quotidiana. In gioco non sono principi generalissimi (e astratti) dell'agire umano, ma il nostro concreto stare nella società moderna negli anni del razzismo(':•). A me sembra irrinunciabile porre il tema in questi termini, lasciandoli il più possibile ampi e dunque anche imprecisi, società moderna, razzismo. Si tratta di descrivere, far emergere, rendere visibile ciò che nella società in cui viviamo, e dei cui eventi siamo corresponsabili, è sotteso a questa espressione, gli anni del razzismo: gli incerti principi del governo della vita sociale e le malferme condizioni della convivenza civile, e i ~ratti - males_sere,.a1:1b~guità, mcoerenza - m cui c1nconosciamo. Certo l'espressione razzismo non corrisponde a una dimensione concettuale precisa, anzi, è controversa, ambigua, include tutto ciò che chiamiamo, volta a volta, antisemitismo, discriminazione, pregiudizio, xenofobia, autoritarismo, intolleranza, paura, violenza anti-immigrati, chiusura. È emotivamente molto carica. Proprio di questa pesantezza, io penso, abbiamo bisogno: anni di razzismo, cinquant'anni fa come oggi, nelle nostre società. Organizzare in questo modo l'attenzione e l'elaborazione mi porta allora a riformulare le mie riflessioni attorno a una domanda: come usare della memoria in questi anni, anni del razzismo, ma anche, anni della riflessività? "Perenne monito alle future generazioni" Ho letto questa frase nei giorni scorsi, in una lapide commemorativa. Noi, gli adulti, per definizione saremmo in grad? di, e tenuti, ad ammomre, msegnare, passare il testimone, lasciare un segno. Ma mentre informazioni, numeri, ricostruzioni storiche, immagini, si possono fornire, altra cosa è credere di poter influire su atteggiamenti e valori e modi di essere, o sulle pratiche, di individui e di istituzioni. E ancora: siamo noi a fissare temi, contenuti, priorità (la generazione di coloro che oggi occupano le posizioo ni di ministri, di docentÌ, di curatori d'anime, di o_pinionmakers vari). Per questi noi la memoria è quella di una generazione, ed è "eurocentrica". Dobbiamo diventare più consapevoli dei meccanismi complessi che accompagnano il nostro ruolo di persone che insegnano (o che si assume abbiano qualcosa da insegnare) sulle scelte, sulla vita; degli esiti spesso controproducenti, improduttivi guasi sempre. Continuo a chiedermi: come si "insegna" su queste cose, e ancora prima: sulla base di che cosa, in nome di che cosa si può appunto insegnare, e orientare, e ammonire? Arrivo ad altre due considerazioni, riferendomi ali' anno che si conclude. Il 1995 è stato un anno di guerra, odi etnici e stermini, in molte aree del pianeta. "Serbare il ricordo delle catastrofi in cui la modernità è incorsa": così ammonisce Zygmut Bauman; e io penso che abbiamo imparato a conoscere anche altre catastrofi. Rispettare strade della memoria da ripercorrere, e vicende collettive e personali a cui ritornare, che non sono le nostre; accettare che in esperienze e luo~hi altri si possa non cond iv1dere i nostri riferimenti come quelli più significativi, o in assoluto prioritari, è un passo necessario, ed è stato compiuto. Non abbiamo, invece, celebrato speranze: anche su questo c'è da riflettere. Non ci siamo collegati al futuro. Cinquant'anni fa, insieme alla disperazione e all'orrore, per centinaia di milioni di persone c'è stato un momento di visione, e soprattutto di certezze. Si è creduto che (con la terribile guerra, la sconfitta del nazismo, l'esperienza della minaccia nucleare) per sempre si fosse tracciato un limite: mai più, si credeva: mai più la guerra, il genocidio, la scienza usata per annullare l'umanità, mai più il male nella sua "banalità", cioè nella vita quotidiana. Questo, nel cinquantenario, non ha avuto posto; soprattutto della tragedia, dell'impossibilità di sperare, del percorso di delusione e di fallimento di una generazione è rimasta traccia. Né delle grandi speranze di allora e della loro elaborazione corale e simbolicamente forte, né delle possibili s_peranzedi oggi siamo riusciti a dire molto. Non ci siamo collegati al futuro. Essere adulti: un-alibi? C'è un altro nodo che cor risponde alla condizione del l'essere adulti (e molta ricerc, sociologica recente lo metti in luce): il difficile organizza re la sopravvivenza, la re sponsabilità immediata per L pror,ria cerchia di esseri urna ni, 11 peso del quotidiano co me routine (che non permettl di avere una visione d'insie me, che impoverisce e soffoc, nelle cose immediate). Di coloro che vivevano i1 Germania negli anni del!. persecuzione e dello stermi nio degli ebrei, Bauman a UJ certo punto dice: "la maggio ranza aveva molti problem più pressanti da affrontare" Una frase terribile; un alibi ma anche un dato reale, negl anni della guerra e del nazi smo. Ancora Bauman: "Magari non c'era simpati, per la violenza, non si era dispost a essere personalmente coinvolt nella persecuzione ... ma al mede simo tempo si era d'accordo, o al meno si sceglieva di non interferi re, con l'azione dello stato". Da sempre mi accompa gnano interrogativi che sono avrei capito che era assoluta mente necessario non accetta re di fare il giuramento richie sto ai professori universitari avrei difeso, nascosto, a ri schio non solo della mia vit, ma di quella dei miei figli avrei capito che la scelta er, proprio quella di "essere per sonalmente coinvolti", e chl ciascuno poteva comunque fare qualcosa, "salvare ancht una sola vita"? Non mi è ma bastato il sollievo - irresistibi le e sterile - che ci viene da fatto che non siamo stati i car nefici, e la convinzione che i1 nessun caso avremmo potut( - avrei potuto·_ esserlo. M~ come posso sapere con cer tezza se non sarei stata nelL massa sterminata di quelli cht erano paralizzati dal senso d impotenza e dalla paura, l 'a· rea grigia di Primo Levi? Do ve cominciava allora (dovt comincia oggi, non facile d, individuare, perché è appunte la normalità, il quotidiano quello che Bauman ha chia mato il silenzio mortale de/. l'indifferenza? Facile è scivo lare nell'auto-indulgenza t nell'auto-assoluzione. D' altr, parte, neppure serve semplici sticamente colpevolizzare ( demonizzare gli "altri", "razzisti". Al presente si riorganizza no, hanno cittadinanza, circo

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