La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 5/6 - lug.-ago. 1995

no tracciato solchi che altri, con altri modi, con altri mezzi e con altre intensità, percorrono ora, con la leggerezza di coloro che i maestri li hanno scelti da soli, attraverso processi simpatetici e non perché facenti parte del programma propedeutico della scuola tal dei tali. Questi e altri come loro hanno vissuto isolati eppure immersi in uria fare teatro vero intriso d'intelligenza e di poesia, quasi ignorati dai Centri di ricerca e produzione teatrale che ora non sono che l'ombra di ciò che avrebbero potuto essere. Ombre impegnate costantemente a dividere le fettine della pagnotta, peraltro sempre più misera dei finanziamenti pubblici, dimenticando di esser nati per favorire lo sviluppo di una cultura teatrale, di parlare e ascoltare il proprio territorio in modo da poterne cogliere i mutamenti e le emergenze, di dar vita a un progetto di coltivazione microbiologica di germi relazionali e visionari. Traspare spesso dalle parole dei rappresentanti della passate generazioni teatrali, che ancora detengono le leve del falso mercato del teatro, il rammarico di fronte a una carenza di rincalzi, di giovani brillanti e di talento e s'intuisce una specie di boria che sottointende "quando eravamo giovani noi", dimenticando completamente che i punti di osservazione non sono più gli stessi degli anni Settanta, che attorno ai teatri stabili, ai centri di ricerca non esiste più un humus in movimento e che questo si è spostato .altrove. Da uffici semivuoti si contemplano sale semivuote, e negli uffici dei burocrati si spremono meningi nella speranza di accaparrarsi il vecchio ·grande mattatore, magari ritornato al teatro dopo tanti anni di cinema, per aprire la stagione, mentre a due isolati di distanza ci sono tre gruppi o tre attori o tre danzatori, un musicista e un attore che provano la sera nella sala da the di un bar chiuso. Provano in condizioni di emergenza e povertà, a parlare del loro essere giovani in rappÒrto alla vita, al degrado della qualità del ,vivere, cercando di trovare un proprio modo per rompere un silenzio agghiacciante che buona parte del teatro questi anni ha steso sul rotolare infermo del nostro mondo. Probabilmente provano un teatro che ancora non parla le lingue colte o sottili ma che possiede un senso profondo di esistenza. È di questa esistenza che i gruppi giovani e sconosciuti hanno bisogno, di luoghi dove abitare, coabitare, dove potersi vedere ed essere visti. Non è un caso allora il fatto che centri sociali e esperienze simili, stiano diventando un curioso osservatorio per quanto riguarda. il teatro. Spazi come il Link di Bologna (esperienza di autogestione di una cooperativa culturale di giovani), lo stesso Leoncavallo che ha realizzato recentemente un progetto di teatro autobiografico, autoriflessivo sulla condizione giovanile condotti da Roberto Corona e Gigi Gherzi dal titolo Randagi, vivono una stagione di grande vivacità artistica, nella quale le cose si mescolano, i pubblici possibili si intersecano nella frequentazione di un luogo che si qualifica come contenitore aperto di progetti diversi tra loro, ma egualmente espressione· di tensioni sociali, poetiche e artistiche che nascono da emergenze, dalla necessità di uscire finalmente allo scoperto. I centri sociali non saranno l'eden, ma sono pur sempre un progetto di salvaguardia di territori liberi dal cappello soffocante dell'ufficialità teatrale, di prima o di seconda serie, territori che attendono di essere vissuti, attraversati e non occupati e conquistati. Dentro o nell'hinterland che questi stessi luoghi producono è stato possibile incontrare il Cyberteatro, esperienze di autopedagogia teatrale che sbocciano in linguaggi generazionali, opere prime di grande rigore formale e strutturale come quella di Gabriele Argazzi e Barbara Bonora fondatori e componenti del gruppo Terzadecade che hanno sèelto di fare uno spettacolo povero, crudo, incisivo, tratto dalle confessioni di un criminale serbo-bosniaco, ma anche il vecchio giovane dilettante che continua nel tempo libero a fare teatro e ci riesce molto bene, offrendo una versione padana di Benna il ciccione e comunicando allo spt!ttatore il suo senso di disagio nel vivere, la difficoltà di confrontarsi con una realtà di grande violenza e brutalità. Tutto questo passa accanto ai concerti di musica improvvisata, alle proiezioni, agli incontri sui temi della differenza e della diversità, ma soprattutto passa accanto a un pubblico vero, che paga un biglietto perché si sente una parte di quell'apparente caos di proposte, del succedersi vertiginoso di segnali e segni, li riconosce come passi di un cammino che non sta percorrendo da solo. Oggi 1995 non è poco. ♦ SUOLE DI VENTO

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