Nuova Repubblica - anno IV - n. 28 - 8 luglio 1956
... (118) nuova repubblica Miser,ia eroica e nobiltà eroina ( Dis. di Dino Boschi) ==L=U=C=I==D=E=L=L=A=·=R=I=B=A=L=T=A===-1 L'll luglio cade il trigesimo della morte di Corrado Alvaro. Parlarne, come qui ne parla Vito Pandolfi, esaminando una presumibile vo– cazione teatrale interrotta, è uno dei modi per ricordarlo ancora, per ricordarci il suo rigoroso impegno morale e i limiti del tempo in cui egli con noi viveva (v. già in. N.R., del 17 . giu– gno u. s., P. F. Listri, « Lirica e dramma»). e APITA assai di rado che uno scrittore non prenda contatto, prima o poi, con il teatro o con il ci– nema. Sembra che ciò si debba alla fatalità delle cose. Difficilmente tuttavia questi contatti si svolgono con continuità e possono condurre a risultati compiuti. La loro vanità dipende probabilmente dalle circostanze della vita sociale, che creano fratture e incomprensioni tra le diverse attività, una malintesa e incerta divisione del lavoro. Corrado Alva1·0, nella sua professione di giornalista che, com'è noto, nel nosti·o paese accompagna spessis– simo quella dello scrittore, si accostò alla vita del teatro come critico di uh quotidiano (Il Popolo di Roma), e fu indotto da questa assiduità a tentare la prima prova con Il càfjè dei naviganti ( 1939). Gli era pressoché im– possibile trasferire la materia della sua opera narrativa in argomento e vicenda teatrale, perciò si affidò in que– sta prima esperienza a un tema largamente :Scontato, quello dell'incontro tra gli intellettuali del Nord, presi dai loro problemi e dalle loro fisime, con la vita sem– plice e gioiosa delle popolazioni, ancora quasi primitive, del Mediterraneo. L'eco letteraria non influì soltanto sÙlla scelta del tema, ma anche sulla sua trattazione, e ·sulla psicologia tutta di maniera dei personaggi e dei loro con– trastati amori. A questo si aggiunga l'inesperienza tea– trale dell'autore, la debolezza del suo senso scenico, e si comprenderà facilmente come ci si trovi dinanzi ad un'opera del tutto mancata.· Dopo qualche anno e molte vicende, ritroviamo Al– varo alla critica teatrale, nel Mondo, e poco dopo autore rappresentato con buon successo di Lunga notte di Me– dea (1949). La critica saggistica che affrontava sul Mondo si confaceva assai meglio alle sue qualità - çhe tra sag– gismo e giornalismo propendevano invariabilmente per il primo e l'impegno morale che esso richiede - e gli offrì modo cli presentare pregevoli scorci critici in cui, as– sai meglio che nel giudizio dello spettacolo vero e pro– prio, si facevano luce sul conto dell'opera teatrale in esame complesse elaborazioni intellettuali, ispirate alla problematica di ordine etico che fu filo conduttore di tutta la sua opera. Alcuni drammi e alcuni autori gli davano la possibilità di esprimere pensose e penetranti considerazioni' (che ameremmo rileggere in volume ac– canto alle sue cronache cinematografiche). Di fronte alla ribalta non mancavano taluni suoi errori di prospettiva, dovuti probabilmente al fatto che lo scrittore Alvaro pro– vava sempre un certo senso di disorientamento ed im– barazzo di fronte alle norme dello spettacolo (anche le sue sceneggiature cinematografiche - per la verità piut– ·tosto scarse - si adeguavano con difficoltà alle esigenze espressive del nuovo strumento artistico) mentre sapeva scendere con sapiente introspezione nell'intimità del fatto ,umano e nella rilevanza del fatto sociale indicato dal dramma. Limga notte di Medea si mantiene fedele nello svolgimento dei fatti alla versione euripiclea del mito; la traduce in un linguaggio e in un'atmosfera paesani, da villaggio della Magna Grecia; oltre a ciò conferisce ai personaggi una dimensione umana, li definisce attra:verso una psicologia corrimovente e .èomprensibile, quotidiana, per cui Giasone _diviene un ambizioso abbastanza con– scio delle sue debolezze, ma non per questo disposto a rinunciarvi, •ff";:,Medea qualcosa tra la chiromante e la fattucchiera; a cui l'età riserba ormai ogni sconfitta; i cui stessi poteri costringono a farne uso per una inevi– tabile, atroce rivalsa. Il dialogo si snoda vivacissimo, ricco di movimento e cli varietà, dall'umoristico al li– rico al tragico. L'azione prende così una vita autentica e mai interrotta. Tuttavia la visione del mito non è rin– novata al punto dallo spiegarne la rielaborazione: la sua disamina naturalistica non viene portata alle ultime con– seguenze, non viene giustificata in un ambito maggiore, storico. L'interesèante tentativo - a cui Tatiana Pavlova diede una viva e immaginosa veste scenica - difficil– mente, ci sembra, potrà entrare a far parte del reper– torio usuale e potrà venir ripreso senza mostrare la corda degli anni. Il drammaturgo Alvaro aveva compiuto un passo decisivo nel suo lavoro, giungendo a concepire un'opera schiettamente teatrale, ma non poteva ancora riconoscere in sé il mondo che avrebbe vo1uto portare sulla scena, l'equivalente - nel senso della felicità espres– siva - al mondo della sua vena di romanziere e. cli no– vellatore. Un cammino e una vocazione interrotti? NON CI RIESCE cli credere che le vocazioni siano deci- siv~. Le possibilità invece esistono oppure mancano. Alvaro avrebbe avuto la possibilità cli divenire autore tea– trale: non gliene facevano difetto né l'amore né l'estro. Tuttavia - a nostro parere - gravi .ostacoli gli hanno impedito di farli fruttare al tempo dovuto, e questi osta– coli appaiono di due generi. Il primo, la scarsa circola– zione che il nostro repertorio effettua nel nostro teatro, quindi l'assenza di un vero professionismo, la difficoltà di applicarsi ad un'a.ttività che pur avendo un fonda– mento pratico offre solo aleatorie e spesso irrisorie ri– sorse di vita. Il secondo, le condizioni fra cui oggi viene a sorgere e a svilupparsi la nostra letteratura - su cui qui sarebbe fuori luogo soffermarsi - ma che .senza dub– bio si svolgono in modo da attrarre assai debolmente il pvbblièo, perché legate a concetti che - ahimé - ri– fuggono con sdegno dall'empirismo e· dal funzionalismo, dai compiti che hanno cioè di fronte al pubblico, per in– segu1re astratti ideali di purezza artistica, naturalmente tanto più irraggiungibili quanto più sono forti le buone intenzioni di raggiungerli. Non è qui la sede neppure di 1ndaga1·e quali .fattori storici - dalla controriforma in poi - inducano a questo forzato isolamento. Qui ci basti segnalare come anche, Alvaro abbia stentato a trovare il senso di una comunicazione diretta con il pubblico, cioè con il suo paese, e come ciò, superato spesso nella parte migliore della sua narrativa, abbia invece oppresso l'abbozzo cli drammaturgia avanzato nei suoi due lavori. Le sue elaborazioni drammatiche avrebbero anch'esse po• tuto trovare uno sbocco concreto e positivo, qualora fos– sero state nettamente più larghe e aperte le possibilità di lavoro. VITO PANDOLFI 7 l . Il I B L I O '1 1 E C A * CANTI SARDI L A LETTURA dei Canti (I canti barbaricini e I canti ·del salto e della tanca riuniti in un solo vo– lume) di Sebastiano Satta (Milano, « Lo specchio», Mondaclori, 1956), ora ripubblicati con lodevole inizia– tiva, ci riporta nel clima cli una Sardegna antica (ma non certo mitica) che se oggi è mutato lo è solo nella misura in cui siano mutate le condizioni morali e so– ciali che lo caratterizzavano e che agli occhi del poeta .barbaricino, morto nel 1914, apparivano ancora in pieno rilievo. Della sardità tradizionale il Satta fu un cantore ap– passionato e allo stesso- tempo un interprete lucido e acuto; così ·oggi possiamo dire che il suo lirismo sempre esuberante e quasi ditirambico è p,erò sempre contenuto dentro un disegno della realtà esatto da un punto di. vista storico; e ancora, che la « dolorante anima sarda», di cui parlava indicando in una forma apparentemente così enfatica il centro emotivo della sua ispirazione, non è per lui un motivo letterario gratuito, ma un meditato giu– dizio di storia: di una storia che, come quella sarda, si era sempre spiegata (e ancora ai suoi tempi continuava a spiegarsi) sotto il segno del dolore, in un avvicendarsi di calamità e di tragedie pubbliche. I sardi .J·iconobbero subito in lui il « cantore della stirpe» appunto perchè egli riusciva a interpretare e a cantare con tanto sentimento d'amore e, insieme, con tanto spirito critico la loro uma– nità storica; e non gli risparmia1'ono in vita e in morte quelle dimostrazioni di stima e di affetto che contempo– raneamente negavano ad altri sardi e in particolare alla Deledda. Ma i pochi critici « naz.ionali » che si, occuparono di lui quando si conobbero le due raccolte di canti pubbli– cate, nel ·1924, cl;i,l Nuraghe cE Cagliari, parlarono di « retorica e imitazione», come disse il Momigliano (il quale scopriva « qualche lineamento cli poesia» soltanto nelle « prime cento pagine » dei Canti barbaricini oltre che in alcuni Canti dell'ombra), collocarono forzosamente il Satta nella schiera degli imitatori minori e provinciali della triade Carducci-Pascoli-D'Annun~io e, in genere, eccettuato qua.lche giudizio più acuto dovuto a letterati meno famosi, non gli ·riconobbero altro merito che quello della sua sardità, ma cli Una sardità tutta sentimentosa e folkloristici che co_nisponcleva molto bene soltanto al– l'idea che se ne aveva nel grosso dell'opinione pubblica ,nazionale. Nessuno si cmò di leggere seriamente i suoi canti sociali, çosì solenni e ricchi cli significati che rap– presentavano la sua tematica maggiore ( « Ode al Gèn– nargentu », « La madre dell'ucciso», « Alle madri di Barbagia », « Ai rapsodi sardi», « Ai mietitori del Cam– pidano», « L'Alternos »), e tanto meno di seguire lo svi– luppo del suo linguaggio poetico che partendo dall'inge– nuità e genericità tutta scolastica dei versi giovanili ·e passando poi per queste odi cli forme ancora ruvide e difficoltose, era giunto al più sciolto, distinto e simme– trico cantare cli « Egloga », di « Emigranti » e soprat– tutto cli « Ai morti di Buggerru », scritto per i minatori uccisi nel 1904 dalle forze cli polizia, che ·mostrava un livello cli maturità artistica molto avanzato anche rispetto alla più illustre lirica del suo tempo. Tutto lo sforzo che fece per il Satta la critica nazionale (mentre quella sarda si limitava spesso a un'esaltazione tutta passionale del « vate») fu di rnettere in primo piano il volto minore della sua po.esia, cioè tutte quelle liriche che se potevano adattarsi a essere catalogate fra i romanticismi o pasco– lismi di varia sfumatura non riuscivano però a dare la figura intera del poeta e a vederlo nella sua vera luce di cantore popolare e sociale; ma era un modo come un altro per restringere la validità e l'attualità di un poeta che si prestava ·così i:nale, proprio ideologicamente, a es– sere allineato fra i letterati neutrali, almeno, di fronte alle « idealità nazionali» che andavano dilagando, con quei suoi motivi di canto che indicavano i drammi an– tichi ma anche quelli nuovi e presenti di una società regionale sempre incompresa e sempre malgovernata. Infatti, nel 1924, quando apparve l'edizione cagliaritana, i tempi e, più o meno conseguentemente, i canoni della critica ufficiale cominciavano· a essere quèUo che sareb– bero diventati dopo, quanto al libero esame letterario; e così, anche con l'aiuto della critica, e dei suoi schemi sbrigativi e restrittivi, il Satta fu ufficialmente dimen• ticato; ma ·gli esemplari dei Canli, la cui pubblicazione, curata dal Carta Raspi, e mai più ripetuta era stata l'ultimo atto di amore dei sardi verso il loro poeta, fu– rono custoditi fra le memorie più care della sardità e della libertà. Certo, il Satta morì troppo presto, e non potè giun• gere alla fase massima cli sviluppo della sua arte e della sua tematica sarda e sociale; ma anche con quel tanto 'd'incompiuto e d'inespresso che è rimasto in una parte dei suoi canti, egli meritava una fortuna critica ben di– versa e ben più seria di quella che ha avuto. Oggi, al lume delle nuove esperienze letterarie ·e culturali, è na– turalmente più facile fare un discorso più originale in• torno alla sua· poesia, e vedere per esempio come la sar– dità (così come era intesa da lui e dai sardi del suo tempo) contenga motivi stOl'ici e rnorali più che suffi– cienti per essere vista sotto un aspetto cli « nazionalità» piuttosto che di regionalismo o, tanto meno, di provin– cialismo; il che può essere dedotto oltre che dai canti dalle parole che egli stesso scrisse in varie occasioni ai suoi amici. E,. partendo da questa constatazione, sarebbe agevole liberare l'opera del Satta dagli schematismi di una critica ormai abbastanza logora e provinciale che l'ha vista solo di riflesso e di scorcio in relazione alla sua dipendenza dal Carducci, dal Pascoli o dal D'Annunzio, e introdurlo invece nel campo aperto cli una poesia etnica, popolare, civile (in senso del tutto diverso da quello che. C (1 (])' ~ Q ■- ; c
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