La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 8 - ottobre 1995

ti circolari sull'uso dei gabinetti ecc.), accenna en passant all'economia spicciola del microcosmo scolastico, ignora il tessuto minimale dei rapporti interpersonali. Non c'è molto da stupirsi, allora, quando un ministro in vena di protagonismo vara un provvedimento come quello dell'abolizione degli esami di riparazione senza curarsi delle conseguenze, senza approntare adeguate con-· . tromisure, senza preveaere sviluppi, modalità, . ~isorse. :',-li~ cieca, con selvaggia, incosciente improvvisazione. Sarebbe bastato parlare con gli insegnanti per capire che quella cura era forse peggiore del male che voleva sanare. Oggi ci si compia- 'ce che, tutto sommato, la sperimentazione non è stata disastrosa, che i corsi di recupero si sono svolti, che in qualche modo la scuola ha risposto all'emergenza. La verità è che il mondo scolastico è un sistema abituato da decenni di malgo';erno ad assorbire colpi _sucol~i: C'è una mmoranza, non troppo esigua, di msegnanti attivi e perfino iperattivi che garantisce comunque che la barca non affondi, che riesce a instaurare un equilibrio, magari estremamente precario e fragile. Se la politica si rapporta (anzi, non si rapporta) alla scuola in modo così distante e scostante, è anche perché esiste un pensiero, una intellighenzia che ha perso di vista la scuola così com'è. Bisogna dunque ricongiungere in qualche modo teoria e prassi, a partire dalla prefigurazione di un nuovo modello di insegnante che sia lo specialista per antonomasia dei problemi scolastici. Utopia: pensare la scuola Nei Saggi Tascabili Laterza appare un volumetto agile e prezioso: Ideeper il governo - La scuola, di Tullio De Mauro. Il prestigio dell'autore non si discute, l'utilità ael libro neanche. Molte cose, invero, sono risapute, ma il ripeterle - trattandosi di questioni della massima importanza· - giova sempre. Ripetiamole anche qui. Ancora oggi - scrive De Mauro - quasi la metà dei maschi italiani e più di metà delle donne non hanno conseguito la licenza media inferiore, cioè quel ciclo scolastico dell'obbligo prescritto dalla nostra Costituzione. Fra i sette paesi più industrializzati del mondo abbiamo il più basso indice di scolarità: «l'Italia oggi diploma su c.ento giovani soltanto 40, la Spagna ne diploma 64, Gran Bretagna e Francia circa 75, la Svezia 80, il Giappone 91, la Germania (recuperando al diploma anche giovani più che ventenni) 117 (sic!). Noi laureiamo meno di 90.000 giovani l'anno, paesi europei di simile stazza geografica, Francia, Gran Bretagna, Germania, ne laureano circa 150.000". Siamo, insomma, le cenerentole dell'istruzione. Si tratta di dati a disposizione di tutti, ma non per questo noti a tutti. De Mauro lamenta una certa disinformazione dell'opinione pubblica. Di scuola in genere si parla solo per motivi di ordine pubblico (occupazioni, vandalismi, scioperi) o in casi singolari ed eclatanti, soprattutto a sfondo erotico-scandaloso. Al di fuori di ciò, il silenzio più assoluto. A meno che non si ventili l'ipotesi di abolire "il vetusto edificio del liceo", ché allora giornalisti ed intellettuali insorgono con insospettato furore. Ma già ne / Buddenbrook troviamo il vecchio Johann che (nel 1835) esclama con disappunto: "Adesso spuntano dappertutto gli istituti proK!lQL.1 H R • fessionali e tecnici, e le scuole commerciali, mentre i ginnasi e la cultura classica diventano di punto in bianco sciocchezze". Il figlio, il console Johann-{ean, sbotta invece anni dopo: "All'opposto de mio povero babbo, io non ho mai approvato che le giovani menti si nutrano con tanta abbondanza di greco e latino. Ci sono altre cose serie e importanti, necessarie per la preparazione alla vita pratica ... ". Questioni anticlie, dunque, profondamente radicate (e come tali assai difficili da sradicare), che riproducono alla lettera certe diatribe odierne. Ma lasciamo Mann e / Buddenbrook (romanzo che contiene più d'una illuminante notazione sulla scuola) e torniamo a De Mauro e alle sue cifre. Quasi otto milioni di italiani non sanno né leggere né scrivere. Ma questo analfabetismo di massa si nasconde "pudicamente", mentre l'Italia colta - senza pudore - chiude gli occhi per non vedere. Se consideriamo che in Italia è possibile autocertificare di non essere analfabeti, e se valutiamo gli effetti della regressione del livello scolastico, possiamo renderci conto che l'esercito di coloro che non ·sanno né leggere né scrivere è assai più vasto. Quanto al parlare, quasi il 14% della popolazione non si esprime mai in italiano. E oltre al paese che non sa leggere, c'è il paese che non leg~e: il 23 % degli italiani non ha in casa nessun libro. E in questa condizione che De Mauro definisce "abiblica" si trova un gran numero di diplomati e perfino di laureati. E ancora: "soltanto 36,6 persone ogni cento dichiarano di aver letto almeno un libro non scolastico nell'anno". Il 24% dei laureati non legge neanche un libro in un intero anno. Se non si legge, dunque, non è per mera ignoranza, ma per diseducazione alla lettura, alla cultura. L'acquisto di guotidiani riguarda una sparuta minoranza d1 circa il 10% dei nostri connazionali. C'è chi non ritiene che sviluppo dell'economia e sviluppo della. cultura siano connessi. Ma anche costoro - suppongo - si preoccuperebbero di sa_pereche il 12,6% dei diri$ent1 di aziende e uffici non legge mai alcun g10rnale, nemmeno sportivo. Di fronte a questo deserto culturale come si comporta la nostra classe politica? Che provvedimenti prende? Superficiali escamotages e puerili palliativi: "Chi concentra l'attenzione solo su fatti marginali produce ministri che credono di potere affrontare le questioni formative ribattezzando certe categorie di docenti oppure sopprimendo gli esami di riparazione: e guadagnandosi così pagine e pagine di giornale". Il futuro del nostro paese si gioca quindi a scuola. Al di là, dice De Mauro, degli schieramenti politici. Non v'è chi non scorga, scegliendo solo un esempio tra i tanti, il raf porto tra la cosiddetta mortalità scolastica e i "precoce arruolamento nella malavita". Ma per svotgere un attivo e positivo ruolo sociale, la scuola dovrebbe essere in grado di abolire, o quanto meno di attenuare, quelle disuguaglianze culturali di partenza che invece si limita a registrare e che meccanicamente tende a perpetuare. Lo strumento principale e prio.- ritario di una simile funzione di appianamento dei dislivelli culturali (e quindi di sanamento di una cocente ingiustizia e di una inaccettabile sperequazione) è indubbiamente un corpo docente che goda di una formazione e di una

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