La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 2 - marzo 1995

parte quella del sessantotto, si è giocata lì le sue possibilità di egemonia, indipendentemente dalle scelte compiute in precedenza. La svolta fu tardiva, ricorda Renzo, e impedì al Pci di essere sinistra europea quando già poteva esserlo: la "logica di campo", infatti, e il legame con la genealogia dell'Ottobre, resero ambigua, incerta, tardiva, una poli tic a che era "certamente più vicina a Olof Palme e a Willy Brandt che a Breznev". Paradossalmente la "svolta" dell'89, quella della Bolognina, fu vissuta con maggior entusiasmo e speranza da Vittorio che da Renzo: al primo parve la prova della riformabilità del comunismo, del suo trovare nei valori dell'individuo e della libertà una nuova carica e una nuova identità; al secondo sembrò il passaggio obbligato di una forza politica che era insieme figlia dell'idea totalitaria e madre della democrazia italiana, una contraddizione troppo a lungo rivendicata come diversità e vissuta come alterità, con orgoglio e con forza. "Non è un problema tecnico - ammette Renzo - il fatto che alla Bolognina Occhetto· sia andato dopo la caduta del muro di Berlino e non prima. Se non fosse caduto il muro quanto tempo ancora avrebbe aspettato? Certo in sintonia con Gorbaciov. Ma in quella direzione e nella direzione di una collocazione - come dire? - socialdemocratica o liberalsocialista" (p. 55). Certo, non si ripeterà mai abbastanza quanto lo "strappo" con l'Urss sia giunto in ritardo, quanto abbia atteso le verifiche più tragiche e impietose della storia prima di manifestarsi, e mai compiutamente: esso lasciava, tuttavia, insieme più liberi e più smarri ti: ed è proprio in questa doppia verità richiamata da Vittorio che si annida una delle ragioni più profonde del radicamento e insieme del minoritarismo che ha sempre caratterizzato la storia "politica" della sinistra. Anche nei giudizi sugli avvenimenti internazionali convissero una maggiore libertà e un più diffuso smarrimento: libertà di poter sostenere ciò che si_riteneva f iù giusto ma smarnmento ne non sapere e potere "collocare" gli avvenimenti in griglie interpretative predeterminate, sia che fosse in ballo la guerra del Golfo o Bit iQg caGinoBianco l'inizio della guerra civile nel1' ex-Jugoslavia. Ma anche nella valutazione della politica interna si aveva sempre "come quadro di riferimento i vecchi rapporti di forza tra i partiti (...) c'era una resistenza davanti all'incognita costituita da un nuovo sistema politico, ma c'era anche un'incomprensione di ciò che stava cambiando nel profondo dell'Italia" (Renzo, pp. 61-62). È proprio di fronte all'accelerarsi della crisi, sul piano mondiale come su quello italiano, che la sinistra - e il Pci che la riassumeva quasi per intero, almeno a livello politico - mostra la sua propensione alla chiacchiera e alla conservazione·, la sua natura burocratica e ripetitiva, il timore del nuovo affrontato di volta in volta con rassegnazione o con altezzosità, col lamento o con l'arroganza. Nel 1993-94, i nodi di questa intricata realtà vennero al pettine in due tornate elettorali che dettero risultati opposti: vincente la sfida dei "sindaci" del novembre-dicembre, perdente quella del marzo contro Berlusconi. Vittorio sembra propenso a ritenere che causa della sconfitta fu l'abbandono della scelta operata per le grandi città, con "candidati che nel loro insieme davano l'idea di un'uscita dal quadro tradizionale del partito come organizzazione" (p. 65). Renzo crede che i motivi della sconfitta vadano ricercati nel grande abbaglio di pensare che "finiti con Tangentopoli i vecchi partiti di governo, fosse naturale che toccasse alla sinistra. Invece, la sinistra si è trovata davanti alla nascita di una destra che non aveva previsto né capito, e che non riusciva a fronteggiare" (p. 66). Padre e figlio concordano nel ritenere l'uscita dal governo Ciampi del Pds un errore imperdonabile e di portata ben maggiore di quanto in genere ritenuto; un errore anche su quel piano "tattico" in cui il Pci si era sempre mosso con abilità. Ma non si trattò per entrambi i Foa, di un semplice errore tattico: ma di un "rifiuto a governare" che caratterizza l'irrisolta questione del rapporto tra sinistra e governo. Il condizionamento del passato si fece sentire ancora, non tanto sul terreno cieli'opposizione (scelto come rifugio per non pensare dai militanti di Rifondazione) ma su quello della "supplenza di governo, che è una forma di collaborazione senza partecipare al governo. Non è il consociativismo,che è l'accordo per spartirsi qualcosa. È altro: sono convergenzedi fondo, ognuno restando nel suo campo di autonomia" (p. 68).Nel concludere questo confronto sul Pds e il governo Vittorio avanza un'ipotesi: "Che nella cultura comunista più profonda sia stata estremamente difficilel'ipotesi di governare con gli altri, di rimettere quindi in discussionelapropria identità" (p. 75). Questo dialogo, per la fortuna e i1 piacere di chi legge,non si limita solo a una discussione,per quanto approfondita, sulle miserie quotidiane in cui si dibatte la sinistra e sarà costretta a dibattersi finché sarà il Pds a rappresentarne l'anima maggioritaria: affronta temi più ampi: la libertà e il socialismo, la memoria e la coscienza, l' amministrazione e l'efficienza, la destra leghista, post-fascista e berlusconiana, il sonno delle coscienze indotto dalla televisione e la cultura del commercio (dell'effimero e del1' apparenza) che è subentrata a quella del consumismo (ancora legata a precisi bisogni materiali), il ruolo dei giudici e della giustizia, il disagio gi_ovanile; l'eredità democristiana. Nella conclusione di ql.lesto confronto piacevolmente serio, che sollecita riflessioni concrete in cui valori e azione possano ancora trovare un punto d'incontro, mi piace dimenticare il tardivo e un po' incongruo peana che Renzo muove alla stagione del compromesso storico e chiudere invece con questo invito di Vittorio, più fiducioso nelle possibilità m.1lgrado la consapevolezza profonda dei tempi difficili che stiamo attraversando: "Quella consapevolezza è solo realismo, analisi senza paraocchi. Il pessimismo è altra cosa, è il presagio che dal male non può nascere che il peggio e che quindi non c'è salvezza se non fuori di noi. Un'analisi realistica non deve darsi come oggetto solo le fonti del male, ma deve comprendere i sentieri del bene, non solo l'oppressione ma anche la resistenza ali'oppressi~::m~.È singolare che questo pessurusmo, questo senso di abbandono siano dilagati proprio a sinistra, nel luogo dove una lunga tradizione esaltava la possibilità di riscatto attraverso le proprie forze e la propria unità". ♦

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