La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 1 - febbraio 1995

Europadopo il muro MarcelloFlores Cinquant'anni fa gran parte dell'Europa era già stata liberata dagli eserciti americano e sovietico; nessuno dubitava della prossima sconfitta del nazismo e l'immagine della pace futura appariva ai più la realizzazione di una speranza a lungo covata. Due anni dopo si erano già manifestati i primi sintomi di quella guerra fredda che incupì gli anni della ricostruzione, risuscitò fantasmi e paure, divise per altro mezzo secolo gli uomini sulla base di odii e pregiudizi. Cinque anni fa la caduta del muro di Berlino parve ad alcuni la fine della storia, a molti la vittoria della libertà su scala mondiale, a tutti l'inizio di una nuova epoca in cui tutti sarebbero stati più responsabili e più protagonisti. Da allora stragi e guerre di analoga ferocia e devastante atrocità a quelle combattute nei decenni precedenti si sono succedute senza tregua. L'Europa cinquant'anni fa aveva abdicato alla sua autonomia e integrità, alla sua cultura e identità in nome della necessità e del bisogno (materiale e spirituale, economico e ideologico), piegandosi ai voleri e ai valori delle due superpotenze; oggi, più libera e forte, rifugge dalle proprie responsabilità senza neppure gli alibi di allora. Forse davvero, come soggetto politico e come coscienza morale, l'Europa finì a Barcellona nel 1937, a Monaco nel 1938, a Danzica nel 1939. Le tre crisi a noi più vicine, nel tempo e nello spazio, sono quelle della Bosnia, dell' Algeria, della Cecenia. Le accomuna un'identità religiosa di cui da tempo si parla senza riuscire a comprenderla e a farla capire; e le accomuna un identico atteggiamento dell'Europa di cinica attesa e di cautissime avances compiute più per timore o interesse che per il barlume di una qualsivoglia strategia. Nel caso della Cecenia il silenzio è stato così palesemente colpevole, e neppure riscatBibliotecaGinoBianco tato dall'altruismo del volontariato, che si è cercato di minimizzare e nascondere la presa di posizione di personaggi comunque scomodi come Havel e Walesa, che già avevano messo in guardia l'Europa dallo scegliere la semplice realpolitik come guida ai rapporti con lo zar Elcyn. È davvero il "realismo" il valore a cui informare una trattazione critica e informata, cioè un giudizio, delle questioni internazionali più rilevanti? O non è un segno di impotenza e rassegnaz10ne, analogo a quella che impegna da tempo i progressisti di ogni parte d'Europa a cercare alleati tra i personaggi e le formazioni politiche più diverse per ritrovare un ruolo che da soli non riescono ad avere? Questa rivista è fatta principalmente da intellettuali e operatori sociali, nel senso più ampio che i due termini possono avere, e a intellettuali e operatori sociali intende prevalentemente rivolgersi. Non ha titolo, quindi, e neppure intenzione, per costituire un luogo da cui si possano inviare suggerimenti alle cancellerie, alle diplomazie, agli eserciti. Sente, però, il bisogno primario di ritrovare un filo conduttore alla comprensione del mondo, non solo come antidoto all'impotenza e alla rassegnazione, ma come continuità con una posizione che ha sempre rifiutato la logica dei blocchi e il realismo della guerra fredda. L'impegno degli intellettuali, che il recente centenario dell'Affaire Dreyfus non è riuscito a riproporre e rivitalizzare o a distogliere dal presenzialismo televisivo-giornalistico, ha sempre avuto, dall'illuminismo e dal romanticismo in poi, una costante verifica proprio nell'interesse per gli affari altrui, nell'interferenza con le vicende di altri popoli e nazioni. Quest'anno ricorrerà il sessantesimo anniversario del congresso per la libertà della cultura che si tenne a Parigi nell'estate del 1935. Esso costituì l'esempio più elevato e significativo, per il numero e il nome dei partecipanti e per il momento storico in cui si svolse, di quell'impegno e di quel rifiuto dell'indifferenza e della rassegnazione. Ma esso mise anche in luce, in una maniera che divenne chiara soprattutto dieci o vent'anni dopo, le ambiguità e i pericoli del manicheismo ideologico, dell' asservimento della verità alla ragione politica, della disinvolta sottovalutazione dell'etica e, perché no, anche dell'estetica. La questione dell'atteggiamento verso i problemi internazionali e quella dell'impegno degli intellettuali nell'aiutare a comprenderli è quindi qualcosa che ci riguarda e che vogliamo ci riguardi sempre di più. La Cecenia ha trovato spazio nelle pagine dei giornali, ma non nelle menti e nei cuori degli uomini, neppure di quelli solitamente "di buona volontà". Non è paradossale, anche se può sembrarlo, che ancora oggi Cuba riesca a catalizzare firme e appoggi in nome di idee e speranze che la storia ha per il momento screditate, mentre la cultura e l'identità di un popolo sono abbandonati all'oltraggio e. al~aSOJ?raffaz~one senza un pizzico di emoz10ne, per non dire di partecipazione o pietà. Non è con altri e contrapposti appelli, pur se ve ne sarà bisogno, che si riuscirà a ricreare quel tessuto di comprensione e di empatia che è la base, assieme a un'informazione attenta, per poter giudicare e capire regioni vicine e lontane ma sempre più interdipendenti con noi. È invece con l'individuazione, che non potrà essere né facile né immediata, dei valori e dei criteri di giudizio che debbono e possono presiedere oggi ai rapporti internazionali. Valori assoluti è difficile trovarli oggi; ma lo fu anche cinquant'anni fa, come ci ricordano gli esempi diversi ma ugualmente illuminanti di George Orwell o di Simone Weil. Comunità, etnia, religione, nazione possono essere concetti nobili o nefasti, realtà da difendere o da cui difendersi, e non sempre è facile .distinguere, scegliere, partecipare. In nome di cosa si saprà da che parte stare e quali valori propugnare? Dell'Occidente, visto che l'Oriente e il Terzo mondo hanno mostrato come . . sogm e utopie possano pro-

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