La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 7 - settembre 1995

re l'intervento attivo per la pace: da un lato, dentro le guerre in atto, quello degli aiuti umanitari; dall'altra, di fronte a quegli atti di guerra che sono ancora chiamati "esperimenti", quello di una rischiosa esposizione personale "sulla scena del delitto", è il caso di dire. Per la verità, fino a questi limiti, ci sarebbe da registrare soltanto soddisfazione e nessuna contraddizione, se non fosse che il coinvolgimento diret_to ~ p_rolungato 1:elle situaziom di guerra puo comprensibilmente suggerire, anche ai testimoni più _pacifici,o un desiderio (o un diritto-dovere) di sconfinamento. È così che, per la prima volta, prese di posizione interventiste - e cioè appelli all'intervento armato e attive:>dei più potenti eserciti internaz10nali - si sono presentate come espressioni di una indiscutibile volontà di eace e perfino come l'inevitabile e rigoroso sviluppo dell'impegno umanitario. E così che però, si sono svelate nuove e più gravi distanze in un certo senso tra "pace" e "bene", confondendo le intenzioni e le opinioni dentro un movimento _poliforme e trasversale che fino a ieri aveva creduto all'inscindibilità di questo binomio, e che era rinvigorito dalla prolif erazione di interventi diretti, pacifici e pacifisti, diversi e divisi da quelli militari e persino da quelli politici e istituzionali. L'interventismo s_pezza invece l'incanto dell'rntervento, dal momento che non si può più essere, contemporanea men te, portatori di un'idea di pace e protagonisti di un'azione a essa coerente: la novità "interventista" non sta nel fatto di chiedere che la parola passi alle armi (e quando mai non è stato così), ma nel restituire una delega totale alle istituzioni politiche e militari e agli enti internazionali e sovranazionali, dai quali dipende il destino della guerra (è vero) ma non altrettanto il progetto della pace. Ciò che allora si deve contestare al realismo ma anche all'ingenuità della posizione interventista, non è il solito tema di una generica o scontata diffidenza verso il potere, ma il problema di una relativa ma faticosamente conquistata autonomia del movimento per la pace, che tanto più cresce come interlocutore ~uanto meno si dimostra indipendente dal gioco e dalla logica della politica. Né Sarajevo né Muroroa - nessuno dei numerosi interventi rischiosi e generosi e persino spettacolari - hanno mutato il suo primo obiettivo che è quello di difendere e di diffondere una cultura "altra" e non di costruire una politica "alternativa". È quello di convincere il più gran numero di persone - a partire dalle più distanti e meno coinvolte - della bontà di un metodo o se si preferisce del metodo della bontà. Se questo è vero, la discriminante nonviolenta può forse essere messa in discussione, ma non svalutata gratuitamente denunciando di fatto la sua maggiore impotenza e la sua minore efficacia. Non si possono misurare i valori sulla tabellina dei comportamenti, ma soprattutto non si può fare confusione - e, crediamo, d'ora in poi nemmeno accostamenti - fra l'individuazione di una politica per la pace e la costruzione di una cultura della pace. Questa radicale separazione non è certo il segno di una vittoria, ma è ancora oggi un dato di fatto: è una contraddizione che conviene vivere con schizofrenica semplicità, piuttosto che credere di superarla attraverso l'ennesima ridefinìzione della politica come forse intendono alcuni che non "hanno fatto" il sessantotto, ma invece ci sono rimasti dentro. Insomma a questa contraddizione si può rispondere perfino separando i _propri atti ~ i propri pensien_ dalla _co scienza, ma senza nnunc1are alla definitiva supremazia di quest'ultima. Intanto, come se fossero stati uditi, i reiterati e già da tempo maggioritari appelli all'intervento di guerra contro la guerra hanno avuto recentemente soddisfazione. Le postazioni serbobosniache sono state efficacemen te bombardate: si dice che questo sta già consentendo una ripresa proficua delle trattative; si crede comunque che questa sia la via più rapida o l'unica a disposizione, per chi davvero persegue concretamente la pace nella exJugoslavia. Magari tutto questo è vero, ed è comunque certo che questi sono giusti ragionamenti che discendono per~ltr_oda ancora più giuste ragioni. · Resta però un problema. Al termine, che ci auguriamo prossimo, di questa ennesima "guerra civile", quanti passi in avanti avrà fatto la cultura pacifista tra la gente e in primo luogo fra gli spettatori più distratti e più lontani? Quanti invece saranno diventati o si saranno confermati ragionevoli e razionali tifosi dell'intervento armato internazionale o sovranazionale? Posta così, la questione appare in tutta la sua banalità e miseria, ma ci si deve accontentare di questo livello, giacché non si ha più la possioilità di orientare il dibattito su temi e problemi di maggiore profondità. Almeno, non adesso. Non fino a quando saremo costretti ad ammettere - davanti alle sofferenze degli inermi e alla criminalità degli armati - che perfino i bombardamenti sono un "bene'.', anche se non sono la "pace". Ma allora - per la "pace" - occorre dare la precedenza alla scelta nonviolenta e credere nella sua difficile e dolorosa coerenza, anche quando ci si scopre impotenti e inutili predicatori? Anche quando questa impotenza genera passività e perfino vigliaccheria? Anche q:1ando il_n~stro s~n~imento d1 pace s1 nvela figlio esclusivo della paura? Ho paura di sì. •

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