Nuova Repubblica - anno V - n. 31 - 4 agosto 1957

(174) nuo11a repubblica LA COLLEZIONECAVELLINI UN'OCCASIONE CULTURALE N ON C'E' che da congratularsi con la Soprintendenza alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna per aver accolto il suggerimento da più parti avanzato (e fra l'altro su queste stesse colonne: NR n. 112, 27 .mag– gio 1956) ospitando tempestivamente a Valle Giulia (con un bellissimo catalogo a cura di P. Bucarelli e G. Caran– dente) gran parte delle pitture della collezione Cavellini di Brescia. Si ricorderà, che la 'collezione di Achille Ca– vellini è l'unica italiana, e forse d'Europa, dedicata esclu– sivamente alla pittura ed alla scultura europee del nostro dopoguerra. Quanto questo periodo sia stato, ed anzi tut– tora sia, fertile di risultati eccellenti, di qua come di là dalle Alpi, per opera di due generazio?i di artisti, è stat? detto in più occasioni, e non occorre ripeterlo. Del resto e qui la collezione Cavellini, ancora, ad attestarlo; perchè questo è anzitutto, dell'esposizione romana, il significato di fondo, importantissimo tanto per la critica, per artisti e collezionisti (che hanno un indubbio peso culturale), quanto per l'intera nostra cultura: esiste una nuova tra– dizione figurativa (come del resto letteraria e cinemato– grafica, almeno), vecchia di circa soli dieci anni, ma or– mai così definita da poter esibire appunto una propria storia ed una propria assoluta autonomia. Siamo grati a Cavellini di aver coraggiosamente anticipato persino l'in· tervento, generoso ma troppo spesso tardivo, della critica, imponendo così perentoriamente questa constatazione. Non intendo qui ripetere quanto già detto sui criteri, assolutamente critici e storiografi (esemplari persino mu– seograficamente), del collezionismo di questo ingegno– sissimo commerciante bresciano, se occorre, invece, di– scutere e recensire proprio la sua scelta, quale mera indicazione critica appunto. Cavellini è stato pittore; ha poi rinunciato alla pit– tura avendo visti già ampiamente realizzati molti pro– blemi nei risultati dei primi pittori nuovi da lui cono– sciuti: Birolli, Vedova, Santomaso, Morlotti, nel '46. Da allora Cavellini ha preferito collezionare direttamente le pitture (e poi le sculture) altrui, anzichè esemplare su quelle L propri tentativi pittorici. C'è dunque una ra- ---giorie piuttosto precisa all'origine del suo criterio di scel– ta, e, sia pure con evoJuzioni e. progressivi arricchimenti di vedute, questa ragione è stata la base « teorica » dei primi dieci felicissimi anni del suo collezionismo. In un suo libro, di prossima pubblicazione, CaveJlini parla spes~ so di emotività, di presa quasi sensoria dei dipinti da lui preferiti. E questa presa sensoria si opera su piano parallelo, di Ticreazione, o molto spesso di surrogazione emotivamente più efficace e vibrata, di episodi tipica– mente « naturali ». Ecco profilarsi dunque il problema di una nuova e moderna configurazione della « natura »: quale timbro emotivo, appunto, ricordo ed insieme pre– senza, Confluenza visiva e direi quasi tattile, olfattiva, ed insieme intuizione di una comune consistenza, di una non dissimile creatività. Una natura dunque non più «esterna», e neppure quindi « interna » (non più coin de nature insomma); una condizione invece di assoluta immediatezza, oltre qualsiasi ormai pedestre ed inattuale definizione nozionale delle «cose», di umanità immedia– ta, che è pure apertamente socialità. Coglieva così Ca– vel1ini anzitutto, intuitivamente, un problema che tuttora mi sembra sfuggire per buona parte alla nostra critica, ed è invece di base alla più qualificata e giustificata ri– cerca di buona parte almeno dei pittori contemporanei in Italia ed in Francia: quella appunto dell'istituzione di un rapporto di natura in condizione non figurativa, e dun– que non tradizionalmente realistico. Cavellini, affaccian– dosi al problema astratto, ne indagò le più varie possibi– lità di orientamento. Già le primissime scelte, Birolli e Vedova almeno, esprimevano questa duplice possibilità, accomunata nei risultati sul piano dell'intensità emotiva, di una pittura sensoriale (naturalmente in senso più lato) e di una pittura altrettanto schiettamente, e soltanto anzi, ideologica. Da un lato si apriva la via ai francesi, da Estève a Bazaine, a1la Vieira da Silva, a LapQujade, a Lagrange, a Lapicque, a Ubac, al polacco Zyw, ed in certo senso persino a Manessier (misticismo, ma quanto sensibile!, malgradoL ed insieme, in Italia, a Corpora, a Santomaso, fino ai giovani Ajmone, Brunori, Chighine, Vacchi; dall'altra ai tedeschi, da Hartung a Winter, a Werner, a Baumeister, a Schneider, ed in certo modo an– che al francese André-Poujet. Ed è per questa via, forse, che Cavellini ha raggiunto il surrealismo, da Matta, a Brauner, a Dubuffet, al giovane ed eccellente Dova. La condizione « post-cuiista » picassiana del primo Bi– rolli e del primo Morlotti (ed era la condizione generale, non solo europea, de11e arti figurative nell'immediato no– stro dopoguerra) gli aperse i problemi, in Italia, di Gut– tuso, di Moreni, di Cagli, di Afro, di Cassinari, e persino di Turcato; in Francia di Pignon, di Le Moa1, di Tal Coat, di Dominguez, di Gischa, fino, ora, ad Atlan. E d'altra parte la propria matrice così largamente espres– sionista non gli ha permesso neppure di ignorare l'espres– sionismo «nordico», almeno in un suo caposcuola quale il danese Jorn. Il problema astratto, d'altra parte, doveva necessariamente includere, a Cave11ini non sfuggendo la (/Jis. di Di1io Boulii) UN PASSO ALLA VOLTA - Coraggio, abbiamo la u 500 ))! loro qualità e la loro sicura consistenza problematica, anche un Soldati, un Magnelli, un Reggiani, un Capo– grossi, un Singier, un PoliakofI, un Fontana, ed infine anche un Parisot. E non è forse ancora una concomitanza di sensoriale ((materismo», di impulso emozionale espres– sionista, di indagine surreale che ha indirizzato, pure recentemente, Cavellini verso Burri, come del resto, an– cora, verso Dubuffet, infine verso il giovane ed interes– sante austriaco ((veneziano» Beer? Non sono questi i problemi più vivi in Europa nel de– cennio circa del nostro dopoguerra? E non· quelli citati i nomi degli artisti che quei problemi hanno agitato e variamente risolto? Cavellini è stato lungamente severo con la generazione successiva a questa dei « suoi pittori», del resto suoi coetanei, e soltanto dal '55 ha cominciato a collezionarli, principiando da Brunori. Ora ha puntato anche su Dova, ma possiede pure, s'è detto, Ajmone, Chi– ghine, Vacch~ per gli stranieri Beer. E' innegabile (seppure si po\iebbero proporre senz'altro Carmassi, Ro– miti, Scordia, almeno per gli italiani) che neppure qui Cavellini ha sbagliato. L ACUNE in tutte queste scelte? sì, certo, e forse an– che numerose: alcune comunque del tutto ingiustifi– cate, e proprio in base all'indirizzo generale della raccol– ta: Merlotti e Moreni recenti, sono le più gravi; altre: il primo Pizzinato, Breddo, Prampolini, Cagli successivo al '49, Licini, e fra i francesi almeno l:!Jbac più rece_nte. Ma alcune altre assenze, giustamente~esibite, e proprio a · Roma, sono rifiuti che certa critica dovrebbe meditare, sono la denuncia esplicita di fitte zone, fra giovani e meno giovani, di ripullulante estetismo, di vuoto e vagolante culturalismo, eternamente à la page, e privo di qual– siasi effettiva concretezza e giustificazione. Del resto la rettezza critica di Cavellini si conferma nella scelta dei Guttuso: sono presenti sue opere del '47 e del '48, asso– lutamente eccezionali, e fra le cose più belle esposte a Valle Giulia. E non era allora Guttuso uria dei più forti, se non il più calibrato e maturò dei nuovi pittori ita– liani? Dal '49, se non erro, Cavellini non ha più acqui– stato Guttuso: e non è iniziata allora l'involuzione che lo ha stroncato? Non credo sia il caso, anche per ragioni di spazio, di tentar qui una storia della pittura di Birolli, quale pure sarebbe possibile in base alle 55 tele esposte (dal '46 ap– punto al '56). Piuttosto è bene riproporre almeno il sen– so della vicenda de11a nuova cultura figurativa europea così efficacemente rappresentataci da Cavellini: non sol– tanto il superamento progressivo e definitivo di qualsiasi condizione effettivamente « astratta » e privativa del non figurativo, ma pure l'intera fondazione dì una nuova mo– dalità espressiva, di immediatezza assoluta di gesto e di– scorso, quale comunicazione inerente infatti all'atto stes– so della prassi artistica (tradizionalmente invece dele– gata solo a rappresentare con i propri mezzi l'effettivo valore dell'opera, a questa prassi quindi in realtà esterno). Un'occasione culturale dunque, la mostra romana, as– solutamente eccezionale. Come ha risposto, numeroso e molto interessato il pubblico, la stampa nazionale quo– tidiana e periodica? Con notevole vivacità indubbiamen– te e con ampi consensi: silenzio quasi assoluto invece sui q~otidiani della capitale. Renato Giani su n Quotidlia– no (14 giugno 1957) ha ricordato la mostra in un ar– ticolo di cinque colonne, dichiarando testualmente: «... del– la Collezione Cavellini, esposta alla Galleria d'arte mo– derrra, di cui (sic!) non intendiamo occuparci»; altri hanno preferito invece tacere completamente. A tanto giunge l'ignoranza dei nostri critici giornalisti? A tanto l'irresponsabilità culturale dei direttori che con tutta fa– èiloneria li scelgono ed avallano? EN.RlCO CRISP!)LTI 7 BIBLIOTECA • IL SECONDO DISGELO > I N UN BREVE discorso tenuto a Leningrado nel l936 di fronte ad una assemblea di letterati e di studenti, André Gide tra l'altro sosteneva: « Dal momento stes– so in cui la rivoluzione trionfa e mette radici, l'arte corre un tremendo pericolo, simile a quello che le peggiori oppressioni dei vari fascismi le minacciano: il pericolo d'un'ortodossia. L'arte che si sottomette ad una ortodos– sia, fosse anche quella d~lla più sana dottrina, è perduta. Naufraga nel conformismo. Quel che la rivoluzione trion– fante può e deve offril·e all'artista è innanzitutto la li– bertà. Senza questo l'arte perde signrticato e valore». Queste osservazioni di Gide nascevano evidentemente dal timore o forse già dalla certezza che nell'Unione So– vietica l'arte si riducesse ad applaudire le realizzazioni del regime e che l'unica e forse l'ultima preoccupazione della giovanissima società comunista fosse ormai quello di contemplarsi, di ammirarsi. Di qui nasceva una «letteratura-specchio», una lette– ratura cioè che si limitava, in modo deplorevole, ad es– sere un riflesso d'una società, di un evento, d'un'epoca, senza mai portare 'il contributo di nuovi interrogativi, di ardite e libere anticipazioni, senza vedere in prospettiva i problemi della società e della cultura, senza impostare questioni non ancora enunciate. Gide allora soggiungeva: « E poichè il consenso della maggioranza, gli applausi, il successo, i favori vanno na– turalmente a quanto il pubblico subito coglie ed approva, cioè al conformismo, mi chiedo non senza inquietudine se nell'URSS gloriosa di oggi non fermenti, ignorato daJla massa, un Baudelaire, un Keats, un Rimbaud che, in proporzione diretta col suo valore, stenta a farsi sentire. Ebbene, è lui che sopra ogni altro mi preme: sono i disil– lusi di ieri, i Rimbaud, i Keats, i Baudelaire, gli Stendhal persino, quelli che domani saranno riconosciuti i più grandi». A venti anni di distanza, i sospetti "ingiuriosi'' di Gide hanno mostrato uno per uno il loro volto reale e cata– strofico. Venti anni di agiografie di Stalin, di pedagogi– smi sulla figura ideale e sulla funzione del perfetto co– munista, sulla felicità colcosiana e l'amore tra gli aratri e le incudini, sulla pace fumante delle ciminiere e sulla volontà inoppugnabile di risolvere e superare i piani quinquennali, stanno a dimostrare lo stato di decadenza, di sudditanza ad una errata politica culturale e di ade– sione passiva al regime, di cui la (<letteratura-specchio» degli scrittori sovietici è rimasta vittima. Dopo tanto artigianato paziente e meticoloso, dopo tante pedanterie catechistiche, dopo Vera Panova e le sue officine, Giorgio Gulia e i suoi contadini, e quel b.lrd_o socialista privo di ali poetiche che era Fadeev, sembro, con la comparsa de n Di.sgelo, che si realizzasse almeno l'ultima speranza di Gide, che un nuovo Baudela~re :mr– gesse cioè dalle rovine della letteratura sovietica per spa– lancare le porte di un èffettivo mondo poetico. Non era importante che molte pagine scoprissero l'i:1- tenzìone polemica dell'autore; che i vari personaggi del romanzo simboleggiassero ognuno un nuovo problema, ognuno un nuovo stato d'animo e che il gusto della de– nuncia si sovrapponesse allo sforzo artistico. Ehrenburg rovesciava o per lo meno incrinava un costume di sog– gezione, l'adesione acritica ad una ortodossia, ricreava i presupposti fondamentali per il lavoro artistico, e questo era importante. Figure appena abbozzate, psicologicamente incerte ed ingenue, un mondo purtroppo ancor privo di vere emo– zioni, sempre legato alla produzione e ai piani, al di– battito di sezione e a un senso scolaresco della disciplina, potevano fin dal primo momento determinare il sospetto che il nuovo Baudelaire sovietico rispondesse in misura irrilevante alla speranza di Gide. Ma Ehrenburg era stato il primo ad impugnare gli strumenti della critica, in un ambiente letterario propenso soltanto al1e celebra– zioni ed il coraggio di cui gli si dava atto costituiva nel nost;o giudizio un primo rispett6 alle qualità letterarie. Abbiamo ammirato prima ancora il ribelle che lo scrit– tor,e, sperando anche con Gide che .dalla via della. ribel– lione potesse scaturire un nuovo orizzonte letterano. Ma Ilia Ehrcnbm·g, proprio quando la storia sembrava dargli ragione ed era giunto il momento di spiccare un volo più ardito e più correttamente ispirato dalle muse,_ .ha preferito ritirare le ali e tornare n~i ranghi dell'antica mediocrità. Nel Di-sgelo II (Torino, Einaudi, 1957), l'irri– tazione di un ingegnere dà luogo soltanto a poveri casi di coscienza; l'amicizia e la disciplina entrano in un c?n– flitto apparente, che si risolve sul piano degli umo~·1. ! degli abbracci tardivi; l'amore trova con estrema facilita la via dei cuori e un velo di tranquillità e di assopimento ricade sulla vita dei più vari personaggi; i nuovi diri– genti politici sono più comprensivi dei precedenti, capi– scono di più gli uomini, li rispettano e li guardano con larghi sorrisi, con occhi luminosi. La cosa più sensazionale nel Disgelo II è la mancanza quasi assoluta di dialogo e di estro d~scritt~vo_; ogni pe.r– sonaggio rumina in se stesso i propn pensieri, pensa m fo!·ma dialogata, come se parlasse da solo .ad alt~ ~ace, si auto-racconta gli avvenimenti e le conversazioni. E anche questa è pedagogia, ripensamento morale; l'auto– critica ha insegnato il soliloquio. Il Baudelaire sovietico è dunque rientrato nella sto– ria nella storia dei disillusi di ieri, e gli uomini del do– ma'ni non sono ancora sorti. Ma i delusi di oggi hanno, devono avere ancora: il diritto ·di sperare. FRANCO BOIARDI

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