La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 8 - ottobre 1995

contestatori - a professare berlusconismo. E allora come uscire, per davvero, da questo "tempietto" spocchioso e obsoleto della scuola, se l'unica deviazione possibile sembra essere quella del circo, della farsa, della messa in scena (ennesimo inganno) dell'istruzione per tutti? Qui Starnane ci soccorre poco. È stato un acuto osservatore di difetti e assurdità nella pars destruens. Ma la pars costruens manca suasi del tutto (anche perché, ovviamente, il libro non si proponeva questo scopo). Auspica un "alto livello di specializzazione", pone l'esigenza di una scuola svincolata dalla formazione professionale e riorganizzata in senso egualitario per la crescita culturale di tutti (ma come risolvere la contraddizione di una "istruzione generalizzata qualitativamente alta"?), consiglia di ricercare e mettere a nudo i "precedenti" per così dire antescolastici degli alunni, ipotizza/utopizza una scuola in cui anche gli studenti insegnino, incita a sbarazzarsi dell'infame registro, sprona a dire basta a "un mestiere che consiste nel soffocarsi soffocando", indica una via difficile e perigliosa: "Nessuno ne può più del lavoro ordinario. Ne abbiamo le scatole _piene.L'insegnante orc\inario ha colmato la misura. Dobbiamo dimostrare una straordinarietà non subordinabile, non irregimentabile, indispensabile, sovversiva". Che è come dire (senza sarcasmo) che dobbiamo fare la rivoluzione. Starnane afferma che ancora combatte contro il modo di concepire l'insegnamento dei suoi insegnanti. Ma il tono prevalente del suo diario non è l'indignazione, la polemica, la contestazione, la rabbia. È piuttosto lo scoramento, il pessimismo, lo sconforto. Moltissimi e sparsi ovunque nel testo sono i brani in cui l'autore confessa una certa stanchezza ("Faccio sempre più fatica a star dietro agli adolescenti"), uno svuotato senso d'impotenza ("da qualche anno mi pare inutile, resto troppo indietro"), un umor nero autocritico e demotivato ("mi sento un po' ridicolo e come insegnante divento sempre più pigro. Coltivo cupezze d'ogni tipo"), un disorientamento professionale ("Per quanto mi·sforzi, non riesco a chiarirmi che tipo di insegnante sono stato ... sono andatq a zigzag"), un magro e triste tirar le somme ("ma - dico in tutta onestà - nessun anno scòlastico si è chiuso con un bilancio veramente positivo"), una fustigante autovalutazione ("L'unica cosa che riesco a fare, stamattina, è cercare di pensare i miei fallimenti didattici semplicemente come il frutto di un limite"). Alla fine del libro scopriamo che gli alunni hanno portato in classe la cassetta per le domande. Si apre uno spiraglio di speranza, che Starnane però s'affretta a chiudere confessando di non sapere rispondere. Una franchezza così scabra e amara è certo un salutare antidoto alla sicumera pseudoscientifica dell'inse.snante perfetto. Ma questo sincero e malincomco autoritratto ci dà anche la misura,della cupa frustrazione dell'insegnante medio, il cui tedio quotidiano e il cui supplizio di Sisifo non sono certo leniti da successi editoriali e cinematografici come nel · caso di Starnane. Solo se interrogato racconta in modo veritiero il mondo della scuola, o almeno una sua parte. Fatta eccezione per qualche volo utopico, peraltro anch'esso assai generico, il libro manca di pro~ettualità, di profondità, di uno sguardo d'insieme abbastanza aperto e vasto. e le. R1 neo Manca cioè di prospettiva, s'appiattisce nell'esulcerata e minimalista trasposizione autobiografica. Starnane parte da sé e dal suo lavoro, e suesto è sicuramente un bene. Ma non c'è rilievo nella sua analisi, non c'è spessore. Le osservazioni sono salaci, ma ri risolvono spesso in aneddotica. Si dirà che l'ultima fatica di Starnane non voleva essere che questo: un documento sulla mala-educazione, l'esposizione di un punto di vista interno e soggettivo. Ancora una volta: non era qui il luogo ... Ma a forza di guardare l'albero abbiamo perso di vista la foresta. Dalla cattedra - è risaputo - si vede bene la classe, non la scuola. Conclusioni? Punti di vista Siamo tornati alla metafora della miopia e della eresbiopia. Mi vengono in mente tanti miei alunni che a inizio d'anno lamentano di non vedere bene la lavagna e reclamano il primo banco. Poi improvvisamente, un po' vergognosi, spuntano m classe con gli occhiali. Ecco perché non vedevano. Non erano i riflessi della luce che trapassava pulviscolare attraverso i vetri sporchi, né le teste dei compagni più alti che svettavano importune a ostacolare la vista. Erano miopi. Adesso saranno dei quattrocchi (epiteto che sopravvive di generazione in generazione a tutte le epoche e tutte le scuole) ma le lenti, per quanto spesse, non riusciranno ad appannare il brillio vispo dei loro occhi. Altri alunni, invece, soprattutto le ragaz- . zine, inforcano, perfino nelle giornate più uggiose, impenetrabili lenti scure da sole. Cosicché io non riesco a scorgere il loro sguardo e non posso sapere se stanno seguendo la mia spiegazione, se si annoiano, se dormono, se guardano altrove, se hanno capito o se (I' espressione calza a pennello) brancolano nel buio. Mi sovviene anche l'immagine di un collega, ormai quasi al tra~uardo della pensione, che usa le lenti bifocali e che ora abbassa ora alza occhi e nuca, con movimento da piccione, a seconda se deve leggere o guardare a distanza. Già miope, da qualche tempo è diventato anche presbite e ha risolto con le lenti bifocali il fastidio di dover inforcare alla bisogna due diverse paia di occhiali. La presbiopia d'altronde è affezione tipica degli anziani. La metafora si perfeziona. Gli insegnanti vedono poco e male la scuola per offuscamento senile. Per una professionale perdita di elasticità del cristallino. Vero è che la conoscono a memoria e pQssono vederla pure a occhi chiusi. Però c'è sempre un mucchio di cose che sfug~e al loro sguardo appannato, demotivato, disincantato, disamorato. Ci vogliono anche gli occhi buoni dei ragazzi per vedere certi dettagli. E non si può prescindere dagli "occhialuti" che hanno un loro modo di vedere, non vedere, intravvedere la scuola. Non c'è quindi solo una contraddizione tra lo sguardo esterno e quello interno (o anche alto/basso). C'è pure un'opposizione interna di due speculari punti di vista: dalla cattedra e dal banco. Ma allora bisogna che questa scuola - queste scuole - siano raccontate tanto dagli alunni che dagli insegnanti. Occorre una letteratura che faccia earlare gli uni e gli altri, integri le loro angolazioni per cercare ai mettere a fuoco (e magari a ferro e fuoco) suesta obsoleta istituzione, intrecci e annodi questo incrocio di sguardi. Ma esistono inchieste serie fra gli stu-

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