La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 8 - ottobre 1995

io portavo a casa i soldi per comprare la roba.· Ho fatto la puttana per 4 o 5 mesi, ma non ricordo molto. Per battere devi essere strafatta e aspetti solo di avere la roba per fartela in vena e non pensare più a nulla. Ho tentato l'overdose un sacco di volte, ma sono stata sfigata anche in questo. Quando sono rimasta sola era ancora peggio, perché rischiavo le botte ogni giorno. C'era un gruppo che mi odiava e una sera mi hanno presa... Dormivo sulle panchine, sotto i ponti, all'aperto, a volte andavo a casa di un amico, qualche tossico, a ripulirmi, farmi una doccia. Appena svegliata entravo in un bar, bevevo una birra e buttavo giù, 4, 5 roipnol, così da subito, dalle prime .ore del mattino ero completamente sballata. A ·quel punto vai suj viali, si ferma un 'auto, vedi a malapena la faccia del tipo, gli dici il prezzo, sali in macchina, fai quello che devi fare, smonti e via di nuovo, si ricomincia. A volte sono vecchi, con le rughe ... Se odio gli uomini? No ... in fondo loro mi sfruttavano, ma anche io sfruttavo loro perché li usavo per guadagnare i soldi per farmi le pere. Forse il mio odio più antico, intimo, che risale alla violenza subita da piccola. E siccome era mio nonno, forse ho trasferito l'odio su mio padre ... Poi ero la figlia di mezzo tra il fratello più grande, l'idolo della famiglia, e la sorella minore, la cocca di mamma. Ma non cerco giustificazioni, quello che è successodopo me lo sono voluto io, l'ho cercato. Comunque quando litigavamo, mio padre gridava "taciputtana". Ancora adessoquando sento questaparola trasalisco,mi fa male, non so bene cosasia, sento una ferita dentro che sanguina. Mi sembra che sempre, dovunque e comunque qualcuno mi po-· trà annientare rivolgendomi quell'insulto, rinfacciandomi il passato. Ma... è trascorsodel tempo... almeno ora ne riescoaparlare_». Taccio,perché so che qualsiasi intervento sarebbe banale. Speroche Violetta capiscache il mio silenzio è il suono della riflessionee del rispetto. Luca È terminata la cena, ma non ci alziamo subito da tavola. Tutti aspettiamo la torta, una gradita eccezione alle regole del desinare comunitario. Infatti oegi è il compleanno di Luca, viva Luca! Stefania e D. per l'occasione hanno preparato un gigantesco tiramisù. E poi c'è il regalo che i ragazzi devono consegnare al festeggiato, fatto con le loro mani, una cartellina di cartoncino verde con un bel disegno stampato sulla copertina, opera di F. dalla serigrafia, e 20 e passa dediche personali, tante J, uante sono i ragazzi. C'è persino la mia, unarase, spero, non banale, per esprimergli la mia simpatia tutta istintiva, a pelle, percbé in realtà lo conoscoancora poco. Arriva la torta allora, insieme al regalo. L'immancabile coro accompagna la prima occhiata alla cartellina. Sorride, sembra contento, ma nello stesso tempo sostenuto, non lascia trasparire una grande emozione. D'altra parte è i1 suo carattere: Luca è taciturno, puntiglioso, un po' schivo, ci tiene alle buone maniere e si fa notare per una solida (almeno così sembra) serenità, un equilibrio interiore che esternamente, forse, lo fa apparire troppo sicuro di sé. E infatti ... Comincia a leggere le dediche: la prima è un sincero augurio per il futuro, con il consiglio di aprirsi maggiormente, di condividere i problemi personali con i compagni, di farsi conoscere. Poi la seconda, la terza ... e via via le altre, tutte indistintamente, una in tono più scherzoso, l'altra più schietto, lo esortano SUOLEDI VENTO allo stesso modo, a parlare dei suoi problemi, a mostrare il proprio lato oscuro, che sicuramente esiste efa male, fa soffrire. Luca è stupito, non se l'aspettava. Ha scoperto c/,e i compagni lo vedono e giudicano nella medesima maniera e ciascuno lo sprona a cambiare, lavorando sul proprio carattere in quella precisa direzione, per aiutarlo (secondo loro è l'unico modo) a risolvere i problemi che anche lui ha, nonostante le apparenze. Sono stupito anche io: mi rendo conto che un compleanno - un'u·sanza a volte insipida superficiale, che spesso rappresenta solo una scusa o, peggio, l'obbligo di regalare «qualcosa», un oggetto fine a sé stesso, senza realmente comunicare nulla - ebbene un compleanno può anche rappresentare uno spunto per meditare, per confrontarsi e, perché no?, mettere in crisi il festeggiato e porlo di fronte ai suoi difetti in modo costruttivo. Mi domando allora se ciò sarebbe possibile fuori, tra gli amici più o meno stretti, i conoscenti. E l'ovvia risposta è no,perché noi non ci facciamo le pere o non ce le facevamo·. E poi ... Poi non abbiamo problemi, paure, debo[ezze. Di cosa dovremmo parlare, su cosa dovremmo confrontarci? Spesso è già troppo faticoso rispondere al "che cosa facciamo stasera?", perché porsi altre domande, rischiando anche di apparire tristi e problematici. Essere giovani significa esseresempre contenti e spensierati, no? Alla fine della serata mi chiedo: è così difficile e sbagliato fermarsi un attimo e riflettere?Tanti auguri, Luca! Giovanni Giovanni è arrivato un' afosa mattina di luglio barcollando sulle gambe magre come grissini. Indossava dei larghi pantaloni neri di tela, scarpe da ginnastica e un camicione blu a maniche corte. Imrressionava il suo viso, la maschera tipica de tossico, gli occhi scavati e cerchiati di rosso, il colorito malsano, la barba incolta, ma soprattutto lo sguardo perso, spento, in agonia. Doveva parlare con i responsabili che, in seguito al colloquio, avrebbero deciso se accoglierlo o meno. Lo fanno attendere in entrata e lui, per ingannare il tempo, dopo essersiarrotolato le braghe comincia a grattarsi le gambe punteggiate di piccole ferite. Vediamo tutti che è fatto anche adesso, basta guardarlo. È l'immagine della disperazione. Sono le 2: comincia il lavoro pomeridiano, Alle 3 circami chiamano dalla direzione, salgo, busso alla porta, entro: Giovanni è lì, ha termi-. nato il colloquio. Mi dicono che devo riaccompagnarlo in paese. Acconsento, vado a prendere le chiavi dell'auto e saliamo in macchina insieme. Sorrido, gli rivolgo la parola, guido con prudenza. Ma dentro di me si agitano pensieri inquieti, odiosi, discriminatori. Temo qualche contagio, mi vergogno a dirlo, perché è una paura ignorante, irrazionale, eppure non riesco a trattenerla. La conversazione scivola sui binari della banalità. I miei occhi, di sfuggita, sono calamitati da quelle ferite aperte sulle gambe. Gli guardo le mani, non vedo alcun taglio. Temo persino una stretta, l'usuale gesto di commiato. Giunti in città lui scende e io, parole assurde, gli raccomando di avere cura di sé. Prima di andarsene non mi dà la mano e, vigliaccamente, me ne rallegro. Giovanni ... non l'abbiamo più rivisto. ♦

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